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Roberto Celada Ballanti

BORGES, LEIBNIZ E I MONDI POSSIBILI. CONTRIBUTO


ALLASTORIADELLE “MONADOLOGIE LETTERARIE”
DEL XX SECOLO1

1. La poetica dei mondi possibili e il tempo

Per Gottfried W. Leibniz, tempo e durata, insieme a spazio ed esten-


sione, rappresentano coppie di astrazioni, «phénomènes bien fondés».
Le parti dell’estensione e della durata, insieme alle misure che le indi-
viduano, non sono componenti del continuo reale ma, scrive Leibniz,
«fictions propres à contenter l’imagination, mais où la raison ne trouve point
son compte»2.

“Fictions”: la parola, ricorrente nel filosofo di Hannover per definire


il carattere astratto e incompleto delle nozioni dello spirito, è atta a pro-
piziare una relazione con le fantasie metafisiche di Jorge Luis Borges, lo
1
È stato Hans Poser a parlare di «monadologie del XX secolo» in Monadologien des 20 Jahr-
hunderts, in A. Heinekamp (ed.), Beiträge zur Wirkungs- und Rezeptionsgeschichte von Gottfried
Wilhelm Leibniz, in «Studia Leibnitiana - Supplementa» XXVI(1986), pp. 338-345. La storia di
tali monadologie contemporanee, come rileva Renato Cristin, costituisce a tutt’oggi un desideratum
(cfr. R. Cristin, La camera oscura. Implicazioni e complicazioni del soggetto in Leibniz, in «aut
aut» CCLIV-CCLV[1993], p. 168). Sulla storia degli effetti della monadologia leibniziana, cfr. gli
Atti del Convegno di studi celebratosi a Salerno il 10-12 giugno 2004, contenuti in B.M. d’Ippolito
- A. Montano - F. Piro (eds.), Monadi e Monadologie. Il mondo degli individui tra Bruno, Leibniz
e Husserl, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005. Per citare le opere di Jorge Luis Borges e Leibniz si
farà uso delle seguenti sigle: TO: J.L. Borges, Tutte le opere, a cura di D. Porzio, Mondadori, Milano
2000, 2 voll.; GP: C.I. Gerhardt (ed.), Die philosophischen Schriften von Gottfried Wilhelm Leib-
niz, Weidmannsche Buchhandlung, Berlin 1875-1890, 7 voll.; Neudruck, Hildesheim 1960-1961;
A: Preußischen (später Deutschen) Akademie der Wissenschaften zu Berlin, Sämtliche Schriften und
Briefe, Reihe I-VII, Darmstadt (später: Leipzig, zuletzt Berlin) 1923 ff.; SF: M. Mugnai - E. Pasini
(eds.), Scritti filosofici di Gottfried Wilhelm Leibniz, UTET, Torino 2000, 3 voll. Tutte le sigle sono
seguite dal numero del volume, eventualmente della serie, e della pagina.
2
GP III, p. 623; SF III, p. 442. Si tratta di un testo tratto da una lettera a Nicolas Remond
del 1714. Rinvio per il problema complessivo del tempo in Leibniz al mio volume Erudizione e
teodicea. La concezione della storia di G.W. Leibniz, Liguori, Napoli 2004, capitolo 1, pp. 99-227.

Hermeneutica (2020) 175-195

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scrittore argentino barocco nell’ispirazione, se non nella scrittura, assilla-


to e incuriosito dai paradossi del tempo tanto da ritenerlo, come si legge
in Storia dell’eternità (1936), «un tremulo ed esigente problema, forse il
più importante della metafisica»3, ed erede novecentesco per eccellenza,
per quanto eterodosso, della leibniziana teoria dei mondi possibili.
Proprio a tale parola – (finzioni, ficciones) – Borges ha legato, come è
noto, la sua raccolta di racconti forse più celebre. Qual è, dunque, in lui la
natura di tale finzione, di tale idealismo, applicato allo spazio e al tempo,
ai mondi possibili, messo a confronto con il filosofo seicentesco?
Ha certo il peso del destino il fatto, ricordato nel Prologo a L’oro
delle tigri (1972), che per il piccolo Borges la “preoccupazione filosofi-
ca” sia sorta in coincidenza con la comprensione, avvenuta ad opera del
padre e con l’aiuto di una scacchiera, della corsa di Achille e della tarta-
ruga4. Felice destino, spirituale e poetico se, come sembra, alla scoper-
ta dei paradossi di Zenone, ossessivamente ricorrenti nella narrazione
borgesiana, si deve originariamente l’impulso, peculiare dello scrittore
argentino, a dissolvere il reale in un reticolo di impressioni evanescenti,
a praticare una vertiginosa e perturbante osmosi tra reale e possibile,
così che innumerevoli mondi (nati? non nati?) tendono a incunearsi, a
filtrare nell’universo visibile insidiandolo, destabilizzandolo, duplican-
done i piani, attentando alla sua permanenza e sostanzialità.
Come in Pierre Menard, autore del Chisciotte, dove si immagina
che un romanziere riscriva assolutamente identici alcuni capitoli del
capolavoro di Cervantes nel XX secolo, la duplicazione oblitera l’origi-
nale e – aggiunge Maurice Blanchot – cancella «perfino l’origine»5. Il
mondo è una selva barocca di doppi, un labirinto di specchi e simulacri,
un’ecumene di biforcazioni rizomatiche, la somma infinita dei possibi-
li, come il pianeta di Tlön abitato da idealisti che, involontari discepoli
di George Berkeley e David Hume – i filosofi, insieme a Arthur Scho-

3
TO I, p. 523.
4
Cfr. TO II, p. 453. Per la biografia di Borges rinvio a D. Porzio, Jorge Luis Borges, Edizioni
Studio Tesi, Pordenone 1992. Per il cenno fatto all’episodio della scacchiera e dei paradossi di Ze-
none, cfr. ibi, pp. 50 ss. Si veda anche, in merito, F. Savater, Borges, tr. it. di F. Saltarelli, Laterza,
Roma-Bari 2003, pp. 19-20. Del testo di Fernando Savater cfr. in particolare il cap. 5 (Il sorriso
metafisico), pp. 97-119, dedicato alle relazioni di Borges con la filosofia.
5
Cfr. M. Blanchot, L’infinito letterario: l’Aleph, in Id., Il libro a venire, tr. it. di G. Ceronetti
- G. Neri, Einaudi, Torino 1969, p. 103. Quanto al racconto a cui si è fatto riferimento, intitolato
Pierre Menard, autore del Chisciotte, esso si trova in Finzioni, TO I, pp. 649-658.

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penhauer, prediletti da Borges –, fanno della metafisica «un ramo della


letteratura fantastica»6.
In ciò, Borges è certo l’espressione novecentesca più compiuta,
come si accennava, di quella poetica dei mondi possibili che proprio
in Leibniz trova la sua origine, i cui geniali suggerimenti segnano un
punto di transizione fondamentale tra l’antica teoria mimetica dell’arte
e quella moderna dell’autonomia del linguaggio artistico7.

