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Nel primo Ottocento, Peshawar era circondata da magnifiche, verdi campagne e abitata dai più riottosi,

imprevedibili, anarchici, pericolosi individui, pronti a tagliare la gola per mezza rupia. Polverosa e
caotica all’interno, la città era, esattamente come oggi, assolutamente ingovernabile.
Un giorno, il geniale Ranjit Singh, il fondatore dell’impero sikh, pensò bene di nominare governatore
della turbolenta città Abu Tabela, e per gli abitanti di Peshawar fu come essere governati di colpo da un
Tamerlano, un Barbablù e un impalatore turco messi insieme. I ladri sparirono, i rapinatori furono
squartati, gettati dai minareti o impiccati agli alberi fuori le mura e i cittadini benestanti torturati perché
mollassero il gruzzolo grande o piccolo che fosse.
Centocinquant’anni dopo, per frenare i loro figli troppo vivaci, le madri di Peshawar e di altre città
pakistane minacciano ancora di chiamare Abu Tabela.
L’aspetto più incredibile di questa vicenda, che pure presenta più di un lato stupefacente, è che Abu
Tabela non è il nome di un crudele capo uzbeko o di un capobanda patano, ma la traslitterazione, più o
meno fedele, di Paolo Avitabile, napoletano, ex cannoniere borbonico, passato a Murat, ripassato ai
Borbone, assoldato dallo shah di Persia per far pagare le tasse ai kurdi e, infine, finito a Lahore, alla
corte di Ranjit Singh. Un napoletano che divenne una figura leggendaria anche per gli inglesi, i quali
sostenevano che gli afghani guardavano Avitabile con la paura e la reverenza con cui gli sciacalli
guardano la tigre.
Per raccontare una simile storia, ci voleva un narratore straordinario come Stefano Malatesta, sulle
tracce di Avitabile da anni. Ricostruendo la stupefacente vita dell’avventuriero napoletano, Malatesta ci
offre un ritratto incomparabile del nord dell’India quando era ancora in mano agli indiani: una terra
immensa, affascinante, percorsa da eserciti che si danno battaglia, guidati da ufficiali europei che
avevano combattuto a Waterloo, dove si parlano tutte le lingue, dove i maharaja sono ricoperti dei
gioielli più costosi del mondo, dove gli esploratori sono anche spie e il più grande viaggiatore del
secolo, Alexander Gardiner, è anche il più grande bugiardo. Dove gli inglesi sono ovunque, fingendo,
ancora per poco, di essere capitati lì per caso.
Stefano Malatesta scrive racconti di viaggio e articoli d’arte e di letteratura per «La Repubblica». Ha
pubblicato, sempre da Neri Pozza, Il cammello battriano (premio Comisso e premio «Albatros-
Palestrina») e Il cane che andava per mare e altri eccentrici siciliani (premio «Settembrini 2000»), Il
Grande Mare di Sabbia.
DELLO STESSO AUTORE

Il cammello battriano
Il cane che andava per mare e altri eccentrici siciliani
Il Grande Mare di Sabbia
La pescatrice del Platani
STEFANO MALATESTA

Il napoletano
che domò gli afghani
NERI POZZA EDITORE
Avviso di Copyright ©

Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questo eBook può essere riprodotta o trasmessa in alcuna forma tramite alcun
mezzo senza il preventivo permesso scritto dell’editore.
Il file è siglato digitalmente, risulta quindi rintracciabile per ogni utilizzo illegittimo.

I edizione eBook 2015-3


Collana I NARRATORI DELLE TAVOLE
ISBN 978-88-545-0994-8

© 2002 Neri Pozza Editore, Vicenza


www.neripozza.it
A Germano Lombardi e a Godwin Spani
per ringraziarli delle magnifiche storie
quando loro raccontavano e scrivevano
e io ascoltavo
I coloniali inglesi dicevano che gli afghani
guardavano al generale Avitabile
con lo stesso timore e la stessa ammirazione
con cui gli sciacalli guardano alla tigre.
C. De Falco, Il Generale Paolo Avitabile, olio su tela, Museo Nazionale di San Martino, Napoli (su
concessione del Ministero dei Beni Culturali Ambientali di Napoli).
1.