2. Possibile, compossibile, incompossibile. Il giardino dei sentieri che


si biforcano e il sogno di Teodoro

Non si tratta, però, nello scrittore argentino, come accade in Lei-


bniz, di tenere aperto, dietro l’esistente, lo spazio infinito dei possibili,
così da garantire la contingenza delle cose e da eludere necessitarismo
e spinozismo. Nella labirintica strategia borgesiana avviene qualcosa
che, minacciando di scardinare quel “rasoio di Ockham” costituito
dalla teoria leibniziana degli incompossibili, il filosofo tedesco non
avrebbe potuto avallare: si tratta del costante transito tra possibile e
reale, della permeabilità tra compossibile e incompossibile, che fini-
sce per estenuare, fino a renderli impalpabili, i confini tra i due domi-
ni, per Leibniz invalicabili, avendo essi a che fare con l’atto creativo
con cui il Deus existentificans fa passare ad esistenza uno solo tra gli
infiniti mondi presenti nel suo intelletto.
Tra Il giardino dei sentieri che si biforcano e il sogno di Teodoro
che chiude i Saggi di Teodicea, come suggerisce Gilles Deleuze8, esi-
ste antitesi radicale, quasi il geniale racconto borgesiano poliziesco-
metafisico fosse lo specchio rovesciato – come il diritto sta al rovescio
– delle celebri pagine leibniziane.
Nella narrazione borgesiana del 1941, come è noto, un cinese, spia
della Germania in terra inglese durante la prima guerra mondiale, nel
6
Cfr. il racconto Tlön, Uqbar, Orbis Tertius, in Finzioni, TO I, p. 631.
7
Sulla poetica di Leibniz come distacco dalla teoria normativa della mimesis e come origine
della poetica dei mondi possibili, si veda L. Dolezel, Poetica occidentale. Tradizione e progresso,
tr. it. di A. Conte, Einaudi, Torino 1990, capitolo 2 (pp. 43-67). Sulla teoria del romanzo in Ger-
mania nel Seicento, cfr. U. Bavaj, Mythoscopia romantica. Teoria del romanzo in Germania, vol.
I, 1629-1698, Castelvecchi, Roma 1996 (in particolare su Leibniz pp. 80-81).
8
Cfr. G. Deleuze, La piega. Leibniz e il Barocco, tr. it. di V. Gianolio, Einaudi, Torino 1990,
pp. 93 ss.

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corso della sua fuga notturna dalla polizia, approda a un giardino-labi-


rinto che finisce per rivelarsi un libro senza fine, un libro-labirinto nel
quale l’antico autore – il saggio Ts’ui Pên, antenato della spia fuggi-
tiva – al racconto di una vicenda faceva seguire la biforcazione delle
possibili varianti della stessa, facendo di queste il punto di partenza di
ulteriori ramificazioni temporali, e così via all’infinito.
«A differenza di Newton e di Schopenhauer – spiega al cinese-spia Stephan
Albert, il dotto sinologo depositario del giardino e dei suoi misteri –, il suo
antenato non credeva in un tempo uniforme, assoluto. Credeva in infinite serie
di tempo, in una rete crescente e vertiginosa di tempi divergenti, convergenti
e paralleli. Questa trama di tempi che s’accostano, si biforcano, si tagliano o
s’ignorano per secoli, comprende tutte le possibilità. Nella maggior parte di
questi tempi noi non esistiamo; in alcuni esiste lei e io no; in altri io, e non lei;
in altri, entrambi. In questo, che un caso favorevole mi concede, lei è venuto
a casa mia; in un altro, traversando il giardino, lei mi ha trovato cadavere; in
un altro io dico queste medesime parole, ma sono un errore, un fantasma»9.

L’assassinio del sinologo Albert ad opera del cinese-spia – delit-


to apparentemente assurdo mediante il quale, in realtà, i tedeschi sono
avvertiti, con la notizia divulgata dai giornali della città dov’erano di-
slocate le artiglierie inglesi – riceve giustificazione, agli occhi dell’omi-
cida, proprio nell’idea dei tempi plurimi e ramificati, sicuro che il suo
atto criminale avverrà solo all’interno di un universo ma non negli altri,
e che altrove ritroverà amica la sua vittima.
Una Stimmung di stupore, o di sgomento, autentico thauma, assale
chi confronti tale fantasia metafisica di Borges al celebre racconto conte-
nuto nelle ultime pagine degli Essais de Théodicée, destinato a rivelarsi,
si diceva, il perfetto antipode della narrazione borgesiana. Qui, Teodoro,
trasportato in sogno nel Palazzo dei destini vegliato dalla dea Pallade,
vede la piramide degli appartamenti che contengono l’infinità dei mondi
possibili esistenti nella mente divina, al vertice della quale sta il migliore,
l’unico mondo, nella concorrenza tra i possibili, venuto ad esistenza:
«Tali mondi – spiega la dea custode a Teodoro – son tutti qui, vale a dire in
idee. Te ne mostrerò alcuni, nei quali si troverà non esattamente il medesimo
Sesto che hai visto [...], ma dei Sesti che gli si avvicinano [...]. Troverai, in un

9
J.L. Borges, Il giardino dei sentieri che si biforcano, in Finzioni, TO I, pp. 700-701.

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mondo, un Sesto assai felice ed educato, in un altro un Sesto contento di una


condizione mediocre, dei Sesti di ogni specie e di un’infinità di maniere»10.

Spicca il parallelismo tra le due situazioni, dove la variante deter-


minante introdotta da Borges è l’ammissibilità del pensiero che Leibniz
aveva rigettato: la compossibilità di tutti i possibili, divenuta, nell’uni-
verso borgesiano, il labirintico giardino dei sentieri che si biforcano,
dei tempi plurimi che fioriscono e pullulano a grappoli, intersecandosi,
convergendo, divergendo, in base a un dinamismo che, ancora con De-
leuze, si potrebbe definire “rizomatico”.
Solo nel dominio del poetico, del romanzesco, per Leibniz, si dà la
possibilità del coesistere di universi paralleli. Il romanziere, per Leibniz, è
in questo senso un imitatore della Mens Dei: il suo Erzählen è ricettacolo
di tutti i possibili, come in Dio coesistono tutte le trame, tutti i romanzi,
tutti i tempi, dei quali solo uno si storicizzerà, solo uno filtrerà attraverso il
meccanismo metafisico degli incompossibili: è, questo, il “romanzo della
vita umana”, come si legge nei Saggi di Teodicea (§ 149; GP VI, pp. 198-
199; SF III, p. 216), ossia la storia universale del genere umano. Romanzo
segnato dalla migliore serie di eventi possibile, per quanto in itinere, e
sempre bisognoso di nuovi tomi11. Solo il tempo come idea di Dio è una
trama di tempi ramificati e paralleli, dal momento che ciascun mondo,
anche se destinato a non nascere, in quanto implicante un certo ordine di
accadimenti, deve possedere un proprio spazio e un proprio tempo.
Nel dominio del poetico, del romanzesco, come nell’intelletto di-
vino, non si dà, per Leibniz, il problema della compossibilità, vale a
dire della compatibilità tra gli eventi dell’universo. Affinché una storia
sia possibile, è sufficiente che non sia contraria ai princìpi di identità e
di non contraddizione, mentre per esistentificarsi è necessaria, in più,
la sua compossibilità, come si legge in una lettera a Louis Bourguet
(dicembre 1714), che potremmo definire uno dei testi fondativi della
poetica dei mondi possibili:
«Non concordo per nulla sul fatto che per sapere se il romanzo di Astrea è
possibile occorra conoscere la sua connessione con il resto dell’universo. Ciò

10
GP VI, p. 363; SF II, pp. 395-396.
Rinvio, sul tema, alla mia monografia Erudizione e teodicea, cit., capitolo 3, pp. 403-470.
11

Cfr. anche S. Givone, Il bibliotecario di Leibniz. Filosofia e romanzo, Einaudi, Torino 2005.

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sarebbe necessario per sapere se esso è compossibile e, di conseguenza, se


tale romanzo è stato, oppure è, oppure sarà in qualche angolo dell’universo.
Perché, di certo, senza ciò, non vi è spazio per esso. Ed è del tutto vero che ciò
che non è per nulla, e non è stato per nulla, e non sarà, non è affatto possibile,
se possibile significa compossibile [...]»12.

Qui, in effetti, la poetica leibniziana evidenzia un distacco dalla teoria


dell’arte come mimesis. Più che imitare la natura, la poiesis appartiene a
uno spazio ontologicamente dislocato rispetto al reale, quale è il dominio
dei possibili. L’universo leibniziano, come chiarito, non è la somma di
tutti i possibili, ma dei compossibili, è il prodotto dell’unica serie di even-
ti scelti da Dio tra gli infiniti, così che neppure il minimo particolare, al
suo interno, potrebbe essere mutato senza coinvolgere il resto, mentre le
ramificazioni virtuali degli universi non nati restano prerogativa di poeti
e romanzieri.

3. Il possibile e l’ucronia

Una conseguenza mette conto rilevare: quella per cui nella storia,
nel romanzo di Dio venuto ad esistenza, per Leibniz, non c’è spazio
per l’ucronia, intesa nell’accezione di colui che ha coniato il termi-
ne, Charles Renouvier (1815-1903), il filosofo francese autore – oltre
che di una Nouvelle Monadologie (1899) – di quella Uchronie (1857;
1876)13, contro cui si scaglierà l’ironia di Benedetto Croce in La sto-
ria come pensiero e come azione14, e che invece, in Italia, troverà in
Adriano Tilgher un estimatore15. No, la storia, per Leibniz, non si può
fare con i “se”, il tempo storico non è per lui un tronco dalle tante ra-
12
GP III, pp. 572-573.
13
C. Renouvier, Uchronie (l’Utopie dans l’histoire). Esquisse historique apocryphe du dé-
veloppement de la civilisation européenne tel qu’il n’a pas été, tel qu’il aurait pu être, ed. cit.
Fayard, Paris 1988. Sull’anti-storicismo di Renouvier e su Uchronie, cfr. A. Deregibus, L’ultimo
Renouvier. “Persona” e “storia” nella filosofia della libertà di Charles Renouvier, Tilgher, Ge-
nova 1987, in particolare la Parte II. Sul concetto e il significato di possibile rinvio a G. Zingari,
Speculum possibilitatis. La filosofia e l’idea di possibile, Jaca Book, Milano 2000.
14
B. Croce, La storia come pensiero e come azione, Laterza, Bari 1966, pp. 19-20.
15
Cfr. in particolare di A. Tilgher, Il casualismo critico, Bardi, Roma 19442. Una sintetica
ricostruzione della nozione di “ucronia” e delle dispute filosofiche cui essa ha dato luogo, si trova
nella Postfazione di G. De Turris, intitolata Tutti i futuri del mondo. Le ragioni del Possibile, al vo-
lume Se la storia fosse andata diversamente. Saggi di storia virtuale, a cura di J. Collings Squire,
tr. it. di M. Frassi, Corbaccio, Milano 1999, pp. 291-326.

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mificazioni, per quanto sia il più ricco e il più vario possibile, poiché
espressione del migliore dei mondi. Solo il tempo prima del tempo,
il tempo in mente Dei, non ancora passato nel “setaccio metafisico”
degli incompossibili, come si è detto, presenta simili ramificazioni.
Quale sia la ragione di ciò, lo documenta eloquentemente un pas-
so dello scritto De libertate, contingentia et serie causarum atque de
providentia ove il filosofo, evocando in che modo nel corso della sua
riflessione si era affrancato dalla tentazione del necessitarismo, relega
l’ipotesi dei mondi paralleli all’immaginazione dei poeti, ai romanzi,
scartandone la co-creazione in nome della salvezza della contingentia
mundi, inscindibilmente legata, per lui, alla «bellezza dell’universo» e
alla «scelta delle cose».
All’interno di tale pagina, in quel «qualcuno» che, nella vastità in-
finita di spazio e tempo, immagina esistere alcune «regioni dei poeti»
(regiones poetarum) dove si vedono muoversi i personaggi dei roman-
zi, si potrebbe identificare proprio Borges, che finirebbe così per tro-
varsi in una singolare quanto scomoda prossimità nientemeno che col
Renato Cartesio dei Principia Philosophiae, da Leibniz ritenuto a sua
volta non lontano – quanto alla tesi della ricezione in successione, da
parte della materia, di tutte le forme possibili – dallo stesso panteismo
di Baruch Spinoza:

«Da questo precipizio mi ritrasse tuttavia la considerazione di quei possibili


che non sono, non saranno, né furono: infatti, se alcuni possibili non esistono
mai, gli esistenti non sempre sono necessari, altrimenti sarebbe impossibile che
al loro posto esistessero altre cose, e anzi tutte le cose che non esisteranno mai
diverrebbero impossibili; né, in verità, si può negare che siano possibili parec-
chie storie favolose di quelle che vengon chiamate romanzi, sebbene non abbian
luogo in questa serie dell’universo che Dio ha scelto. A meno che qualcuno non
si immagini che in tanta vastità di spazio e di tempo ci siano alcune regioni dei
poeti dove sia possibile vedere re Artù di Gran Bretagna, Amadigi di Gaula
e Teodorico di Verona come viene rappresentato nelle leggende dei Tedeschi,
mentre vanno a giro per il mondo. Opinione questa, dalla quale un insigne fi-
losofo del nostro secolo sembra non essere molto lontano, in quanto afferma
espressamente, da qualche parte, che la materia accoglie successivamente tutte
le forme delle quali è capace (Princip. philos. parte III, artic. 47). Ma ciò non si
può difendere in alcun modo: così infatti viene eliminata ogni bellezza dell’u-

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niverso e qualsiasi scelta delle cose; per tacere ora di altre considerazioni, dalle
quali si può evincere il contrario»16.

4. La scrittura letteraria come creazione di mondi

Per quanto in Leibniz, e ancor più in Borges, la categoria del possibile


si carichi di valenze utopiche e ucroniche, già Aristotele, pur muovendosi
all’interno del paradigma mimetico dell’arte, parlava della poesia come
dominio del possibile, contrapponendola, nel celebre capitolo 9 della Po-
etica, alla storia, come dominio del fattuale. Altrettanto fa Luciano nel
suo trattato Come si deve scrivere la storia (166 d. C.) (cfr. § 8 ss.).
Che la poesia, in questo senso, come detto in precedenza, si sostanzi
di un multiverso traboccante di possibili, e che lo scrittore sia un “hace-
dor”, un fabbro di universi, pochi come Borges lo hanno testimoniato nel
Novecento letterario. La scrittura letteraria come creazione di mondi: non
è all’opera, in ciò, un infernale gioco di specchi che rischia di liquefare, in
un vortice osmotico, il discrimine tra invenzione e realtà? Se, come pensa
l’argentino, il mondo è un libro e, memore Don Chisciotte, il libro è il
mondo, da questa corrispondenza che fonda la poiesis borgesiana, come
nota Blanchot,
«nascono temibili conseguenze. Anzitutto viene a mancare ogni termine di ri-
ferimento. Il mondo e il libro si rimandano eternamente e infinitamente le loro
immagini riflesse. Questo potere indefinito di riverberazione, questo scintil-
lante e illimitato moltiplicarsi che è il labirinto della luce e che peraltro non è
nulla, sarà allora tutto ciò che troveremo, vertiginosamente, in fondo al nostro
desiderio di comprendere»17.

Di chi è dunque la finzione, del libro, dell’universo ritenuto solida-


mente dato, o forse di entrambi? Dove abita, se abita, l’ubi consistam?
Forse, solo nella forza plastica della parola? Autenticamente arrischian-
te è allora il potere della parola, perché, alla fine, il mondo appare un
gioco della sua creazione. Creazione errante, fragile, evanescente, ma

16
A VI, 4 B, pp. 1653-1654; SF I, pp. 422-423.
17
M. Blanchot, op. cit., p. 102. Per il cenno fatto alla distinzione aristotelica tra poesia e
storia, mi limito a rinviare allo studio di G. Lombardo, L’estetica antica, il Mulino, Bologna 2002,
pp. 102-104 e alla relativa bibliografia.