’O Malommo

L’applicazione della ferocia da parte di Paolo Avitabile non era affatto


schizofrenica, come avevo creduto quando lo conoscevo poco, ma
implacabile e sempre uguale a se stessa. Era la personalità di Avitabile a
essere dissociata, come ora mi appare chiaro dopo avere decifrato le
testimonianze di tutti i viaggiatori che nei primi dell’Ottocento l’avevano
incontrato nel Punjab, che allora costituiva parte del territorio dell’impero dei
sikh, prima che fosse assorbito, diciamo così, dalla cupidigia inglese. Sto
parlando del periodo d’oro, anche nel senso materiale, della sua carriera di
soldato di ventura, culminata con la nomina a governatore di una Peshawar
riottosa e indomita, al centro di una valle che in primavera tornava
incantevole, con i campi fertili colorati di un verde lucente, affollata da
innumerevoli etnie quasi tutte di ceppo afghano, sempre in guerra tra loro. È
stato in questa città polverosa e temibile, come può essere temibile una città
di frontiera in tempi in cui le frontiere erano labili e le nazioni rapide nel
crescere e nello sprofondare, che Avitabile acquistò la sua fama di terribilità e
di efferatezza che ancora dura e che cancella, da sola, secoli di core
napulitano, inteso come bontà lacrimevole e appiccicosa, pronta a erompere
nelle situazioni meno adatte, però segno sicuro dell’anima buona dei
partenopei che tengono, appunto, core.
Fu il caso, come sempre, ad introdurmi al personaggio, di cui non
sospettavo nemmeno l’esistenza, molti anni fa. E non in Italia, in Campania,
dove sarebbe stato più logico considerando che esiste una piazza a suo nome,
ma con molta probabilità in una libreria o in una biblioteca, in India o a
Londra, perché qui da noi nessuno lo conosceva. Così, almeno, mi sembra di
ricordare. All’epoca ero interessato a quella straordinaria popolazione pagana
che viveva nel Kafiristan, in una natura verticale e selvaggia all’interno di
un’immensa area totalmente musulmana. Non tutti i cafiri erano biondi e con
gli occhi azzurri, come voleva una tradizione dai sottintesi razzisti. Le loro
usanze – non seppellivano i morti, ma li esponevano in casse di legno
abbandonate nei boschi, distillavano una schifosa grappa dalle albicocche e
producevano dalla vite un intruglio che qualcuno aveva chiamato vino –
avevano connotazioni oltraggiosamente diverse da quelle dell’Islam. Non
tenendo conto di oltre duemila anni di possibili altri contatti e invasioni,
alcuni antropologi avevano decretato che fossero i discendenti delle legioni
macedoni di Alessandro Magno, attratti da quelle boscaglie rocciose e stanchi
di seguire un indemoniato che a suo tempo, per essere sicuro di succedergli,
aveva ucciso suo padre, l’orbo Filippo. E questo mito aveva contribuito a
rendere ancora più eccitante la loro fama, attirando già ai primi
dell’Ottocento i grandi traversatori di montagne che volevano vedere cosa ci
fosse dietro quelle cime, che sembravano nascondere solo altre cime.
Anch’io volevo andare dai cafiri e cercavo nei libri quello che nessuno
aveva scritto. Come ho detto, il nome di Avitabile si deve essere
materializzato per la prima volta in uno di quegli innumerevoli testi di
memorie coloniali lasciati in eredità dall’impero inglese, insieme con i ponti
di ferro con i tiranti, le barracks, una decente amministrazione e il bastoncino
di bambù per gli ufficiali. Mi colpì subito la propensione, assolutamente
anomala per gli inglesi, in particolare per i coloniali, a dare un giudizio
positivo, a volte anche ammirato, su un italiano che aveva fatto meglio di loro
– così si capiva – in India. Quando le scarne informazioni, le citazioni, i
ritratti in due righe, cominciarono a unirsi tra loro fino a formare l’idea di un
puzzle, sia pure vago e mi fu più chiaro con chi avevo a che fare, anche se ne
sapevo ancora molto poco, mi venne spontaneo di trovargli un soprannome,
’O Malommo. Mi ricordava un personaggio che da ragazzo avevo incontrato
a Ischia. E sempre, curiosamente, nei ristoranti e mai in strada, come se
riuscisse a passare dalla casa al luogo dove pranzava senza farsi vedere. Era
un bell’uomo ’O Malommo, alto, abbronzato, i capelli tinti tenuti schiacciati
con la gommina, sempre con una giacca blu alla marinara, i calzoni di tela
anche d’inverno e d’estate la camicia nera di seta e le espadrillas rosa. Si
diceva che fosse un uomo di rispetto e che tenesse un sacco di femmine. Ma
quello che in lui contava era la presenza. Entrava nel ristorante come un
grande attore entra nel palcoscenico, non “teatralmente”: quello lo fanno gli
attori di seconda. Ma dopo pochi istanti si capiva che aveva preso possesso di
tutto lo spazio intorno e che nessuno era in grado di toglierglielo. Avitabile
doveva avere la stessa personalità dominante, secondo la mia immaginazione
che lavorava su quasi nulla.
Per molto tempo andai avanti a raccogliere materiale che ripeteva le stesse
cose, come se le fonti a suo tempo fossero state poche e diffidate da
raccontare più di quello che si sapeva. Nei testi, inoltre, la sua figura veniva
messa in ombra – e tutto quello che lo riguardava accorciato – da un altro
protagonista di quegli anni in India. Le avventure e i viaggi di Alexander
Gardiner avevano costituito la pièce de resistence di tutte le conversazioni dei
salotti coloniali, da Calcutta a Simla. Chi ha visto L’uomo che volle diventare
re, un film tratto da uno dei più famosi racconti di Rudyard Kipling, con Sean
Connery e Michael Caine nella parte di due disertori che finiscono tra le
montagne dell’Himalaya, accolti sospettosamente da una misteriosa e
selvaggia popolazione che sta aspettando il ritorno di Iskander, cioè di
Alessandro Magno, si ricorderà la figura spavalda interpretata da Connery.
Quello era Gardiner, come lo aveva ricostruito Kipling. Di Gardiner
racconterò più avanti tutto quello che umanamente si può sapere di lui e
intanto andate a vedere la sua fotografia ritoccata a colori, dove ha l’aria di
uno spaventapasseri in tartan, con un turbante sempre con motivi scozzesi
attraversato da una piuma di airone, un segno distintivo di chi aveva
combattuto con l’esercito sikh di Ranjit Singh, oggi considerato la personalità
politica più interessante nell’India dell’Ottocento. Nella London Library, 14
St. James’s Square, i libri che parlavano di Gardiner erano sempre in prestito,
perché le sue storie piacevano moltissimo, anche se nessuno è stato mai in
grado di risolvere definitivamente il dubbio se dicesse la verità o se
semplicemente raccontasse balle. Ma intanto era sempre riuscito a restare
famoso, mentre per l’italiano doveva essere avvenuto come un oscuramento,
successivo alla sua morte, in tempi più delicati e sensibili di quelli della
costruzione dell’impero.
Un giorno fui così fortunato da prendere in prestito, cinque minuti prima
che fosse richiesto da un maggiore a riposo, uno dei libri più maneggiati
dell’intera London Library, a giudicare dai bollini appiccicati in ordine
progressivo di data. Era stato pubblicato nel 1929 a Lahore, aveva come
titolo European Adventurers of Northern India, 1785-1849 e l’autore era un
certo C. Grey, da cui tutti quelli che sono venuti dopo hanno copiato. La
certezza che fosse una fonte attendibile non veniva solo dal fatto che il libro
era curato dal Keeper of the Records of Punjab, il custode o l’incaricato del
vasto materiale cartaceo che riguarda la regione, ma anche dalla sicurezza
con cui Grey si muoveva attraverso complicate storie, in cui il confine tra
l’invenzione e la realtà non sempre era ben distinguibile. Il capitolo dedicato
a Gardiner era il tredicesimo. Ma prima di lui, con il nono capitolo tutto a sua
disposizione, c’era il racconto della vita dell’inimitabile Avitabile.
Finalmente non una o due note, come mi era capitato fino ad allora, ma
trenta pagine piene. Ero talmente incuriosito che, invece di tornare nella casa
dov’ero ospite e dove mi aspettavano con impazienza, rimasi nella biblioteca
a leggere, seduto su una scomoda panca. L’inizio era magnifico: «Delle molte
e interessanti personalità che rivela lo studio sugli ufficiali europei al servizio
di Ranjit Singh, nessuna è più complessa di questo avventuriero napoletano,
che dopo aver iniziato la sua carriera in patria come semplice cannoniere,
raggiunse con metodi spietati, personalità e un’energia senza limiti, aiutato da
un’indubbia capacità, i più alti ranghi in due eserciti asiatici che non avevano
nulla a che fare l’uno con l’altro, riuscendo a governare con un successo non
ottenuto prima da nessuno, e da allora mai sorpassato, alcuni dei più ruffiani,
disperati, traditori popoli dell’Asia e nello stesso tempo ad ammassare una
grande fortuna, sebbene servendosi dei sistemi più discutibili». L’aspetto
curioso della storia era che Grey sembrava avere anche lui una certa stupita
ammirazione per ’O Malommo, ma il ritratto che ne veniva fuori era quello di
un mostro. E per rendere immediatamente tangibile la persona di cui stava
parlando, aveva fatto pubblicare nella pagina accanto un disegno di Avitabile,
gigantesco e rigido in un’improbabile alta uniforme, con un immenso e
scomodissimo cappello sormontato da piume che cadevano a pioggia, mentre
indicava alla batteria di cannoni che s’intravedeva sulla sua destra come e
dove doveva essere diretto il fuoco.
Naturalmente so benissimo che dietro il core napulitano si possono
nascondere le più atroci efferatezze, che la camorra si diverte a tagliare teste
come i boia dei moghul e che bisogna diffidare dell’eccesso di cortesia, da
cui sembra fosse affetto Avitabile, perché di solito è uno schermo di cui si
servono mostri delle specie dei Barbablù e dei Landru. Quattro o cinque mesi
fa, dopo aver accennato di nuovo ad Avitabile in un articolo sulla prima
guerra anglo-afghana (del generale avevo anche scritto uno svelto ritratto in
un mio libro precedente, Il cammello battriano), avevo parlato di questo
napoletano anomalo a Raffaele La Capria, promettendo di mandargli le poche
notizie che avevo. La Capria mi rispose quasi subito per ringraziarmi con una
deliziosa letterina che finiva così: «E ricordati che la rivoluzione napoletana
del ’99 ha dimostrato che i napoletani possono essere molto più feroci degli
afghani». Si riferiva, naturalmente, alle infamie delle colonne sanfediste
guidate dal cardinale Ruffo che avevano compiuto stragi inaudite, di cui
avevo solo una vaga e orripilata memoria di frati sanguinari, di briganti
macellai che sgozzavano come capretti i “guaglioni” con il berretto frigio.
La lettera di La Capria mi spinse a recuperare due o tre classici che avevo
letto da ragazzo svogliatamente, infastidito dalla retorica che circondava la
famosa rivoluzione, dalla quale un celebre avvocato e cultore di storia patria
faceva discendere tutte le disgrazie che avevano flagellato Napoli, invece di
guardare meglio nell’animo dei suoi fantasiosi compatrioti. Ma debbo dire
che quelle due o tre paginette della Storia del Reame di Napoli che Pietro
Colletta aveva dedicato alle gesta di Gaetano Mammone mulinaro, un caso di
ferinità così eccelsa e con connotati così stravaganti che se ne sarebbe potuto
fare un film con Groucho Marx, davano ancora qualche brivido, non so se
dietro la schiena, come dicono gli scrittori di gialli: «Ingordo di sangue
umano, lo beveva per diletto; beveva il proprio sangue nei salassi suoi; negli
altri, lo beveva e lo tracannava; gradiva, desinando (vi prego di apprezzare
questo “desinando” come se fossimo a una leggiadra colazione sull’erba. Ma
la lingua del letterato non aveva i mezzi per esprimere le atrocità plebee),
avere sulla mensa un capo umano di fresco reciso e sanguinoso; sorbiva
sangue e licuori in teschio d’uomo, e gli era diletto a mutarlo. Mammone, in
quelle guerre civili, “spense” almeno quattrocento francesi e napoletani, e
tutti di sua mano, facendo trarre dal carcere i prigionieri per ucciderli a gioia
del convito, stando a mensa coi maggiori della sua torma. Eppure a tal uomo
o a questa belva, il re Ferdinando e la regina Carolina scrivevano: “Mio
generale e mio amico”».
Lo stesso Harold Acton, l’autore di una celebre, brillante, reazionarissima