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insieme strutturalmente segnata dal tragico, che sorge, infinitamente


plurale, nel varco mai del tutto rimarginabile che si apre tra il linguag-
gio e le cose, il cui rapporto di designazione appare nello scrittore ar-
gentino disponibile a paradossali dislocazioni di senso.

5. Il Libro, l’Universo e la Biblioteca di Babele. Il frammento sull’


Apokatastasis

Dai libri, dalle biblioteche, fu grandemente attratto anche Leibniz


e il suo secolo. È Walter Benjamin a osservare nel Dramma barocco
tedesco che
«il Rinascimento esplorava l’universo, il Barocco le biblioteche. Il suo pensie-
ro assume la forma del libro»18.

In effetti, oltre che dal collezionismo – la cui ossimorica, interna, lo-


gica tesa a un “ordinato disordine” Benjamin, nel suo saggio su Eduard
Fuchs, il collezionista e lo storico19, nonché Italo Calvino in Collezio-
ne di sabbia, hanno finemente concorso a illuminare – e dall’enciclope-
dismo, analoga malattia di un’età assillata dal senso del frammentario
e insieme dell’unità, il Seicento è sedotto come pochi altri secoli dagli
spazi vasti e severi delle biblioteche.
E Leibniz, che ha potuto essere definito «ein Mann des Buches»20,
che ha stilato tanti progetti enciclopedici, che ha promosso la coopera-
zione tra gli studiosi – la Repubblica delle lettere21 – per il progresso del
genere umano, fu familiare alla res bibliothecaria fino a ricoprire l’in-
carico di bibliotecario della casa di Braunschweig-Lüneburg dal 1676
e di direttore della Biblioteca di Wolfenbüttel a partire dal 1691. L’ab-
bozzo di una babelica Biblioteca universale, impressionante per erudi-
zione e vastità di interessi si trova, ad esempio, elaborato da Leibniz nel
18
W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, tr. it. di F. Cuniberto, Einaudi, Torino 1999, p.116.
19
Il saggio citato di Benjamin si trova in Id., L’opera d’arte nell’epoca della sua riprodu-
cibilità tecnica. Arte e società di massa, tr. it. di E. Filippini, Einaudi, Torino 1991, pp. 79-123.
20
La definizione è di W. Totok, in Leibniz als Wissenschaftsorganisator, in W. Totok - C.
Haase (eds.), Leibniz. Sein Leben - Sein Wirken - Seine Welt, Verlag für Literatur und Zeirgesche-
hen, Hannover 1966, pp. 307-308. Su Leibniz e le biblioteche mi limito a rinviare a M. Palumbo,
Leibniz e la res bibliothecaria, Bulzoni, Roma 1993.
21
Sul tema cfr. H. Bots - F. Waquet, La Repubblica delle lettere, tr. it. di R. Ferrara, il Mulino,
Bologna 2005.

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corso dell’iter italicum, tra il maggio e l’autunno del 1689, per Theodor
Althet Heinrich von Strattmann (Entwurf einer Bibliotheca Universalis
Selecta; cfr. A I, 5, pp. 428-462).
Eppure il filosofo, nato, come anche Borges amava dire di sé, in
una biblioteca e, in modo affine allo scrittore argentino, bibliotecario di
mestiere22, rifiutò l’identificazione tra Libro e Universo. Nel frammen-
to sull’Apokatastasis (1715), il rifiuto dell’identità fissata da Borges
(Libro=Universo) risulta evidente23. Così come evidente appare anche,
come ha scritto Umberto Eco, che «di Biblioteche di Babele ne sono
state sognate anche prima di Borges»24.
Una di queste si prospetta proprio nel tardo scritto leibniziano. Che
dire – vi si legge – se il tempo dei libri, delle Historiae, si esaurisse e se,

22
Borges, dopo avere lavorato in una modesta biblioteca municipale dal 1938, momento
segnato anche dalla morte del padre, fu direttore della Biblioteca Nazionale di Buenos Aires dal
1955 al 1974, anno nel quale si dimise dall’incarico per ragioni politiche, legate al ritorno al gover-
no dei peronisti. Ma, come per Leibniz, prima ancora, decisiva fu la biblioteca paterna: «Mi sarà
permesso di ripetere che la biblioteca di mio padre è stata il fatto capitale della mia vita? La verità
è che non sono mai uscito da essa, come mai uscì dalla sua Alonso Quijano» (J.L. Borges, Epilogo
a Storia della notte, TO II, p. 1115).
23
Rinvio alla mia traduzione e analisi del frammento: G.W. Leibniz, Storia universale ed
escatologia. Il frammento sull’Apokatastasis (1715), a cura di R. Celada Ballanti, Il Melangolo,
Genova 2001, e al capitolo 4 della mia monografia, Erudizione e teodicea, cit., pp. 509-555, che
riprende e riformula il saggio contenuto nel volume prima citato.
24
U. Eco, Tra La Mancha e Babele, in Id., Sulla letteratura, Bompiani, Milano 2002, p. 115.
Nel medesimo testo cfr. anche Borges e la mia angoscia dell’influenza, pp. 128-146. Alla bibliote-
ca leibniziana, nonché alla dottrina dell’apocatastasi, Eco dedica alcune fini pagine in La ricerca
della lingua perfetta nella cultura europea, Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 289 ss. Di Eco, sugli
stessi temi, ricordo anche lo scritto De Bibliotheca, in Id., Sette anni di desiderio, Bompiani, Mila-
no 1995, pp. 237-250. Sulla biblioteca nella letteratura si veda l’agile volumetto di R. Nisticò, La
biblioteca, Laterza, Roma-Bari 1999, che alle pp. 67-83 sosta su Il nome della rosa (1980) di Eco,
romanzo al centro del quale, com’è noto, sta una labirintica biblioteca, e sulla Biblioteca di Babele
di Borges. Il nesso Eco-Borges propizia l’evocazione di almeno altri due scrittori italiani del No-
vecento memori sia dello scrittore argentino quanto di Leibniz, e che in questo senso appartengono
a una storia delle monadologie letterarie del XX secolo: Italo Calvino e Carlo Emilio Gadda.
Sull’argomento rinvio allo studio di R. Paoli, Borges e gli scrittori italiani, Liguori, Napoli 1997.
Inoltre, su Gadda: G.C. Roscioni, La disarmonia prestabilita. Studi su Gadda, Einaudi, Torino
1995 (con interessanti riferimenti a Leibniz); R.S. Dombrosky, Gadda e il barocco, tr. it. di A.R.
Dicuonzo, Bollati Boringhieri, Milano 2002; E. Raimondi, Barocco moderno. Roberto Longhi e
Carlo Emilio Gadda, Bruno Mondadori, Milano 2003. Cenni su Gadda e Calvino in prospettiva
leibniziana si trovano in R. Cristin, La camera oscura. Implicazioni e complicazioni del soggetto
in Leibniz, cit., pp. 176 ss. Ricca di suggestioni è anche la conferenza di José Ortega y Gasset del
1935, La missione del bibliotecario, tr. it. di A. Lozano Maneiro - C. Rocco, SugarCo Edizioni,
Carnago 1994. Si veda inoltre L. Canfora, Il copista come autore, Sellerio, Palermo 2002, con fini
riferimenti a Borges (pp. 15 ss.).