storia dei Borbone di Napoli, scritta quasi tutta nella sua villa La Pietra sopra
Firenze e che sembra dettata da re Bomba, ammise gli “eccessi” dei
lazzaroni, raccontando che Ruffo ne era stato colpito e molto addolorato, ma
restringendo a poche righe il racconto, anche questo abbastanza
impressionante: «Le vittime furono denudate e smembrate, la loro carne
arrostita e divorata; le teste tagliate vennero portate in processione in cima
alle lance o prese a calci come palloni. Le dame che avevano dimostrato
simpatie repubblicane furono inseguite per le strade e vergognosamente
oltraggiate…». Si potrebbe continuare a lungo attraverso nefandezze di ogni
tipo, attribuite ai lazzaroni, cioè alla populace, sempre bestiale ovunque la
storia le abbia offerto qualche occasione, da Masaniello alle comari che
trascinarono il popolo di Parigi a Versailles a massacrare le guardie svizzere e
a condurre il re in città sotto scorta. Ma la ferocia dimostrata da Avitabile
sembrava di tutt’altro genere, niente affatto impulsiva e se mai studiata e
programmata per incutere timore e orrore. Una spietatezza fredda, da Santa
Inquisizione, o che si ispirava a regole militari che all’inizio della mia ricerca
sul generale ignoravo, credendo allora che i militari europei si attenessero a
un codice d’onore non scritto e che evitassero la crudeltà, almeno fino agli
orrori delle due grandi guerre di massa. Ancora non sapevo, per fare qualche
esempio, che il grande Enrico V, il vincitore di Agincourt, alla notizia di un
possibile nuovo attacco dei francesi avesse dato ordine di uccidere tutti i
prigionieri. E che i fantaccini prussiani di Blücher, dopo Waterloo, avevano
finito a colpi di baionetta tutti i feriti francesi che trovarono nell’erba bagnata
della campagna sotto la collina di Saint-Jean, dove la cavalleria di Ney si era
infranta contro i quadrati delle giubbe rosse.
Qualche giorno dopo il mio incontro con La Capria – i tempi, avrete
notato, si sono fatti più accelerati, come se qualcuno girasse più in fretta la
manovella, come si faceva per gli organetti di Barberia – seguendo su internet
gli avvenimenti di quella che una volta gli inglesi chiamavano la frontiera
nordoccidentale dell’India, mi sono imbattuto in un sito politico pakistano,
una sorta di centrale di propaganda dell’Uomo Forte, mito che rispunta in
ogni secolo dalle sterpaglie, non importa il continente o il paese. Un articolo,
Alla ricerca di un moderno Abu Tabela, ripeteva tutte le idiozie che sempre
compaiono in questi articoli, il cui interesse per me è sempre stato molto
vicino allo zero. E stavo per trasferirmi in un altro sito quando lo sguardo si
posò per un attimo sull’asterisco in calce alla pagina che dava la spiegazione
a quel nome messo in evidenza nel titolo: Abu Tabela era la traslitterazione
popolare di un nome europeo che gli afghani non riuscivano a pronunciare
correttamente, certo Paolo di Bartolo meo Avitabile (sic), che aveva lavorato
al servizio del maharaja Ranjit Singh, il nano geniale e ubriacone, che fondò
un grande impero e che morì di cirrosi epatica. Dopo aver catturato la valle di
Peshawar all’inizio dell’Ottocento, il maharaja aveva nominato governatore
della città «questo straniero – riporto le parole dell’articolo – che abitava
nella fortezza posta sopra una collina di Gorkhatri, all’interno della città e che
aveva trovato un semplice rimedio per mantenere la legge e l’ordine nel
territorio da lui amministrato. Al minimo pretesto arrestava il primo che gli
capitava tra le mani e lo faceva gettare dall’alto del minareto della moschea
di Mahabat Khan. Le fotografie dell’Ottocento mostrano che quei minareti
non avevano la cuspide. Era probabile che Abu Tabela avesse ordinato di
rimuoverle per costruire al loro posto una sorta di piazzola per facilitare il
lancio dall’alto. Sistema barbarico – era la chiusa della nota – ma molto
efficiente, come noi non saremmo stati capaci di compiere».
Rimasi abbastanza sbalordito. Dopo centocinquant’anni di vicende
affollate da innumerevoli guerre, atrocità, stragi, i pakistani si ricordavano di
’O Malommo e tremavano al ricordo? In quel momento sentii arrivare dal più
profondo degli inferi sordi rumori. Erano le anime infernali di Gengis Khan e
di Tamerlano che si stavano rivoltando in qualsiasi loculo altrettanto infernale
fossero finite, insieme con quelle degli impalatori turchi e dei mandarini
cinesi che avevano inventato per definizione le peggiori torture che mai
mente umana avesse potuto concepire. Un occidentale, un europeo, un
napoletano, li aveva superati in crudeltà e sevizie, in torture e bestialità: ma
era inconcepibile. Cominciavo a provare per Avitabile quel sentimento di
acuta attrazione-repulsione che prelude alla consegna di un libro all’editore.
Ma non avevo sufficiente materiale per lanciarmi nell’impresa.
La brusca accelerata che diedi alle ricerche servì a poco. Il libro di Grey,
come ho detto, era magnifico ma con informazioni di seconda mano, così
come quasi tutti i testi che avevo letto. Per affrontare un tale personaggio
avevo bisogno della biografia primaria, tradotta anche in italiano e intitolata
General Avitabile. L’autore si chiamava Julian James Cotton, un funzionario
del Madras Civil Service che aveva già pubblicato la storia a puntate nella
«Calcutta Review» nel 1905 ed era stato poi indotto dal successo a
ripubblicarle tutte insieme. È stato uno dei libri che più ho inseguito nella mia
vita, cercandolo ovunque, tutte le volte che mi capitava di entrare in una
libreria o in una biblioteca dove poteva essere transitato. Alla London Library
non ne avevano mai sentito parlare, un fiero colpo, perché se esisteva un testo
che doveva esserci alla London, questo era l’opera di Cotton. E non risultava
segnalato in nessuna delle altre otto o nove biblioteche consultate, in nessuna
parte: sulle schede scritte a mano o sui computer, nelle sezioni di
orientalistica, India, sikh, capitani di ventura, periodo napoleonico e
restaurazione, Peshawar, tagliagole afghani, militari efferati, torture,
artiglieria, le più grandi sconfitte degli inglesi durante l’impero, Borbone
(scrivere con la “e” finale anche al plurale, prego), Agerola, kurdi, la Persia
nell’Ottocento, Punjab, Ranjit Singh. Mi mancava la sezione “delitto e
castigo”, che era poi la storia di Avitabile, ma avevo l’impressione che mi
avrebbe portato fuori strada, diciamo verso San Pietroburgo.
Anche specialisti come la temibile proprietaria della Librairie Ulysse, al 26
rue Saint-Louis-en-l’Ile, dove andavo sempre quando stavo a Parigi, attratto
forse più da quelle incantevoli strade tra le due sponde della Senna che dai
libri ai quali fingevo d’interessarmi, o il Travellers, 13 Blenheim Crescent,
Nottinghill Gate, a Londra, infrequentabile da quando l’attore Hugh Grant,
quello con la faccia eternamente sorpresa, aveva interpretato in uno sciocco,
melenso film di enorme successo, la parte del commesso della libreria. E
anche il mio amico Bruno, creatore della Libreria del Viaggiatore, in via del
Pellegrino a Roma, la migliore libreria italiana di viaggi, che aveva fatto delle
ricerche per mio conto, si era arreso insinuando che la biografia non esisteva:
secondo lui era un’invenzione romanzesca, per il piacere della mistificazione
letteraria. Capivo dove Bruno voleva arrivare, ma non ero d’accordo, perché
mi sembrava altamente improbabile che tra il Gange e il Brahmaputra ci fosse
un altro Borges. Quelle invenzioni sono il prodotto di una cultura
metropolitana, che ti possono venire in mente solo quando passeggi tra
Corrientes e Entre Rios.
Mentre continuavo a cercare, in modo sempre più affannoso, mi successe
di parlare brevemente di Avitabile nell’autunno scorso, come ho detto prima,
in un paio di articoli sull’Afghanistan, uno dei quali raccontava la celebre e
tremenda ritirata da Kabul degli inglesi. Lo stesso giorno della pubblicazione
dell’articolo mi telefonarono due o tre giovani produttori cinematografici
dicendo, con quel modo rapido, sicuro e conclusivo di chi è navigato e sa, che
la storia del generale napoletano che non faceva la faccia feroce, ma lo era, il
più feroce di tutti, non bisognava lasciarla cadere, che sarebbe venuto un film
epocale, che cominciassi a pensare a un soggetto da depositare, e che loro
avrebbero richiamato l’indomani, anzi il pomeriggio stesso, e non ne parlassi
con nessuno. «Lo faremo interpretare dal tale», disse uno nominando un
attore neozelandese che era diventato famoso nella parte di un generale
romano finito nell’arena. «Avitavile è lui, gli italiani non hanno la faccia
adatta per un simile personaggio». Poi uno mi chiese se nel frattempo non ero
disponibile ad andare a Peshawar, per i sopralluoghi, magari a spese del mio
giornale. Fu questa scivolata a mettermi in allerta, se ne avessi avuto bisogno.
Comunque nessuno mai telefonò più, nel pomeriggio, l’indomani o in
qualsiasi altro giorno. Scomparvero nelle nebbie dell’inattendibilità del
mondo del cinema, secondo la migliore tradizione romanesca, ricordata già in
modo memorabile da Ennio Flaiano.
Poi, un giorno di settembre o ottobre, mi arrivò una e-mail da un gentile
signore che intuivo abitasse delle parti di Salerno e quindi di Agerola. A
volte, una prosa elaborata in un italiano inappuntabile è ritmata in un modo
tale che a leggerla ad alta voce restituisce l’accento del luogo da cui proviene
anche attraverso il computer. Questo gentile signore, Ugo Di Pace, anche lui
un giornalista, come mi sembrava di capire, si diceva estremamente
interessato al generale e mi chiedeva una bibliografia, che lui s’immaginava
molto più vasta di quella che in realtà fosse. Avevo ricevuto richieste simili
da una signora che viveva a Bruxelles e che si diceva discendente di
Avitabile. Inviai le informazioni richieste in Belgio e nello stesso tempo,
sempre guidato dalla lunga mano del caso, che si è aggiornato
tecnologicamente e opera molto sui megabyte, scrissi una nota a Di Pace,
avvertendolo della esistenza – o non esistenza – della biografia di Cotton e di
tutte le mie inutili ricerche. Ho sempre evitato, di norma, di raccontare i fatti
miei a sconosciuti elettronici, ma questo qui, che sentivo in qualche modo
affine e che era molto interessato alla storia di Avitabile, mi aveva invitato a
scriverci sopra un libro e io mi difendevo dicendo che non avevo materiale
sufficiente.
Due giorni più tardi mi arrivò un altro messaggio da Salerno (ormai ero
certo che lui e Avitabile erano quasi paesani). Diceva testualmente: «Trovata
biografia di Cotton alla Biblioteca Nazionale di Napoli, sezione miscellanea,
riferimento B 57 9. Ho provveduto a mandarle una fotocopia. Adesso non ha
scuse». È difficile dire se mi sono sentito più idiota, più mortificato o più
preoccupato quando ho letto questo messaggio. Perché non un solo momento,
durante tutta la mia lunga ricerca, avevo pensato che la Biblioteca Nazionale
di Napoli potesse essere quella che in realtà è: un luogo deputato alla raccolta
e alla catalogazione di libri e, anche se mi fosse venuto in mente, non ci sarei
andato, terrorizzato dal pensiero di avere a che fare con la burocrazia più
leggendaria d’Italia, quella partenopea, erede di quella spagnola che aveva
come motto se obedece, pero no se cumple, si obbedisce, però non si porta a
termine. Conoscendo benissimo la città, avrei dovuto sapere che invece solo
qui era possibile trovare quello che sarebbe stato impossibile trovare da altre
parti e anche quello che non c’era. Ma aveva prevalso uno stupido
pregiudizio, ed ero caduto nel ridicolo.
Comunque, come diceva il mio amico di Salerno, ormai non avevo più
scuse. La biografia che segue ha dunque come fonte primaria il testo di
Cotton, che prima di andare a Madras aveva insegnato a Oxford non so bene
quale materia e in che veste («Scholar of C.C.C.», misteriosissima sigla). Ma
si avvale di molte altre e diverse testimonianze, raccolte in una trentina di
libri, quasi tutte di gente che aveva conosciuto il generale di persona e sentiva
il bisogno di riferire il suo giudizio. Perché un tipo simile non si era mai visto
nel paese attraversato dal grande fiume sacro nato dalla Bocca del Leone.
2.