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Borges, Leibniz e i mondi possibili 185

a un certo punto, quasi i fili che innervano il textum, l’ordito del testo,
si pietrificassero in atomi di numero finito, le stesse cronache, gli stessi
libri ritornassero? Così suona l’esperimento mentale proposto nel fram-
mento sull’Apokatastasis. Il numero delle lettere alfabetiche – argomen-
ta Leibniz – è finito, perciò finite, per quanto numericamente sterminate,
sono anche le loro combinazioni. Supposto che il genere umano perman-
ga sulla terra un numero di anni sufficiente a realizzare tutte le storie
universali annuali, contenute in un’ipotetica e poderosa Biblioteca sto-
rica universale, verrà un giorno in cui le stesse cronache, gli stessi libri
si ripeteranno, sia riguardo alle cronache pubbliche che a quelle private.
Il tempo del libro è, dunque, sin qui, un tempo anulare, ricurvo su
stesso, statico, i cui atomi-lettere, cabalisticamente o per ars combina-
toria, esauriscono le possibilità originali e, a un certo punto, finiscono
per ripetersi. Sembra qui anticipato il finale della Biblioteca di Babe-
le borgesiana, anch’essa circolare, eterna perché periodica, nella quale
alla fine si ritrovano gli stessi libri nel medesimo ordine-disordine:
«Chi lo immagina [il mondo] senza limiti, dimentica che è limitato il numero
possibile dei libri. Io m’arrischio a insinuare questa soluzione: La Biblioteca è
illimitata e periodica. Se un eterno viaggiatore la traversasse in una direzione
qualsiasi, constaterebbe alla fine dei secoli che gli stessi volumi si ripetono
nello stesso disordine (che, ripetuto, sarebbe un ordine: l’Ordine). Questa ele-
gante speranza rallegra la mia solitudine»25.

Ma tra le due babeliche e barocche Biblioteche – quella del filo-


sofo tedesco e quella dello scrittore argentino –, come si diceva, una
differenza c’è: alla fine, dalla Biblioteca universale di Leibniz si esce,
perché il Mondo è più grande del Libro, perché nessun volume può
esaurire l’infinito in atto nelle cose, perché Dio, il Grande Biblioteca-
rio, trascende da tutti i lati la Biblioteca viaggiando in essa – quasi fosse
un Dio ermetico – a velocità infinita. Nella Biblioteca di Borges, priva
di Trascendenza, si resta invece invischiati in un circolo infinito.
Inoltre, la beffa – sgomentante beffa! – della borgesiana Biblioteca
di Babele è che il Libro dei libri, il Catalogo dei cataloghi, il “libro che
sia la chiave e il compendio di tutti gli altri”, che contenga la lingua se-
greta di Dio, è andato perduto, forse non è mai esistito, perciò manca un

25
TO I, pp. 688-689.

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186 Roberto Celada Ballanti

codice capace di indicare se le vastissime, ma non infinite, combinazioni


dei venticinque simboli ortografici di cui risultano composti i libri della
Biblioteca, nessuno uguale a un altro, abbiano un senso oppure siano un
coacervo di «insensate cacofonie, di farragini verbali e di incoerenze»26.

6. Labirinti ortografici e libri di sabbia

Qui, la ricerca di una parola vera, che sia il senso di tutte le altre, è
senza approdo e senza speranza, e l’uomo è come il cercatore del Graal o
Don Chisciotte perduto in una selva oscura di combinazioni ortografiche.
Difficile esprimere con maggiore poieticità lo smarrimento di un centro
nevralgico del reale e insieme l’esperienza del Tod Gottes dell’uomo con-
temporaneo. Difficile, anche, esprimere con superiore e più eccentrica
suggestione quel pensiero, antichissimo e venerabile, che dai Veda e dalle
Upanishad, da Sofocle e Parmenide, giunge fino a William Shakespeare,
a Calderón de la Barca, a Schopenhauer, del mondo come parvenza illu-
soria, come velo di Maya. In questo senso, l’espressione schopenhaueria-
na ricordata anche in Il tempo e J.W. Dunne27, leggibile in Die Welt als
Wille und Vorstellung – opera amata come poche altre da Borges28 – se-
condo cui «la vita e i sogni son pagine d’uno stesso libro»29, rappresenta
forse la cifra più appropriata alla poiesis borgesiana.
Il libro dove vita e sogno si confondono potrebbe essere uno degli
enigmatici volumi che popolano i relatos dello scrittore argentino: potreb-
be essere quel «gran libro circolare dalla costola continua, che fa il giro
completo delle pareti»30, che si rivela essere Dio, della Biblioteca di Ba-
bele. Oppure quel «volume ciclico, circolare [...] la cui ultima pagina fos-

26
TO I, p. 682. Sulla rivelazione in Borges, cfr. C. Magris, Borges o la rivelazione che non
viene, in Id., Itaca e oltre, Garzanti, Milano 1982, pp. 113-121.
27
Cfr. J.L. Borges, Altre inquisizioni, in TO I, pp. 924-928.
28
«Poche cose ‒ si legge nell’Epilogo dell’Artefice ‒ mi sono accadute più degne di memoria
del pensiero di Schopenhauer o della musica verbale d’Inghilterra» (TO I, p. 1267). Cfr. anche J.L.
Borges, Altre conversazioni, tr. it. di F. Tentori Montaldo, Bompiani, Milano 1989, p. 142, dove si
conferma la triade filosofica formata da Berkeley-Hume-Schopenhauer come quella prediletta dal-
lo scrittore argentino. Poco, tutto sommato, invece, ricorre nell’opera e nelle conversazioni borge-
siane il nome di Leibniz, che resta una presenza, per quanto sostanziale, più discreta e clandestina.
29
A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, tr. it. di N. Palanga, Mursia,
Milano 1985, p. 54.
30
TO I, p. 681.

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se identica alla prima, con la possibilità di continuare indefinitamente»31,


che si incontra nel dedaleo Giardino dei sentieri che si biforcano. O, an-
cora, quel misterioso Libro di Sabbia che uno sconosciuto venditore am-
bulante propone bussando un giorno alla porta al protagonista narratore
nell’omonimo racconto: libro diabolico, senza inizio né fine, che è lecito
considerare la figurazione cartacea dei paradossi di Zenone – analoga-
mente al Castello di Franz Kafka, scrittore zenoniano come pochi – così
che, per quanto se ne sfoglino le pagine, non se ne raggiunge mai la prima
né l’ultima:
«Mi disse che il suo libro si chiamava il Libro di Sabbia, perché quel libro e la
sabbia non hanno né principio né fine. Mi disse di cercare la prima pagina. Con
la mano sinistra sopra il frontespizio, cercai la prima pagina con il pollice quasi
incollato all’indice. Tutto fu inutile: tra il frontespizio e la mano si interponevano
sempre nuovi fogli. Era come se sorgessero dal libro. “Adesso cerchi la fine”.
Fallii di nuovo; riuscii appena a balbettare con una voce che non era la mia: “Non
è possibile”»32.

7. «... quel pezzettino di tenebra greca». I paradossi di Zenone

Anche al tempo accade come a quel libro luciferino, “una cosa


oscena che infamava e corrompeva la realtà”, alla fine abbandonato in
uno scaffale qualsiasi della Biblioteca Nazionale di Buenos Aires: sog-
getto a divisione infinita, inafferrabile come un vortice di polvere che
turbina nell’aria, come i sogni e i granelli di sabbia in La scrittura del
Dio33, o le incalcolabili schegge di un’esplosione:
«Gli ignoranti – si legge in La lotteria a Babilonia – suppongono che infiniti sor-
teggi richiedano un tempo infinito; basta, in realtà, che il tempo sia infinitamente
divisibile, come insegna la famosa parabola della Gara con la Tartaruga»34.

Così, Borges applica al dominio del tempo i paradossi di Zenone.

31
TO I, pp. 697-698.
32
TO II, p. 650. Borges ha legato il Castello di Kafka ai paradossi di Zenone, vedendo nel
romanzo del praghese una configurazione dell’antico problema, in Kafka e i suoi precursori, Altre
inquisizioni, TO I, pp. 1007-1009.
33
Cfr. TO I, pp. 857-862.
34
TO I, p. 671.

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Ecco, di quella antica gara ricordata nel brano, la riproposizione offerta


dall’argentino nel saggio La perpetua corsa di Achille e della tartaruga:
«Le implicazioni della parola gioiello – preziosa piccolezza, delicatezza non
soggetta alla fragilità, facilità somma di trasporto, limpidezza che non esclude
l’impenetrabilità, fiore per gli anni – la rendono di uso legittimo qui. Non cono-
sco migliore qualifica per il paradosso di Achille, tanto indifferente alle decisive
confutazioni che da più di ventitré secoli l’aboliscono, che ormai possiamo salu-
tarlo immortale. Le ripetute visite al mistero che tale lunga durata postula, le sot-
tili ignoranze a cui essa ha invitato l’umanità, sono generosità di fronte alle quali
non possiamo non sentire gratitudine. Viviamolo ancora una volta, anche se solo
per convincerci di perplessità e di intimo arcano. Penso di dedicare alcune pagi-
ne – alcuni condivisi minuti – alla sua presentazione e a quella dei suoi correttivi
più rinomati. È noto che il suo inventore fu Zenone di Elea, discepolo di Parme-
nide, il quale negava che qualcosa potesse accadere nell’universo. [...] Achille,
simbolo di rapidità, deve raggiungere la tartaruga, simbolo di lentezza. Achille
corre dieci volte più svelto della tartaruga e le concede dieci metri di vantaggio.
Achille corre quei dieci metri e la tartaruga percorre un metro; Achille percorre
quel metro, la tartaruga percorre un decimetro; Achille percorre quel decimetro,
la tartaruga percorre un centimetro; Achille percorre quel centimetro, la tartaruga
un millimetro; Achille il millimetro, la tartaruga un decimo di millimetro, e così
all’infinito; di modo che Achille può correre per sempre senza raggiungerla»35.

Sin qui, conclude Borges, il paradosso immortale, “quel pezzetti-


no di tenebra greca” tanto antico quanto intrascendibile, perciò ancora
futuro – come la leggenda cinese dello scettro dei re di Liang, che si
dimezzava a ogni nuovo re e che, mutilato da dinastie, esiste ancora36 –,
paradosso definito da una realtà semplice e terribile come una linea ret-
ta. In La morte e la bussola, infatti, mentre Scharlach sta per ucciderlo,
Lönnrot rimprovera al suo assassino di aver ideato, per irretirlo in una
trappola mortale, un labirinto inutilmente complesso:
«Nel suo labirinto – disse alla fine –, ci sono tre linee di troppo. Io so di un
labirinto greco che è una linea unica, retta. In questa linea si sono perduti tanti
filosofi che ben vi si potrà perdere un mero detective. Scharlach, quando in un

35
TO I, pp. 379-380. Su Borges e i paradossi di Zenone, cfr. P. Odifreddi, C’era una volta
un paradosso, Einaudi, Torino 2006, pp. 196-198 e Id., Un matematico legge Borges, in «Micro-
mega» 5(2002), pp. 46-57. Interessanti riferimenti a Borges si trovano in P. Zellini, Breve storia
dell’infinito, Adelphi, Milano 1996, e in A. Sani, Infinito, La Nuova Italia, Firenze 1988.
36
Cfr. TO I, p. 385.

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Borges, Leibniz e i mondi possibili 189

altro avatar lei mi darà la caccia, finga (o commetta) un delitto in A; quindi


un secondo delitto in B, a otto chilometri da A; quindi un terzo in C, a quattro
chilometri da A e da B, a metà strada tra i due. E m’aspetti poi in D, a due chi-
lometri da A e da C, di nuovo a metà strada. Mi uccida in D come ora sta per
uccidermi in Triste-le-Roy»37.

Le conseguenze di tale lineare dedalo, come si diceva, sono fatali


per il tempo:
«il paradosso di Zenone di Elea, come osservò James, è un attentato non solo
alla realtà dello spazio, bensì a quella più invulnerabile e sottile del tempo»38.

Anche per l’argentino, come per Leibniz,


«Zenone è incontestabile, a meno di confessare l’idealità dello spazio e del
tempo. Accettiamo l’idealismo, accettiamo l’accrescimento concreto di quanto
è percepito, e potremo eludere il brulicare di abissi del paradosso»39.

Ma profondissime sono le differenze tra le due forme di idealismo. An-


che la filosofia di Leibniz, in fondo, ambisce, analogamente alla scrittura
borgesiana, a una eterotopia, a una dislocazione di senso, dal momento che
la monade è il luogo di nessun luogo, è al di là di spazio e tempo, di esten-
sione e durata. Ma se per Leibniz accettare l’idealismo spazio-temporale
significa uscire dal labirinto, trovare il filo d’Arianna che conduce oltre i fe-
nomeni, per sé decomponibili all’infinito, fino all’unità originaria della re-
altà (la monade), per Borges equivale ad accogliere l’illusorietà del mondo,
ad assecondare il carattere allucinatorio dei sensi e delle rappresentazioni
mentali. L’idealismo diviene nell’argentino una strategia di straniamento,
una modalità, magicamente potenziata dall’esotismo dei paesaggi in cui
vengono per lo più ambientate le narrazioni, per alleggerire la fatticità del
mondo e scivolarvi fuori, per desituarsi nella vertigine del possibile. Ac-
cettare l’idealismo equivale per Borges ad accettare di sognare il mondo,
anche se non si tratta di un sogno perfetto, dal momento che restano aperti
«tenui ed eterni interstizi di assurdità, per sapere che è finto»40.

37
TO I, p. 738.
38
TO I, pp. 384-385.
39
TO I, p. 385.
40
«Noi (la indivisa divinità che opera in noi) – recita l’intero brano – abbiamo sognato il mon-
do. Lo abbiamo sognato resistente, misterioso, visibile, ubiquo nello spazio e fermo nel tempo; ma

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I paradossi di Zenone sono queste intercapedini di tenebra che sve-


lano l’esser-sogno del sogno, ma essi rivelano insieme che sotto l’esile
velo di questa estenuata finzione, di questo sortilegio, si annida il sen-
timento trivellante del Nulla, l’ombra del caos, il labirinto dell’Unsinn
che, nella parafrasi nietzschiana del Prologo del Vangelo giovanneo, sta
“im Anfang”, in luogo del Verbo41.
Questa erosione del principio di realtà insegna l’antico apologeta di
Parmenide, né la questione è di emanciparsi dai suoi sgomentanti dedali:
più fruttuoso appare a Borges restarvi invischiato, sublimando tale ir-
retimento in alchemica Verklärung poetica. No, l’argentino non resiste,
come Ulisse, alle Sirene, asseconda la seduzione abissale del loro can-
to, si lascia trascinare nel gorgo, nel calderone delle streghe – lui, con
quell’aspetto solenne che gli anni e la cecità avevano reso simile a Omero
– scendendo come Orfeo nel regno ctonio degli Inferi, deciso a bagnar-
si nelle acque dell’Acheronte per riemergervi, paradossalmente, con una
scrittura cristallina, di limpidezza geometrica e di nitore neoclassico.
Se Leibniz dal labirinto intende uscire, usando i paradossi di Ze-
none come aporie da risolvere, neutralizzandone e disattivandone le
conseguenze fatali per la razionalità delle cose, per Borges essi sono in-
dizi dell’illusorietà del mondo nei quali abitare. È così che il tempo nei
saggi e nei relatos dell’argentino subisce i più vari attentati: immobiliz-
zato in Il miracolo segreto; circolare nei saggi della Storia dell’eternità,
in L’immortale, nel Tema del traditore e dell’eroe, in La notte ciclica;
ramificato nel Giardino dei sentieri che si biforcano; polverizzato in un
vertiginoso flusso di istanti in Funes, o della memoria; attraversabile
come su una macchina del tempo in L’altro, in 25 agosto 1983 e in
Utopia di un uomo che è stanco.
Qualunque sia la figura assunta dalla sua disgregazione, il tempo
rifluisce per Borges in una paradossale eternità che non presenta più i
tratti classici del pantelos on, del summum bonum, della beatitudo, del-