Di Agerola e non di Napoli

Per un curioso destino, un uomo così avventuroso come Paolo Crescenzo


Martino Avitabile, che aveva rischiato molte volte di essere ucciso in posti
che nessuno in Italia aveva mai sentito nominare, era morto (nel 1850), a
pochi chilometri da dove era nato: il 25 ottobre del 1791 in una casa di una
frazione di Agerola che stava a fianco della chiesa di San Martino a Campora
o Acampora, la sua parrocchia. Suddito e non cittadino in un reame che non
somigliava a nessun altro in Europa: «In un qualsiasi paese civile, quando un
gendarme grida al soccorso, la massa della popolazione corre in suo aiuto»,
scriveva all’epoca un osservatore straniero. «Qui essa corre in aiuto del
ladro». Non c’è bisogno di citare le cronache per ritrovare ancora oggi, a
distanza di duecento anni, in certi quartieri di Napoli, le stesse situazioni
recitate da personaggi simili. Non sto parlando della legge dell’eterno ritorno:
qui non sono mai tornati perché non sono mai partiti.
Ma non sono così idiota da avventurarmi in questo libretto nel difficillimo
tra i saggi antropologici e sociali: l’analisi della società campana in generale e
napoletana in particolare, in cui si sono rotti le ossa in molti, perché la
presenza contemporanea dell’alto e del basso, dell’aereo e del terragno, del
volgare e del finissimo, del crudele e del generoso, del disinteressato e del
camorrista, del retorico e dell’ironico, del filosofico e del pragmatico – non
fatemi continuare – ha reso sempre questa città impossibile da descrivere se
non attraverso quella che chiamerei una dialettica dei miei stivali, perché alla
fine ne sai meno di prima. Volevo solo dire, con un inizio di capitolo ad
effetto, che Avitabile proviene da una terra che per un’infinità di ragioni che
non mi sogno di affrontare, continua a dare i frutti più svariati, per cui è
meglio mettere subito da parte la meraviglia. E questa diversità cominciava
dalla cima, cioè dal re, così lazzarone da essere sostenuto dalla plebaglia che
in Francia aveva tagliato la testa al suo omologo e quindi, in un certo senso, il
più autenticamente popolare e popolano tra i sovrani del mondo, salvato nel
momento di crisi dai briganti venuti dal Sud che mozzavano teste, bevevano
sangue e innalzavano croci.
Quando la Repubblica Partenopea venne abbattuta, la minoranza di nobili
ingegni e di liberali professionisti che l’avevano costituita fu sterminata con
una determinazione e una ferocia che hanno pochi paragoni. A quell’epoca
Avitabile aveva otto anni e per tutta la sua vita non conoscerà altra forma di
governo che quella della reazione e dell’assolutismo o dell’occupazione
straniera e napoleonica, attraverso Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat.
Questo è il quadro d’ambiente che non ha nessuna pretesa di spiegazione, ma
di illustrazione. Perché ci sono delle psicopatologie che possono nascere, per
dire, in casa di Erasmo da Rotterdam o di Bertrand Russell. Comunque tutto
questo è ignorato con assoluta noncuranza da Cotton che, qualche tempo
prima di iniziare a scrivere, aveva fatto un sopralluogo investigativo ad
Agerola, in un giugno imprecisato. Doveva essere nel suo anno sabbatico e in
un periodo particolarmente felice, perché tutto il racconto della gita risente di
una contentezza che non derivava dal fatto di occuparsi di Avitabile.
Sapeva che il generale, di ritorno dall’India nel 1844, dopo un breve
soggiorno a Napoli e da qualche altra parte, si era messo a costruire in una
delle frazioni del paese, quella più in alto, un castello con un’amplissima
vista, che spaziava dal golfo di Salerno e ancora più giù, in direzione delle
coste lucane e dall’altra parte verso le isole delle sirene e verso Capri.
Qualche anno dopo la visita di Cotton, uno scrittore per metà scozzese e per
metà tedesco, Norman Douglas, pubblicherà un saggio su questi luoghi
rimasto insuperato, Terra delle sirene, il primo e certamente uno dei più belli
tra i suoi libri. Cotton non aveva ambizioni letterarie, ma cronachistiche.
Visitò il castello diventato un rudere, cercando di interrogare i locali, i più
vecchi possibilmente, quelli che ricordavano il famoso generale o che ne
avevano sentito parlare.
Lo scopo di Cotton, per quanto estasiato dalle bellezze di Positano e
dintorni, non era turistico. Sperava di chiarire alcune strane circostanze
sull’improvvisa e assai discussa morte del Malommo, avvenuta quando stava
ancora bene in salute e si era sposato da poco con una ragazza di diciotto o
diciannove anni. Come sempre in questi casi, al biografo vennero subito
accreditate come verità assolute differenti versioni, con la concreta possibilità
che dopo sessant’anni il pettegolezzume da basso cortile di Agerola fosse
intervenuto in modo talmente devastante da rendere quasi impossibili
accertamenti obiettivi. Lo stesso custode delle rovine del castello aveva
definito Avitabile un «sergente rinnegato» dell’esercito borbonico, che
disertò per cercare fortuna in Oriente, «dove prevalse molto e giunse a essere
signore su legioni e viceré su province, ma tradì il suo padrone e tornò ad
Agerola con una montagna di ducati. Finché (in un bisbiglio) alle undici e
mezzo del giovedì santo venne avvelenato con un piatto di capretto arrosto. E
alle due il generale era morto».
Come tutti nel paese, anche Cotton si convinse presto che ’O Malommo
fosse stato eliminato da «una persona a lui molto vicina», come dicono nei
verbali di polizia quando hanno in mano quasi tutte le prove, ma non tutte,
che ad ammazzare è stato il padre o il figlio o la moglie. Comunque io
dovevo partire dall’inizio e non dalla fine e veramente nella biografia non
c’era molto per un primo capitolo corposo e nemmeno per uno smilzo.
Avitabile si presentava come un nome ben radicato da secoli sulle colline di
Agerola e questo si sapeva, bastava dare un’occhiata all’elenco del telefono.
Sembra che la famiglia di Paolo fosse benestante, termine dagli incerti
confini nel Regno delle Due Sicilie: non signori, ma gente che aveva
proprietà agricole e credito in un paese di morti di fame, questi chiamati
genericamente contadiname, oppressi dai vecchi e dai nuovi proprietari. Nei
momenti disperati i morti di fame “andavano in montagna”, cioè si davano al
brigantaggio, l’equivalente d’allora del lavoro nero di oggi, anche se assaltare
le poche diligenze che riuscivano a circolare lungo strade infami implicava
dei rischi, mentre economisti cinici dovevano vederlo sotto la specie di un
prelievo forzoso anomalo, ma necessario all’equilibrio sociale. La debolezza
del sistema vetero-borbonico stava nel fatto che i briganti invece di
taglieggiare con discrezione, spesso razziavano e ammazzavano e così la
sicurezza nel Regno era un optional e gli stranieri altolocati e amici e
protettori del regime come Nelson parlavano tranquillamente di “canagliume
napoletano”.
Di Avitabile sappiamo anche che da ragazzo era uno “scapigliato”. Non un
anticipatore di Carlo Dossi, ma un qualunque ragazzetto vivace che i genitori
sbolognavano fuori della porta, per indirizzarlo presto verso la santa e dura
scuola della vita. Cotton dice che in questo assomigliava a Robert Clive, un
ex giovanissimo funzionario della East India Company, scopertosi talento
militare, che nella seconda metà del Settecento sconfisse i francesi nella
battaglia di Plassey, eliminandoli quasi del tutto dalla penisola indiana.
Essere paragonato a lui per qualsiasi ragione costituiva un inaspettato
riconoscimento, anche perché in quel periodo della loro storia gli inglesi
erano caduti in una particolare forma di estasi che li faceva sentire sopra tutti,
una sorta di levitazione morale – Waterloo aveva dato loro un po’ alla testa –
e non amavano fare paragoni con nessuno, se non vagamente con gli antichi
romani fino all’inizio dell’impero – tutti quelli venuti dopo erano decadenti
per definizione. Oppure con i veneziani del periodo migliore: gli anni del
sacco di Bisanzio da parte dei cristiani, una ignominia senza pari di cui i
veneziani non si erano sporcati le mani direttamente, ma avevano fatto di
peggio, mandando avanti a saccheggiare i franchi e altri furiosi guerrieri
europei, e comprando da loro a un infinitesimo del reale valore il bottino di
opere d’arte e d’oro con cui hanno abbellito Venezia. Basta leggere gli scritti
degli storici anglosassoni sul fattaccio per avvertire il profondo senso
d’invidia. Quanto gli sarebbe piaciuto stare al loro posto, guidati da quel
tremendo doge, cieco non si sa quanto, che era stato capace di spogliare
Bisanzio, la più sontuosa metropoli del mondo, di pezzi come la quadriga di
bronzo che stava all’ippodromo. Gli inglesi sono sempre stati grandi
ammiratori della Repubblica Veneta. Arrivando a imitarne il sistema
aristocratico di governo, il concetto del potere navale, le colonie come
empori, la smania per le belle ville e anche il leone.
Questo paragone con Clive è l’unico elemento cui aggrapparsi per dare una
fisionomia al signorino cannoniere di Agerola. Nelle biografie fattuali del
genere coltivato da Cotton non è immaginabile trovare sofisticati tentativi
d’interpretazione come farebbe un docente di psicologia dell’età evolutiva.
All’epoca i tormenti della psiche giovanile venivano curati con il randello e
anche il grande filosofo dirà: «Il dovere dei giovani è di diventare grandi»,
perché don Benedetto aveva poca pazienza con loro. L’autore ci ha
risparmiato tutti i ricami, degni delle delicate mani delle Sorelle Materassi,
sulle inevitabili turbe del figliolo, e se il rapporto con la madre era di tipo
incestuoso e se la formazione della sua libido era andata così storta da far
rimpiangere i benedetti soldi che si potevano spendere chiamando qualche
puttana, così il sesso prendeva le tranquille, borghesi vie dell’amore tanto a
prestazione e si stava più tranquilli. Tutto questo non c’è e uno si rallegra, e
però il risultato è un buco nero, non sappiamo nemmeno se partecipa alla
presa di Capri nel 1808, caduta anni prima in mano inglese e brillantemente
riconquistata, come si può ancora vedere in due famosi quadroni al museo di
San Martino, da dove si gode la vista più bella di Napoli. Molti anni fa,
quando mi mandavano come giornalista a Napoli per fatti di camorra, andavo
a consumare la colazione, con un trionfale panino in tasca, sui gradini del
cortile del museo che si affacciano sul golfo di Napoli, a quella distanza
sempre di un colore turchiniccio. Conoscevo a memoria i quadri del museo, e
sono stato infatuato a lungo della serie delle marine e dei porti del regno
dipinti dal prussiano Hackert, senza accorgermi che quelle figurette che
metteva in primo piano o sullo sfondo erano inconsistenti e ridicole. Eppure
quei paesaggi così precisi e così lucidi che vengono in linea diretta dal
Settecento scientifico e illuminista, anche un po’ rigidi come se fossero
mineralizzati, dipinti con una tecnica così evidentemente nordica, avevano la
capacità di interpretare meglio il Sud di altri dipinti più esuberanti. Ma non
ho mai visto o forse l’ho visto senza registrarlo nella memoria, perché ancora
non mi interessavo a lui, il magnifico ritratto di Avitabile, in full dress da
generalone, che si diceva fosse appeso da qualche parte, senza saper bene chi
fosse. Il ritratto, se mai esisteva, sarebbe stato sostituito già trent’anni fa da
un altro infinitamente più mediocre1.
Sappiamo solo che Paolo Avitabile entra nella milizia ausiliare nel 1807,
quando ha sedici anni. Passato nell’esercito regolare, dimostra subito di
essere un buon tecnico e di capirne di artiglieria, perché in poco tempo viene
promosso al grado di aiutante, il grado più alto raggiungibile dai non ufficiali,
guadagnandosi una medaglia al merito. In una enciclopedica raccolta dei
personaggi e cose notabili del regno di Napoli, trovata sempre da Ugo Di
Pace, senza data, ma che risale probabilmente a poco tempo prima il 1860,
c’è un articolo encomiastico sul giovane napoletano che farà carriera in Asia:
«…ognuno conosce quanto coraggio s’abbisogna quando lo squillo della
tromba guerriera, il rullare dei tamburi e lo strepito dei cannoni e le grida di
migliaia di uomini annunziano che la battaglia è incominciata. La fermezza,
la bravura e il desiderio di gloria furono appunto le sue caratteristiche». È
l’unica nota ufficiale che conosciamo su di lui da giovane e in Italia. Ma in
realtà non sappiamo bene se la scelta dell’esercito è stata come per altri fare
l’idraulico o l’imbianchino, cioè un lavoro qualsiasi per assicurarsi di che
campare. Oppure se avesse sempre avuto una vocazione per il mestiere delle
armi, se fosse borbonico, se aspirasse ad altri regimi, se covasse segrete
strategie politiche, e così via. In ogni caso diventa – è il suo grande merito –
un esperto come pochi in cannoni. Ma per qualche ragione che ignoriamo
viene lasciato di guarnigione a Procida a fare i bagni e non partecipa alla
battaglia di Tolentino, quando Murat, appena saputo che Napoleone era
sbarcato in Francia, si lancia in una campagna prematura e insensata, forse
per ingraziarsi l’imperatore, con cui era in rotta per la sua politica filoitaliana.
Napoleone lo aveva nominato re, ma nella realtà voleva un governatore che
rispondesse ai suoi comandi e Murat, invece, tramava con i carbonari per
l’unità d’Italia. La sconfitta di Tolentino è il principio di una sequenza che
appare subito irreversibile e senza speranza, perché la battaglia è chiaramente
segnata dal destino, se credete nella predestinazione, o dalla presunzione,
stupidità, incuria del re di Napoli, che abbandona il campo due ore prima che
la battaglia sia finita, talmente si sente sicuro del successo, dimenticando una
delle massime più consolidate di Napoleone: la battaglia si vince durante la
fuga del nemico, suggerimento ripreso da Clausewitz. Quando gli austriaci
contrattaccano, i napoletani, presi alla sprovvista e privi del comandante si
mettono a fuggire, così rinnovando in tutt’Europa la fama degli italiani che ne
se battent pas, come dicevano sprezzantemente i francesi secoli prima.
La battuta era ignobile e non vale la pena di commentarla. Quanto
all’inconsistenza in guerra dei napoletani, qui intesi come meridionali
d’Italia, eliminiamo subito dal gruppo i siciliani, che per vicende notorie, dai
Vespri siciliani in poi, non hanno mai avuto bisogno di difese d’ufficio per
dimostrare il loro coraggio, se proprio vogliamo fare queste distinzioni
regionali di valore, che ricordano sinistramente quelle della razza. È vero che
fino a quasi il Novecento ci sono state popolazioni più bellicose di altre,
nazioni e tribù rimaste a culture preindustriali e spesso premoderne che
dedicavano all’arte della guerra un tempo e un rispetto molto grandi e che
avevano fatto dello scontro armato uno dei momenti principali delle loro
azioni: per i coloni europei del Sud Africa e anche per le truppe inglesi era
meglio non incontrare ad armi pari i terrificanti impis, i battaglioni zulù con
le piume di struzzo bianche e nere infilate nei capelli dei guerrieri, capaci di
fare ottanta chilometri al piccolo trotto e di presentarsi sul campo di battaglia
ancora freschi, e di lanciarsi all’attacco come fossero invulnerabili alle
pallottole, battendo le lance contro gli scudi e lanciando il loro urlo di guerra.
E quando gli inglesi capirono che i piccoli gurkha nepalesi erano micidiali
come tagliole, ubbidienti come automi e coraggiosi come fox terrier e alti
uguale, li incorporarono subito nel loro esercito, facendone un corpo di élite
impiegato in azioni che venivano definite “rischiose”, ed erano al limite del
suicidio. Ma si trattava di popoli molto lontani dal modo di vita occidentale,
nelle cui culture il valore della vita umana aveva un significato e un peso
diversi da quello nostro.
Per gli europei sarebbe una tale assurdità fare un elenco dei coraggiosi e
dei vigliacchi, per la semplice ragione che gli uomini a seconda delle
occasioni, possono essere gli uni e gli altri. Esistono e sono sempre esistiti
eserciti più addestrati, con una tradizione più consolidata, con ufficiali che
conoscono meglio il loro mestiere, con armi più efficienti e più letali, con una
disposizione maggiore alla disciplina e soprattutto all’autodisciplina, capaci
di combattere splendidamente in formazioni compatte, in cui è forte lo spirito
di gruppo. I tedeschi della prima guerra mondiale, ad esempio, venivano
chiamati alle armi per mestieri, i lattonieri con i lattonieri, i muratori con i
muratori, con il capo mastro, che li conosceva tutti per nome, trasformato in
sergente. Lasciati da soli, questi stessi militari che avevano dato prove
straordinarie, potevano risultare totalmente incapaci di prendere iniziative e
s’imboscavano. I soldati napoletani erano esattamente il contrario, per indole
e per tradizione i meno disciplinati d’Europa, e non facciamo fatica a
immaginare la caotica organizzazione, i rifornimenti che non arrivavano, gli
ufficiali che non sapevano il loro mestiere, almeno nell’esercito borbonico.
Quelli che erano andati a combattere nelle guerre napoleoniche, i fratelli
Pepe, i due Pignatelli, Filangieri e numerosi altri, si batterono benissimo,
all’altezza dei migliori soldati dei paesi considerati più marziali. A Tolentino
le truppe scelte erano state mandate in Sicilia, sostituite da bande di contadini
calati in una divisa il giorno prima, che si trovarono di fronte, al solito, non
più coraggio, ma più solidità e disciplina. Non potevano che perdere. Ma una
volta ritornato in montagna, questo “canagliume” poteva diventare molto
pericoloso per chiunque, perché erano guerriglieri nati. Se ne sarebbero
accorti i piemontesi dopo la proclamazione dell’unità e dell’indipendenza
d’Italia: le campagne contro i cosiddetti briganti sono costate all’esercito
italiano più morti delle guerre d’indipendenza.
Le successive vicende di Murat appartengono al genere dei romanzi
d’appendice, anche se sono assolutamente storiche. Ritorna a Napoli per due
o tre giorni, si taglia i suoi famosi baffi, mette in un sacchetto di pelle
diamanti e altri preziosi, saluta i familiari e la corte e s’imbarca per Tolone,
sperando di ricongiungersi a Napoleone, che invece non lo vuole con sé e gli
impone di restare in città e di non muoversi. È come se due alpinisti di una
stessa cordata, che stanno precipitando in caduta libera, continuassero a
discutere tra loro di chi è stata la colpa dell’incidente. Dopo Waterloo i
realisti gli mettono una taglia di quarantamila franchi sulla testa, lui vende i
diamanti, salpa per la Corsica su una barchetta, sta per naufragare, viene
salvato, portato in trionfo ad Ajaccio, quando è riconosciuto, e mentre gli
arrivano i passaporti dal benevolente Imperatore d’Austria per lui e per sua
moglie, intestati al conte e alla contessa di Lipona, anagramma quasi in
chiaro di Napoli, il ribollente sangue dell’uomo che ha guidato le più
sfolgoranti, spettacolari, sontuose e straordinariamente letali cariche di
cavalleria delle storia (fatta eccezione per i mongoli e, in linea generale, per
tutte quelle dei popoli nomadi), perde completamente la “capa” e tenta una
ridicola spedizione nel napoletano con 250 uomini. Ma c’è burrasca, lungo le
coste del Tirreno, a Pizzo Calabro arriva con soli ventotto soldati, alcuni
pescatori gridano «Evviva re Gioacchino», ma i gendarmi lo gettano in
prigione e dopo un breve processo, vestito di una camicia bianca con pizzo di
bucato, il panciotto, lo stocco, i pantaloni da cavallerizzo, gli stivali neri da
ussaro e uno spolverino, Murat viene fucilato in un piccolo cortile, con le
canne dei fucili che quasi lo toccano, mentre lui stesso ordina il fuoco.
In quel mentre – adeguiamoci al lessico della storiografia alla Dumas – che
ne era del luogotenente Avitabile che abbiamo lasciato nell’isola di Procida?
Dopo Tolentino il giovane artigliere si era subito messo al vento – e chi
poteva dubitarne – andando a Napoli a protestare la sua indefessa fedeltà ai
Borbone. Nella capitale viene inquadrato in nuovi reparti che vengono
destinati all’assedio di Gaeta, città perennemente assediata, stando ai libri di
storia che abbiamo letto al liceo. La sconfitta aveva portato a un accordo,
chiamato Convenzione Lanza, tra Colletta, rappresentante di Murat e famoso
futuro storico, e gli austriaci, che lasciava solo tre città ai murattiani, Pescara,
Ancona e Gaeta. Pescara e Ancona aprirono subito le porte al nemico, Gaeta
rispose picche, come dicono i giocatori di bridge, e si preparò a una difesa
ostinata che durò quasi due mesi, dalla metà di giugno alla metà di agosto del
1815. Per gli amanti di notarelle della microstoria, a Gaeta i vessilli
napoleonici continuarono a sventolare mentre l’imperatore già aveva abdicato
e stava viaggiando sul Bellerofonte verso quell’isola maledetta. Secondo la
formula classica del linguaggio burocratico, il giovanottone di Agerola ebbe
modo di distinguersi durante l’assedio. Il generale Begani, il comandante
della piazza, si difese splendidamente e alla fine gli austriaci furono costretti
a schierare duecento cannoni che, sparando ininterrottamente, distrussero
parte nelle mura e incendiarono la torre. Una di queste batterie era comandata
da Avitabile, che non ne volle lasciare il comando anche quando una
scheggia di metallo lo ferì alla testa. Il gesto fu apprezzato dal comandante
delle truppe austriache, barone Lauer, che lo raccomandò per una promozione
a capitano e per una medaglia. I vendicativi, rancorosi re borbonici e i loro
immediati sottoposti, ancora con il fegato indurito dal lungo esilio, non erano
persone che potessero perdonare facilmente. Avitabile non aveva fatto altro
che prestare servizio al suo, in quel momento, sovrano legittimo, ma per i
Borbone era come se lo avessero marchiato a fuoco. Non solo non fu
promosso, ma fu messo a mezza paga e tra la fanteria leggera.
Dopo un anno di umiliazione e probabilmente di una miseria dignitosa,
come solo i napoletani sanno portare con grande eleganza, Avitabile lasciava
l’esercito borbonico, per non farne mai più parte (alla fine del libro metterò in
causa questa decisione per fabbricare una di quelle straordinarie ipotesi che
fanno storcere la bocca ai veri storici, che in quanto tali si sentono obbligati a
pretendere hegelianamente che solo il reale è razionale). Inizialmente prese la
direzione di ponente, non per buscar el levante, come diceva Cristoforo
Colombo, ma più modestamente per andare a guadagnarsi la vita come
commerciante. Almeno così dice Cotton, che lo fa girovagare tra le isole
Baleari, ritornare verso Algeri e naufragare alle bocche del Rodano a bordo di
un piccolo veliero da trasporto spagnolo, una storia poco in linea con tutto
quello che farà tra non molto. Sembra anche che, come naufrago sbarcato in
un’area infettata dalla peste, sia stato messo in quarantena nello Château d’If,
di fronte a Marsiglia, e qui siamo in Dumas padre e il giovanotto agerolano
potrebbe essere benissimo un suo personaggio. Rilasciato in condizioni
miserevoli, senza denaro, credito, amici e persino vestiti, a Marsiglia viene
salvato da alcuni ufficiali ex bonapartisti, i malinconici napoleonidi orbi
dell’imperatore, della gloria, spesso della salute, sempre a corto di denaro,
che hanno davanti a sé solo una possibilità per non finire in un miserabile
pensionamento: dirigersi verso il vicino Oriente frammentato in potentati
sotto il pesante, corruttibile giogo turco già in fase avanzata del suo sfacelo
oppure andare ancora più lontano, come stanno per fare due reduci di
Waterloo e come farà Avitabile.