abbiamo ammesso nella sua architettura tenui ed eterni interstizi di assurdità, per sapere che è finto»
(TO I, p. 399).
41
F. Nietzsche, Umano troppo umano, II, 22: «Historia in nuce. La parodia più seria che io
abbia mai sentita è questa: “In principio era l’assurdo (der Unsinn), e l’assurdo era, al cospetto di
Dio, e Dio (divino) era l’assurdo”» [tr. it. di G. Colli - M. Montinari, Mondadori, Milano 1970].
Per un commento a questo testo rinvio ad A. Caracciolo, Nichilismo ed etica, Il Melangolo, Geno-
va 1983, pp. 63-64 (nuova ed. Il Melangolo, Genova 2002).

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la erfüllte Zeit – eternità come vita pienamente giustificata, distinta dal-


la semplice immortalità o durata infinita – ma che, ormai povera come
la dürftige Zeit di Friedrich Hölderlin in Brot und Wein, può essere solo
definita nella sua prossimità a un nulla vertiginosamente oscillante tra
il mistero insondabile e il niente di senso.

8. L’ultimo nome di Dio

Se siamo ombre di un sogno, e se siamo sognati, chi ci sogna non


è il Dio di Leibniz, supremo Architetto dell’universo e Monarca della
più perfetta Repubblica degli spiriti, né quello di Berkeley, «onnipresente
spettatore il cui fine è di dare coerenza al mondo»42, ma un dio minore,
un demiurgo, un dio gnostico la cui opera, come nella cosmogonia di
Basilide, è «un processo essenzialmente futile, come un riflesso laterale e
sperduto di vecchi episodi celesti. La creazione come fatto casuale»43, ov-
vero «una temeraria o malvagia improvvisazione di angeli imperfetti»44.
«Opera di un dio sofferente e torturato» può dunque nietzschiana-
mente apparire il mondo45, o il prodotto imperfetto del «dio bambino»
dello Hume dei Dialoghi sulla religione naturale (V), in un passo ri-
chiamato in L’Idioma analitico di John Wilkins46, una sorta di Lotteria di
Babilonia dove il caso, il sorteggio di un dio giocatore prende il posto del
principio di ragione.
Pure, al fondo di questa cupa, sgomentante, opprimente fantasia te-
ologica che pare ispirata alle labirintiche architetture cosmiche delle
eresie gnostiche, popolate di sfere, di orbite concentriche, di eoni, di
gerarchie di angeli, di arconti-guardiani, di mondi in cui le anime si per-
dono e vagabondano – fantasia che, naturalmente, sta agli antipodi della
perorazione antignostica della causa del cosmo (cosmodicea) contenuta
nella Teodicea leibniziana e, prima ancora, nelle Enneadi di Plotino

42
TO I, p. 1083.
43
TO I, p. 339.
44
TO I, p. 747.
45
Cfr. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, in Opere di
Friedrich Nietzsche, vol. VI, t. 1, a cura di G. Colli - M. Montinari, Adelphi, Milano 1991, p. 30.
Sullo Zarathustra nietzschiano si legga il non benevolo giudizio di Borges, che lo accusa, se pa-
ragonato ai Vangeli, ancora “contemporanei” e “futuro”, di obsolescenza, in Altre conversazioni,
cit., p. 11.
46
TO I, p. 1005.

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(II, 9 [33]) –, la parola poetica, creatrice di pluriversi, può trasfigurare


l’orrida casualità in un più alto Nulla, in mistero che domanda di essere
rivelato. Per Borges infatti, la poiesis reca certo in sé la memoria di
una soteria, di una possibile redenzione, e il poeta, amanuense di una
qualche divinità, serba, al fondo, qualcosa dell’antico mistico potere
veritativo attribuito ai Maestri di verità.
Nulla e Nessuno, d’altronde, sembrano essere per Borges gli unici,
e ultimi, nomi di Dio, come adombra lo scritto Da qualcuno a nessuno
di Altre inquisizioni, nel quale si richiamano, in stretta analogia, la dot-
trina dell’autore del Corpus dionysiacum, quella di Scoto Eriugena e di
Samkara47. In Borges neanche Dio sa chi è – quel Dio che pure, come
nel Libro di Giobbe, parla da un turbine – secondo quanto si legge nel
finale di Everything and nothing:
«La voce di Dio gli rispose da un turbine: “Neanch’io sono; io sognai il mondo
come tu sognasti la tua opera, mio Shakespeare, e tra le forme del mio sogno
sei tu, che come me sei tanti e nessuno”»48.

9. Il tempo e l’eterno

Eternità come Nulla, dunque, o come “everything and nothing”.


Ma, anche, eternità ricurva su se stessa, come un anello per sempre
fedele al suo giro? In realtà, rifiutato sul piano cosmico-universale, per
la seconda legge della termodinamica49, l’eterno ritorno è accolto da
Borges – in discordanza da Leibniz, che nell’Apokatastasis-Fragment
nega il circolo del tempo a partire dall’infinità dell’individuale e dall’ir-
ripetibilità dei destini singoli – sul terreno personale.
La vita umana è troppo povera per non essere immortale, le espe-
rienze possibili – osserva più volte lo scrittore argentino – sono nume-
ricamente limitate e, perciò, in un tempo infinito, quasi fossero atomi
circostanziali ed evenemenziali, destinate a ripetersi:

47
Cfr. TO I, pp. 1043-1046.
48
TO I, p. 1161. Sul tema dei nomi divini nelle diverse tradizioni religiose, cfr. il fine e docu-
mentato saggio di M. Laeng, I nomi di Dio, in «Studium» 5(2002), pp. 659-669, ora in Id., Scienze
Filosofia Religione. L’enigma nello specchio, La Scuola, Brescia 2003, pp. 151-162.
49
Cfr. J.L. Borges, La dottrina dei cicli, in Storia dell’eternità, in TO I, in particolare p. 577.

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Borges, Leibniz e i mondi possibili 193

«Sospetto, tuttavia, che il numero di variazioni circostanziali non sia infinito:


possiamo postulare, nella mente di un individuo (o di due individui che si igno-
rano, ma nei quali si opera lo stesso processo), due momenti uguali. Postulata
tale uguaglianza, si può chiedere: questi momenti identici, non sono lo stesso
momento? Non basta un solo termine ripetuto per scompigliare e confondere
la serie del tempo?»50.

L’eterno ritorno accade dunque sul piano individuale. Due cose uguali
sono un’unica cosa – Leibniz docet –, due momenti uguali sono un unico
momento. È tale identità degli indiscernibili il fondamento di quell’apo-
calissi minima, di quell’eternità senza Dio e senza archetipi, sperimentata
di notte in un suburbio di Buenos Aires, descritta in Storia dell’eternità:
«Quella pura rappresentazione di fatti omogenei – notte in calma, muretto lim-
pido, odore provinciale della madreselva, fango fondamentale – non è sempli-
cemente identica a quella che ci fu in quello stesso angolo tanti anni fa; è, senza
somiglianza né ripetizioni, la stessa. Il tempo, se possiamo intuire questa iden-
tità, è un’illusione: la non differenza e la non separabilità tra un momento del
suo apparente ieri e un altro del suo apparente oggi, bastano per disintegrarlo»51.