1 Nel 1907 il signor Onofrio Avitabile residente a Santomenna, pronipote del generale Paolo Avitabile,
offre in dono al Museo di San Martino un quadro di grande formato (circa m 3,60 × 2,50) raffigurante
l’antenato, ma non descrive se il generale era a cavallo né indica l’autore del dipinto. La richiesta della
donazione resta senza esito. Nel 1925, invece, un altro donatore, Paolo Avitabile, dà al Museo di San
Martino un dipinto raffigurante il generale a figura quasi intera, di cm 105 × 78, che viene inventariato
con il numero 14448. Il dipinto, tuttavia, andato in mostra nel 1940, non è stato più rintracciato a
seguito degli eventi bellici posteriori. Resta nel Museo con lo stesso numero di inventario un dipinto di
piccole dimensioni (cm 31 × 25) di buona qualità che raffigura il generale ed è, forse, bozzetto del
dipinto disperso. Infine, nel 1940-41 una signora, Beatrice Avitabile, dona al Museo un altro dipinto
raffigurante l’avo, di cm 260 × 210 recante l’attribuzione a Carlo De Falco e inventariato con il numero
16306. Quest’ultima opera, purtroppo, si presenta gravemente danneggiata dal restauro effettuato nel
1941 all’atto dell’ingresso nel Museo.
È documentato dalle fonti un ritratto del generale Avitabile eseguito nel 1848 dal De Falco, noto
ritrattista della Corte Borbonica. [Nota a cura del Museo di San Martino.]
3.

«Ricordatevi di Chillianwala!»

Oltre a causare i magni effetti che sappiamo, studiati dalla Grande Storia, la
battaglia di Waterloo, avvenuta il 18 giugno del 1815 in una campagna
anonima e spoglia – il terreno scivoloso trasformato in fanghiglia dalla
pioggia che è sempre stata nemica della Francia (ricordate Agincourt?) – ha
creato altre e nuove situazioni che vengono catalogate con finta modestia
come piccola storia o anche microstoria. Dico finta modestia perché tutti gli
storici che si sono “divertiti” a scrivere testi su queste vicende pensavano in
realtà di fare cose molto più acute e significative, anche se circoscritte, dei
pittori di affreschi un tanto al metro. Nel caso in questione, uno degli effetti
collaterali della sconfitta di Waterloo è stato l’esilio forzoso, perché
minacciati o cacciati dai Borbone, o l’esodo volontario di numerosi ufficiali
troppo compromessi con il passato regime o troppo orgogliosi per piegarsi ai
vecchi-nuovi padroni o troppo disgustati da governanti che sembravano
mettere insieme le alterigie e le insulsaggini settecentesche con lo spirito
dell’arraffa-arraffa, se si può chiamare spirito questa laida propensione della
spaventosa borghesia francese del tempo di Balzac. È stata una diaspora che
ha preso una sola direzione, l’Oriente. I militari di ventura, come gli artisti,
hanno sempre avuto bisogno di una ricca committenza che ordinasse e
spendesse, altrimenti esisteva la concreta possibilità che i loro rispettivi
talenti deperissero per mancanza di solvente. E solo in Oriente c’erano ancora
quei capi politici, quei leader che avevano estremo bisogno del loro aiuto e,
nello stesso tempo, erano in grado di attirarli con stipendi impensabili in
Europa.
Questi ufficiali, perché di soldati semplici ce n’erano pochi, avevano
caratteristiche molto differenti dai militari mercenari del passato: i lanzi
imperiali e rinascimentali della battaglia di Pavia e del Sacco di Roma, gli
svizzeri che attaccavano con formazioni a porcospino, fatte di lunghe picche,
gli hannoveriani al servizio di Sua Maestà Britannica durante la guerra
d’indipendenza americana, tutti disgraziati che andavano a combattere fuori
della propria terra, come emigranti stagionali o anche a ferma lunga, senza
nessun altro scopo che il bottino, la razzia e il ritorno a casa con i dobloni
avvolti nei fazzoletti e nascosti dentro le brache. Naturalmente i nuovi
mercenari non erano arrivati fin qui per turismo, dovendo anche loro
guadagnarsi il pane, ma lo facevano in modo orgoglioso, spesso con
sentimento rivolto al passato, e ritenevano di aver diritto a un rispetto
proporzionato alla gloria inseguita e raggiunta e che nessuna Waterloo
avrebbe mai cancellato. Anche con gli stracci indosso, non avevano
rinunciato a quella secca alterigia, a un certo modo d’incedere e di porsi di
traverso al mondo, atteggiamenti che spesso venivano direttamente dal loro
maestro, da quello che avevano visto o saputo di lui adattandolo alla loro più
modesta personalità, con risultati a volte sconcertanti. Sto parlando in termini
del tutto generali: questo, ad esempio, non sarà il modello che copierà o con
cui entrerà in sintonia Avitabile, mezzo murattiano, mezzo borbonico, se mai,
e non napoleonide pieno.
Proprio a Waterloo avevano combattuto due ufficiali superiori, che
ritroveremo alla corte di Ranjit Singh già prima di Avitabile e che avranno la
funzione di aprirgli la strada. Si chiamavano Jean Baptiste Allard e Jean
Baptiste Ventura, un emiliano che si fregiava del titolo di conte di Mandi. Il
maharaja del Punjab sarà molto generoso verso i suoi ufficiali europei, di cui
si servì per ammodernare il suo esercito, e trattò sempre i ferenghi, gli
europei, con il dovuto tatto. Ma non si fidò mai completamente di loro, con la
sola eccezione di Allard che divenne il suo favorito, gli lasciò maggiore
libertà che agli altri e gli permise di andare in Francia, da dove ritornò carico
di corazze per cavalieri, carabine e pistole. Ventura, per il suo titolo di
nobiltà, per i suoi modi aristocratici, per l’abilità con cui risolse momenti
difficili, alla testa di battaglioni gurkha, gli straordinari soldati nepalesi, era
considerato il più eminente, anche il più rappresentativo del gruppo. Sembra
che tutt’e due, a turno, fossero incessantemente interrogati su Waterloo dal
maharaja, che non a caso era chiamato il Napoleone o il Leone del Punjab.
Loro ripetevano quello che grosso modo sapevano tutti. Come si fossero
ritrovati, insieme all’armata francese, in una posizione svantaggiosa rispetto
alla collina presidiata dalle giubbe rosse (se c’è un luogo che può essere
morne ma assolutamente non una plaine, come dice Hugo, questa è
Waterloo) e come avessero fatto i calcoli sul tempo necessario per arrivare a
tiro del nemico e quante probabilità esistevano realmente di cavarsela. Tra i
due, che allora non si conoscevano, il primo ad andare incontro agli inglesi
doveva essere stato sicuramente Ventura, veterano di Wagram e della
disastrosa campagna di Russia, che aveva sempre militato nella fanteria.
Perché alle undici di mattina, dopo aver aspettato inutilmente che il terreno si
rassodasse, senza troppa fantasia, l’imperatore decide di attaccare la parte
destra dello schieramento nemico, costituito dal caposaldo del castello di
Hougoumont, come mossa diversiva per sguarnire il centro del nemico, dove
ha in mente di lanciare l’attacco principale.
Hougoumont resisterà per ore diventando una battaglia nella battaglia e
l’azione si rivelerà una mossa sbagliata, con Wellington che ha spostato solo
pochi tra i suoi uomini. Ma Napoleone, rendendosi conto che non c’è tempo
per altri diversivi perché Blücher si sta avvicinando, all’una e trenta inizia
con l’artiglieria un fuoco di sbarramento e mezz’ora più tardi dà l’ordine di
muoversi in massa, convinto forse dalla resistenza del forte che il centro si sia
indebolito, mandando soccorsi mentre è rimasto quasi intatto. È una pura
manovra di forza, che mira allo sfondamento: sedicimila fantaccini guidati da
L’Erlon che avanzano lentamente e che in innumerevoli altre battaglie hanno
continuato ad avanzare, anche in un terreno insidioso come questo, fino a
vedere le schiene dei nemici che si ritiravano. L’inizio è discretamente
promettente e una dopo l’altra cadono due linee, ma il punto nevralgico, la
fattoria di Haye Sainte resiste. Improvvisamente arriva, veloce e inatteso, il
contrattacco della fanteria inglese guidata dal generale Pincton, seguito da
una carica di due brigate di cavalleria pesante, la Household al comando
dell’impetuoso Lord Uxbridge, e la Union Brigade di Ponsonby e per circa
due ore si combatte ferocemente, in un equilibrio precario. Ma lo
sfondamento non c’è stato e a questo punto Michel Ney, le brave des braves,
duca di Elchingen, principe della Moscova e maresciallo di Francia, al quale
incautamente Napoleone ha affidato il controllo tattico della battaglia,
interpreta alcuni movimenti sulla linea inglese come una ritirata e dà il fatale
ordine alla cavalleria di attaccare immediatamente, senza il supporto dei
cannoni e della fanteria. È l’ultima e una delle più impressionanti cariche
dell’epopea napoleonica: cinquemila tra corazzieri, carabinieri, dragoni,
lancieri, ussari, anche gli chasseurs à cheval, si lanciano in ondate che
dovrebbero risultare irresistibili e salgono su per la collina in uno sfolgorio di
divise e in uno scintillio di lame, convinti di travolgere qualsiasi ostacolo. Tra
i corazzieri, con il grado di capitano, un grado di fresca nomina attribuito da
Napoleone all’inizio dei Cento Giorni subito dopo lo sbarco dall’Elba, c’è
Allard, un provenzale (è nato a Saint-Tropez che in quegli anni doveva essere
un minuscolo paese tutto circondato da vigneti), piccolo e scuro di pelle,
notoriamente coraggioso. E chi non lo era, tra i cavalieri di Ney?
I primi ad andare avanti sono proprio i corazzieri. Ma quando superano la
cresta, già scompaginati dai colpi dell’artiglieria, si trovano di fronte venti
quadrati, perfettamente allineati e profondi tre file per lato, con le giubbe
rosse della prima fila in ginocchio che sorreggono i fucili puntandoli verso
l’alto e formano un muro di baionette, mentre le altre due file sono in piedi, e
aprono il fuoco a breve distanza, con la sicurezza di colpire sempre il
bersaglio come in un plotone di esecuzione. Sconcertati, i cavalieri rallentano
per un momento la carica, poi la riprendono, tentando di forzare i quadrati
con la punta delle lance e delle sciabole, ma l’impeto se n’è andato, i quadrati
si dimostrano più resistenti e solidi di quanto gli stessi inglesi sospettassero, i
cavalieri continuano a galoppare a vuoto in una sorta di giro della morte che
si ritorce contro di loro. Molti cavalli, spaventati dal fuoco, dall’odore del
sangue e soprattutto dal muro di baionette, davanti ai quadrati hanno frenato
o si sono imbizzarriti. Ma anche gli inglesi sono stremati: stanno
combattendo dal mattino e qualche compagine dà segni di cedimento e Ney,
che questa volta ha visto giusto, dopo aver abbandonato il terzo o quarto
cavallo ucciso sotto i suoi piedi, corre dall’imperatore a supplicarlo di
mandare in soccorso la superba cavalleria della Guardia Imperiale, che tante
volte era stata usata per assestare il colpo di grazia. Ma Napoleone
inspiegabilmente si rifiuta, una decisione considerata uno degli errori più
gravi di tutta la sua incredibile carriera. Ci ripenserà, pochi minuti, forse una
mezz’ora dopo, ma oramai è troppo tardi perché le giubbe rosse si sono
riprese e hanno chiuso i varchi, incitate da Wellington, detto “Calm under
stress” e più tardi “The Iron Duke”, ma che io chiamerei Fortunello perché,
irrigidito sul cavallo, presente ovunque e molto visibile, è un sicuro bersaglio
e decine di pallottole lo sfiorano ma nessuna lo ferisce, mentre i suoi aiutanti
cadono uno dopo l’altro. Gli strateghi da tavolino dichiareranno che è stato
proprio il fallimento delle cariche della cavalleria a trascinare i francesi oltre
il punto di non ritorno verso la sconfitta, e il successivo, famosissimo assalto
della Guardia Imperiale è inutile e destinato a fallire perché il mago della
guerra oramai si trova esattamente nella situazione in cui lui stesso diceva di
non volere trovarsi mai: da qualche minuto intorno alla sua tenda stanno
esplodendo le granate lanciate dai cannoni di Blücher e Napoleone è
accerchiato.
Non sappiamo come Allard si comportò – tutti si batterono eroicamente,
dirà poi Napoleone che aveva la tendenza all’iperbole nei fatti di guerra – ma
era considerato di grande coraggio personale, secondo quanto riferisce il
barone Hugel, notevole viaggiatore che lo conobbe molto più tardi a Lahore,
e non abbiamo motivo di dubitare che fece bene la sua parte. Poche settimane
più tardi viene escluso dall’amnistia dei Borbone e costretto all’esilio, perché
i giudici militari della restaurazione lo ritengono troppo bonapartista per
essere recuperabile, così come la Santa Inquisizione in Spagna perseguitava i
marrani, gli ebrei e gli arabi convertiti, perché non credeva alla loro
conversione. È la fine della sua carriera continentale ed europea, iniziata in
Francia e proseguita in Spagna sotto la protezione di Giuseppe Bonaparte, ma
senza particolari privilegi e con molto impegno. Mentre i Borbone fanno
fucilare Ney nei giardini del Luxembourg, Allard s’imbarca con numerosi
altri ufficiali che non hanno avuto la grazia reale o che preferiscono correre
l’avventura piuttosto che rimanere a mezza paga in una Francia in cui non si
riconoscono. La destinazione è l’Egitto, che ha dimenticato di essere stato
invaso e depredato dalle armate francesi e ricorda solo che sono stati i
francesi a lanciare la mania dell’egittologia, accogliendoli con calore
nell’esercito. Da ora in poi, con l’eccezione delle parti finali su cui non
voglio anticipare nulla, le vicende di questo libro stanno andando verso
l’Oriente, all’inizio il vicino Oriente e poi sempre più lontano. E proprio in
questo Oriente più lontano si svolgerà una battaglia che sembra cosa ridicola
paragonare a Waterloo, tanto differenti sono le dimensioni. Ma dove due o tre
brigate inglesi vengono sconfitte e una annientata da truppe indiane (sikh)
che si sono servite di un’artiglieria creata da un italiano, e da ufficiali
napoleonici che avevano combattuto a Waterloo.
In Egitto Allard ci resterà solo qualche anno, per spostarsi in direzione del
migliore offerente, lo shah Abbas, in Persia, con il quale tuttavia l’accordo
non si conclude. E allora riparte come un vero emigrante, travestito da
mercante e accompagnato da Ventura, che ha incontrato e conosciuto per la
prima volta a Teheran. I due si dirigono verso l’Indo e l’area nordoccidentale
dell’India, raggiungendo Lahore al termine di un viaggio di sei mesi, che
deve essere stato molto avventuroso e imprevedibile, anche perché bisognava
essere benedetti da una certa fortuna per sfuggire alle implacabili bande di
tagliagole che infestavano i passi e le gole dell’Afghanistan. Duecento anni fa
la città era la capitale dell’impero sikh, che andava dal Kashmir, dal Ladakh e
dal Baltistan fino all’Afghanistan verso ovest e fino ai deserti del Rajastan e
il Sind verso sud. Un impero non immenso, se misurato con il metro delle
dimensioni asiatiche e certamente non paragonabile all’impero moghul,
ancora fastoso, ma in via di sgretolamento già a partire dall’inizio del
Settecento e suicidatosi nella battaglia di Panipal attraverso una incredibile
serie di tradimenti e inefficienze quando lo shah Nadir era potuto entrare in
una Delhi indifesa, massacrare, saccheggiare, stuprare e portarsi via il Trono
del Pavone. Il regno o l’impero dei sikh non ha mai avuto una simile
dimensione e un simile apparato, ma si dimostrerà il più forte, compatto e
bellicoso stato dell’India e il più formidabile ostacolo che gli inglesi abbiano
mai incontrato nella creazione dell’impero.
Quando andavo al liceo, nei libri di storia, che era una storia europea o una
storia del mondo che si svolgeva quasi tutta in Europa, ogni tanto si aprivano,
con parsimonia, delle finestrelle verso tutto quello che succedeva o era
successo in altri continenti. Gli argomenti erano i più svariati, perché non
importava il tema, ma la misura del testo, dichiaratamente esiguo. E si andava
dai tagliatori di teste del Borneo alle guerre zulù, dai mongoli che puzzavano
bestialmente e lasciavano imputridire la carne cruda sotto la sella dei loro
“instancabili” pony (così come i fachiri erano sempre “seminudi”, gli arabi
“fanatici”, i cinesi “indecifrabili” e i pellerossa “ultimi e in via di estinzione”)
ad Harun el Rashid che prendeva lo stesso spazio del Saladino, fino alla
minacciosa battaglia di Tsushima, dove uno “strabiliante” Giappone passato
dal Medioevo all’Era moderna in cinquant’anni, aveva annientato la flotta