In simili identità momentanee è dunque reso possibile l’avverti-


mento dell’illusorietà del tempo e il contatto con l’eternità. Eppure, c’è
da chiedersi se la poetica borgesiana persegua – auspici i paradossi ze-
noniani, ma anche Berkeley, Hume, Schopenhauer – una dissoluzione
tout court del tempo e della storia, o non ne cerchi piuttosto l’autentico
fondo nascosto. L’idealismo allucinatorio di Borges persegue una fuga
dal tempo e dalla storia o invece la ricerca del loro senso, dentro un
universo che si è fatto enigmatico, labirintico, sgomentante? Accanto
a tale disgregazione, in effetti, sta il riconoscimento della radicale tra-
scendentalità del tempo, così strutturale che lo spazio finisce per essere
subordinato ad esso, quasi fosse un “incidente nel tempo”:
«Lo spazio è un incidente nel tempo e non una forma universale di intuizione,
come impose Kant. Ci sono intere province dell’Essere che non lo richiedono;
quelle dell’odorato e dell’udito»52.
50
TO I, p. 1078.
51
TO I, p. 543. A questa esperienza, e alla nozione di eternità, Borges fa riferimento significa-
tivo in Conversazioni, tr. it. di F. Tentori Montaldo, Bompiani, Milano 2000, pp. 30-31.
52
TO I, p. 319. Anche in Leibniz esiste una priorità del tempo sullo spazio, secondo una linea
di pensiero che giunge fino a Heidegger. Un argomento analogo sul primato del tempo sullo spazio

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194 Roberto Celada Ballanti

Ecco, forse, perché Borges conclude la Nuova confutazione del tem-


po con un testo, assai celebre, che nell’affermazione dell’ineluttabilità
e irreversibilità del tempo, che ci divora come Crono i suoi figli, pare
prendersi gioco degli argomenti inanellati nel corso dell’intero saggio e
rappresentarne la confutazione nella confutazione:
«And yet, and yet... Negare la successione temporale, negare l’io, negare l’u-
niverso astronomico, sono disperazioni apparenti e consolazioni segrete. Il
nostro destino (a differenza dell’inferno di Swedenborg e dell’inferno della
mitologia tibetana) non è spaventoso perché irreale; è spaventoso perché è ir-
reversibile e di ferro. Il tempo è la sostanza di cui son fatto. Il tempo è un fiume
che mi trascina, ma io sono il fiume; è una tigre che mi sbrana, ma io sono la
tigre; è un fuoco che mi divora, ma io sono il fuoco. Il mondo, disgraziatamen-
te, è reale; io, disgraziatamente, sono Borges»53.

L’uomo, dunque, non l’animale, che vive nell’istante, è divorato da


Crono, conosce il tempo e la morte, unico tra gli esseri viventi. Martin
Heidegger in Sein und Zeit e in Unterwegs zur Sprache, viene da osservare,
più che Berkeley o Hume, sembra prossimo a queste riflessioni borgesiane.
A tutt’altro, invece, che a un’eternità transeunte, evanescente come il
battito del ciglio nell’Augen-blick, e a un Dio senza nome, perviene chi,
nella dottrina leibniziana, scavi sotto la “finzione” dello spirito costitui-
ta dal tempo. A differenza di Borges, Leibniz non deduce dai paradossi
di Zenone la sua inesistenza, ma semplicemente il suo dissolversi come
sostanza. Tra tempo ed eternità resta, nel filosofo di Hannover, un’intra-
scendibile differenza ontologica. E, proprio all’opposto di Borges, sta nel
filosofo tedesco una fondazione della temporalità: tanto radicale da tradire
da quale crisi del mondo, da quale enormità di crollo metafisico, quello
seicentesco, essa scaturisca.
Così, in Leibniz, tutelato dal “nihil sine ratione”, il divenire dell’uni-
verso non scorre insensato, né può essere, nel migliore dei mondi, il fat-

si legge in J.L. Borges, Conversazioni, cit.: «Sta di fatto che il tempo è più reale di noi. Si potrebbe
anche dire, l’ho anzi detto più volte, che la nostra sostanza è il tempo, che siamo fatti di tempo.
Non sempre siamo fatti di carne e d’ossa: quando sogniamo, ad esempio, il nostro corpo fisico
non importa, quel che importa è la nostra memoria e le immagini che tessiamo con essa. Questo
appartiene evidentemente a un ordine temporale, non spaziale» (p. 31). Notazioni di Borges sul
tempo sono leggibili anche in C. Costantini, Jorge Luis Borges. Colloqui esclusivi con il grande
scrittore argentino, Sovera Multimedia, Roma 2003, in particolare pp. 18 ss.
53
TO I, pp. 1088-1089.

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Borges, Leibniz e i mondi possibili 195

to bruto della teoria newtoniana o il malinconico trascolorare delle cose


verso il non-essere, ma è piuttosto epifania della bellezza, dell’armonia,
di Dio stesso. L’intelligibilità del tempo è fondata, infatti, per un verso,
nella forza attiva delle monadi, per l’altro nell’armonia prestabilita e in
Dio, che ha scelto, tra le infinite possibili, la serie migliore di cose, la cui
durata vede con sguardo “icnografico”, “a pianta completa”, dominando-
la con sguardo onniveggente e tornando, di tanto in tanto, nel Palazzo dei
destini per ricapitolare le cose e compiacersi della scelta fatta.
Solo Dio, del resto, può sopportare di vedere così il corso del mon-
do. Chi, tra gli umani, come Ireneo Funes, o come una monade senza
l’ombra delle percezioni minime, senza passività, vedesse e ricordasse
tutto con sovrumana memoria, ne morirebbe. Magari di congestione
polmonare, come lo «Zarathustra selvatico e vernacolare» del racconto
borgesiano, congestionato dall’eccesso di realtà54.

ABSTRACT

The essay aims to investigate the deep consonances between Leib-


niz and Borges. Indeed, going through the works of the Argentine writer,
one of the most profound “literary monadologies” of the twentieth cen-
tury emerges, which becomes evident in the vision of space and time, in
the category of the possible, in the paradoxes of Zeno, up to the idea of
writing as creation of unborn worlds.

KEYWORDS

Monadology, Time, Space, Eternity, Literary Writing

54
Il riferimento è a Funes, o della memoria, in Finzioni, TO I, pp. 707-715. Il personaggio
borgesiano di Ireneo Funes meriterebbe, a mio avviso, per la sua tragicità, di essere annoverato tra
le figure dell’“Idiota” della letteratura contemporanea, accanto al principe Myskin di Fëdor Dosto-
evskij, al Menuchim del Giobbe di Joseph Roth ecc. Sul tema si veda il contributo di S. Givone, La
figura dell’Idiota nella letteratura contemporanea. Da Dostoevskij a Singer e a Malamud, tenuto
al III Convegno della Sezione di Filosofia della religione della Fritz Thyssen Stiftung, svoltosi a
Santa Margherita Ligure nei giorni 5-6-7 maggio 1981 sul tema: Il problema della sofferenza “inu-
tile”, i cui atti sono stati raccolti nel fascicolo del «Giornale di Metafisica» IV, 1(1982) (il testo di
Sergio Givone è alle pp. 183-194). Nello stesso fascicolo cfr. anche la relazione di A. Caracciolo,
Figure della sofferenza fenomenicamente inutile, pp. 65-83, leggibile anche in Id., Nichilismo ed
etica, cit., pp. 31-52.

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