russa con una eccelsa tattica dell’ammiraglio Togo e con una tecnologia
superiore. Una di queste finestrelle era dedicata sempre al Trono del Pavone,
con annessa indecifrabile foto in bianco e nero, accompagnata da una
didascalia che lo esaltava come il più prezioso trono che si fosse mai visto.
Quello che non si capiva bene – parlo degli studenti, ma mi riferisco anche
agli autori dei testi, perplessi come noi – era tutto quello che riguardava le
vicende preliminari alla formazione dell’impero inglese. Fino all’inizio
dell’Ottocento, mentre le varie etnie e nazioni indiane continuavano a
combattere tra loro, nessun inglese sensato, nemmeno quelli che avevano i
loro denari investiti nella East India Company, aveva mai pensato, neppure
lontanamente, alla possibilità di trasformare i fondaci e le stazioni
commerciali in qualcosa di diverso. Pochi decenni più tardi li ritroviamo
padroni della metà del globo terracqueo, dall’Honduras alla Somalia, dal
Canada all’Australia, dalle Seychelles a Singapore. In India la Compagnia da
quasi duecento anni era andata stipulando contratti di protettorato in quasi
tutti i luoghi dove vedeva possibilità di traffici, ma questo non aveva mai
significato voler fondare un impero. La vittoria su Napoleone, come ho detto
prima, doveva aver fatto girare la testa agli anglosassoni che cominciavano a
credere di essere un popolo eletto e di avere avuto in sorte un destino
manifesto che li poneva alla guida di un concerto di popoli. Ma come, in
concreto, fossero riusciti in una simile, incredibile impresa, facendo finta di
esserci stati trascinati – e in parte era vero – nessuno lo diceva. Sapevamo
solo che quelli che gli avevano dato più filo da torcere erano stati gli “infidi
afghani” e “i marziali sikh”, secondo quanto tentava di spiegare il professore
di storia.
Molti anni più tardi venni mandato dal giornale a coprire un avvenimento
che in India stava minacciando l’esistenza stessa del paese: la rivolta degli
estremisti sikh, guidati da un fanatico dal fisico di un quattrocentista a
ostacoli e dalla voce profonda e ispirata, che si chiamava Bindranwale. Il
sikhismo era un credo che aveva preso dall’induismo e dall’Islam, riuscendo
a non assomigliare né all’uno né all’altro e sviluppando caratteristiche proprie
e codici particolari, alcuni dei quali erano conosciuti anche in Europa, come
la proibizione di tagliarsi capelli e barba. Sottoposti per secoli a persecuzioni
– alcuni dei loro maggiori leader e profeti vennero torturati e uccisi – i sikh
avevano sviluppato così bene le forme di autodifesa che si erano ritrovati a
essere un popolo di atletici guerrieri, i migliori che potesse vantare l’India.
Con la spartizione avvenuta dopo la seconda guerra mondiale, la grande
maggioranza dei sikh aveva scelto l’India di Gandhi e i rapporti tra le
comunità erano sempre stati eccellenti. Nel paese i sikh non superano il due
per cento della popolazione, ma contano e contavano molto di più, e i più
brillanti generali dell’esercito sono spesso sikh, insieme con i più maestosi
portieri degli alberghi di lusso che aprono con grande dignità le portiere dei
taxi. E qualche americano crede che siano dei maharaja che hanno sbagliato
automobile.
Ma questo Bindranwale era un terrorista, e dopo una serie lunghissima di
attentati si era andato a rifugiare nell’Harimandir Sahib, il Tempio d’Oro di
Amritsar, il sancta sanctorum della religione, sperando che le truppe indiane,
guidate quasi sempre da alti ufficiali sikh, non osassero profanare quei luoghi
così sacri. Invece Indira Gandhi aveva dato l’ordine di uccidere a tutti i costi
Bindranwale e io arrivai ad Amritsar due o tre giorni dopo l’attacco, perché
avevano bloccato tutti i giornalisti a New Delhi, in previsione del massacro.
Mi dissero poi che c’era stato un tentativo di sloggiare i terroristi asserragliati
nel Tempio d’Oro lanciando gas asfissianti o nervini, ma il vento contrario
aveva riportato indietro le esalazioni. Poi qualcuno aveva avuto la geniale
idea di aggirare l’anatema per chi calpesta l’erba sacra intorno al tempio che
si affaccia su un laghetto, facendo avanzare di corsa commandos col
giubbetto antiproiettile, ma senza scarpe, a piedi nudi, ed era stato come al
tiro a segno. A questo punto le truppe indiane incattivite, quasi ventimila
uomini perfettamente armati, sistemate a cerchio intorno all’area, avevano
stretto il nodo e non si poteva parlare di ribelli sopravvissuti. Chi non si era
arreso prima non aveva avuto nessuna possibilità di cavarsela. Oltre a fare un
giro turistico del Tempio d’Oro, a visitare il museo del sikhismo, che era un
museo delle torture che gli imperatori moghul e i musulmani avevano inflitto
ai credenti, ci mettemmo a chiacchierare con un paio di alti ufficiali che
sembravano ed erano più colti degli altri. E tutti ricordavano con nostalgia,
anche se risaliva a centocinquant’anni fa, il regno di Ranjit, considerato come
l’uomo politico più rilevante del secolo scorso in India. Quanto ad Avitabile,
nessuno lo conosceva, almeno sotto quel nome.
Negli archivi del Punjab, impressionanti per numero, precisione e qualità
d’informazioni, come se quelli che dovevano presentare i resoconti avessero
avuto dei registratori, è segnata parola per parola la commedia che si svolse
tra Allard e Ventura e il sospettosissimo maharaja. «Il maharaja si informa
graziosamente della loro salute, da dove vengono, dove vanno e che cosa
cercano», sto citando dalle informative. Loro rispondono che sono francesi,
che vengono da Rumi (Costantinopoli), Baghdad, Kandahar, Kabul,
Peshawar, Attock. Il maharaja chiede se sono versati nell’arte della guerra.
Gli ospiti rispondono che questo è il loro mestiere. Il maharaja allora chiede:
«Se vi affido la mia artiglieria e i miei battaglioni per invadere il Khorasan,
voi sarete in grado di conquistarlo?» Gli ospiti rispondono: «Sì, ma non nella
stagione calda, insopportabile per gli europei». Allora il maharaja chiede a
uno dei ferenghi di fargli vedere come si spara un cannone. E quello risponde
che non è un cannoniere, ma comanda ai cannonieri di sparare. Il maharaja
allora afferma che i sikh sono degli ottimi cavalieri, capaci di sparare venti
volte in due ore: i francesi sanno fare lo stesso? I due rispondono che quando
vanno a cavallo adoperano la pistola e la sciabola e quando smontano sono
capaci di sparare trecento volte in due ore. Nel pomeriggio il maharaja chiede
ai ferenghi di dirigere uno o due dei loro battaglioni. E i ferenghi rispondono:
«Quello che i vostri battaglioni hanno imparato hanno imparato, sono come
degli scialli che una volta tessuti in un certo modo non possono essere
ritessuti. Se sua altezza ci farà l’onore di affidarci parte del suo esercito, noi
cominceremo con i nostri metodi fin dall’inizio e fino al completamento. Poi
faremo una parata o una simulazione di attacco e solo allora, se sua altezza
sarà soddisfatto, potrà fissare i nostri onorari».
Sugli “onorari” la partita si fa serrata, fino quasi alla rottura. I francesi
chiedono degli ingaggi molto alti, pagabili giorno per giorno, perché quello è
un paese dove può succedere di tutto da un’ora all’altra. Ranjit gioca al
ribasso, cerca di informarsi quanto venivano pagati da Napoleone e muove
tutti i suoi agenti, che sono una quantità inverosimile e piazzati in tutti i posti
a tutti i livelli, per avere prove certe che non siano spie degli inglesi. E
finalmente a maggio, due mesi dopo il loro arrivo, Ranjit si convince che
Allard e Ventura sono veramente due ufficiali francesi che hanno combattuto
a Waterloo contro gli inglesi e che li odiano. «Il maharaja ha informato i due
ufficiali francesi», dice un’altra nota di archivio, «che il battaglione dello
sceicco Basowan, composto da sikh e da poorbiahs, con moschetti ad
acciarino, deve essere messo a loro disposizione». Questo è solo l’inizio
perché i due soldati di ventura, e soprattutto Allard, sono entrati se non nella
fiducia, nel buon volere del leader dei sikh e la manterranno sino alla sua
morte. Nel frattempo Ranjit è chiaramente molto eccitato dalla nuova e
competente amicizia e fa con loro piani grandiosi: «Il maharaja dice ai suoi
nuovi comandanti di truppe che bisogna prendere prima Peshawar, e poi
Kabul e Kandahar. I nuovi comandanti rispondono che il maharaja ha molti
sirdar (comandanti) e tutti devono essere usati nel modo più appropriato».
Nel 1822 Ranjit ha 42 anni, è uno dei più potenti uomini dell’India e ha
tutte le caratteristiche del grande leader di uomini, compresa la capacità di
manovrarli. È orbo di un occhio, eccessivamente astuto, un bevitore suicida
perché ogni giorno ingoia una quantità inverosimile di alcool, mescolato con
oppio, succo di carne e polvere di perle, alle quali si attribuivano poteri
afrodisiaci. Veste sobriamente, non è il genere del nababbo agghindato con
sete e scialli, con pietre preziose miste a patacche che oscurano il petto di
molti. Preferisce che a ostentare il lusso siano le guardie del corpo, molto
vanitose, sempre ipervestite con preziosi abiti e cariche di orecchini d’oro. Le
ambizioni del maharaja non riguardano le vesti ma la politica e se ha rifiutato
il titolo di imperatore è perché non vuole allarmare gli inglesi già abbastanza
preoccupati delle sue continue conquiste. Ma si tradisce quando viene
rappresentato nelle miniature con l’alone di luce intorno alla testa, simbolo
della gloria imperiale cantata dal grande poeta persiano Firdusi e
scrupolosamente presente nei ritratti degli imperatori moghul eseguiti dagli
artisti del XVII secolo. Ha molte passioni: per le donne che non riesce a
soddisfare perché è diventato impotente, per i cavalli, per le pietre preziose,
in particolare per quelle che erano appartenute agli imperatori moghul.
Riuscirà a impadronirsi del Koh-i-nur, la montagna di luce, il diamante più
famoso e all’epoca più grande del mondo, con uno di quei raggiri che a
livello politico lo avevano fatto diventare maharaja del Punjab. Ma non c’è
nulla che eguagli l’immensa cura che dedica alla costruzione di un nuovo, più
moderno esercito, perché è il primo a rendersi conto che le possibilità non
tanto di crescere ancora, quanto di sopravvivere sono legate a un’armata che
possa competere con eventuali nemici che si avvalgono di una disciplina e di
una tecnologia superiori.
Prima di lui l’esercito dei sikh era costituito da bande predatorie di
cavalieri: non avendo né la forza né la capacità di sostenere battaglie campali
o comunque di tipo frontale, i sikh si erano specializzati nella guerriglia,
razziando villaggi e assaltando carovane, e avevano già una fama di truppe
poco disciplinate ma coraggiose. Si muovevano sempre a cavallo,
disprezzando chi andava a piedi, sempre pronti allo scontro e carichi di armi.
Nei ritratti che stanno al museo Guimet di Parigi si vedono dei vanitosissimi,
sgargianti e atletici comandanti che portano una sciabola per mano, altre due
infilate nella cintura, un fucile ad acciarino attaccato dietro la schiena e tre o
quattro quoits legate al turbante, una sorta di anelli taglienti che nelle loro
mani diventavano micidiali armi da lancio. Solo i nobili, i proprietari terrieri
potevano portare o potevano permettersi le cotte di maglia di ferro e i caschi
in acciaio, mentre gli zeloti poveri, un po’ straccioni, dall’altra parte della
scala sociale, s’infilavano in testa un turbante a cono che li faceva
assomigliare a dei maghi merlini. I nobili o proprietari terrieri, i ghorchurras,
avevano un’etica militare severa e consapevole paragonabile a quella dei
cavalieri teutonici, più sensibile ancora per quanto riguardava il coraggio
personale e l’obbligatorietà di una nobile condotta in battaglia. Vestivano in
maniera splendida, come dei cavalieri medievali europei che fossero passati
attraverso i colori dell’India, indaco, rosso cupo, giallo buddista e le
meravigliose sete e le stoffe del Kashmir. Uno dei loro capi, il raja Suchet
Singh, aitante e sprezzante, era sembrato al barone Hugel uscire dalla
macchina del tempo, come provenisse da tempi remoti, quando il fato degli
imperi stava in bilico sulla punta delle lance.
Tutto l’insieme era molto pittoresco per gli europei in visita, ma non solo
con queste truppe si poteva conquistare un impero. La riforma partì proprio
dalla fanteria che mancava. Ranjit si rivolse ad altre etnie, indù, afghani,
dogras, musulmani del Punjab e infine gli implacabili gurkha nepalesi, che
non avevano i pregiudizi dei sikh. E affidò ad Allard l’addestramento di due
reggimenti di corazzieri che ai visitatori sembravano cavalcare con grande
sicurezza ed eleganza, almeno nelle parate. L’insieme delle truppe comandate
dagli europei aveva il nome di “Francese Campo” ed era composto, oltre che
dai due reggimenti di cavalleria di Allard, anche da quattro battaglioni di
fanteria di Ventura e da una batteria di ventiquattro cannoni. Era stata proprio
l’artiglieria, creata dal nulla, ad aver reso straordinariamente pericoloso il suo
esercito. Con pochi cannoni comprati o trafugati agli inglesi, era riuscito a
moltiplicarli e anche a migliorarli mettendo a lavorare nelle fonderie gli
abilissimi artigiani indiani che in poco tempo erano riusciti a realizzare un
vasto parco di cannoni di differente calibro, uso e gettata: c’erano cannoni
trasportati da cavalli per il pronto intervento, altri, più pesanti, d’assedio
venivano attaccati a otto paia di buoi. Quelli più leggeri venivano montati su
cammelli, e smontati rapidamente. Il solito ufficiale inglese, inviato a Lahore
a spiare con qualche scusa, nel 1838 riferiva ammirato che durante le
esercitazioni l’artiglieria sikh si era rivelata eccellente nei tiri lunghi a 800 e
1200 metri. E i cannonieri servivano i pezzi con rapidità e precisione.
Tuttavia l’ammodernamento non aveva significato l’abolizione totale
dell’antico modo di combattere caratteristico dei sikh, e i ghorchurras
continuavano a lanciarsi in incursioni temerarie. Ma ora erano appoggiati
dalla fanteria e dall’artiglieria.
Gli inglesi, che hanno sempre avuto la tendenza a percepire le popolazioni
con cui entravano in contatto in termini di possibilità commerciali o militari,
apprezzavano enormemente il coraggio e le capacità guerresche dei sikh, che
dovevano vedere come una razza di guerrieri naturali. E le guerre anglo-sikh,
come le guerre anglo-afghane, rinforzarono i preconcetti. Così, quando la
Gran Bretagna si trovò a gestire un impero che copriva metà dell’orbe
terracqueo, in India cercò di favorire l’esprit de corps in modo talmente
eccessivo che, allo scoppio delle prima guerra mondiale, i sikh superavano il
35 per cento di tutta l’armata indiana chiamata alle armi. E i vecchi generali a
riposo ripetevano agli ufficiali nuovi arrivati ai tropici, incaricati di
controllare i sikh: «Ricordatevi di Chillianwala».
4.

Un nano orbo alcolizzato e il Koh-i-nur

Ancora prima che Allard e Ventura arrivassero a Lahore, Avitabile già era
riuscito a mettersi al servizio dello shah di Persia. Nel periodo peggiore della
sua vita, passando dallo Château d’If a un lazzaretto di Marsiglia, si era
ritrovato senza soldi, con prospettive di guadagno inesistenti, attorniato da
una folla di potenziali emigranti di mezza tacca dai quali cercava di tenersi
lontano. Tra le molte, inutili conoscenze, perché tutte troppo simili tra loro e
con gli stessi problemi, l’ex artigliere napoletano aveva fatto amicizia con un
ex capitano della Guardia Imperiale, un reparto ancora attorniato dal mito,
anche dopo Waterloo, quando nella campagna era echeggiato un grido mai
udito prima: La garde recule. Il capitano si chiamava Beraud ed era stato in
Persia, tornandone entusiasta. «Le sue abbaglianti descrizioni», dice il Cotton
nella sua biografia di Avitabile, «eccitarono talmente la fantasia del giovane
avventuriero, che egli stabilì di andare verso levante invece che verso ponente
per trovare una carriera e una fortuna».
Dopo avere tanto cercato l’indispensabile biografia di Cotton, non ho certo
l’animo non dico per criticarla, ma nemmeno per fare qualche rilievo che
possa danneggiare la sua credibilità. Mi sembra tuttavia che sulla Persia non
ne sapesse granché, perché lascia partire il suo eroe, senza avvisare i lettori
che può andarsi a cacciare in pasticci senza fine. Se rispettiamo la
separazione dei ruoli e delle funzioni tra autore e personaggi, Avitabile può
anche bere quello che gli racconta lo stangone con il colbacco, questo ex
ufficiale della Guardia che non ha saputo salvare il suo imperatore e che ha
problemi alla cervicale, dopo aver portato in testa per anni quel bidone
peloso. Mentre Cotton ha il dovere d’informare che sotto la dinastia dei
Qajar, in origine una tribù di seminomadi che nel 1794 aveva conquistato il
potere, sostituendosi ai Safavidi, l’autorità centrale del paese si era indebolita
ancora di più rispetto al passato, e ai gruppi tribali che da sempre
minacciavano una già fragilissima coesione – i kurdi, gli afghani, gli uzbeki, i
turcomanni – e all’impero ottomano che si era fatto esoso e prepotente in
maniera inversamente proporzionale alla sua decadenza come potere
mondiale, si erano aggiunte le nazioni europee, in particolare Russia e
Inghilterra, che stavano iniziando a baloccarsi con il Grande Gioco. Quando
Avitabile, che era passato per Costantinopoli in cerca di commendatizie,
arriva in Persia passando per Trebisonda, l’atmosfera politica è delle
peggiori, se c’è mai stato un momento in questo paese in cui se ne sono viste
di migliori. Lo shah regnante, un grassone di nome Fath Alì, abbastanza
degenerato per non smettere i suoi vizi, ma consapevole degli intrighi che
avrebbero seguito una sua morte improvvisa, aveva nominato a succedergli
uno dei figli, Abbas Mirza. La scelta era stata contestata dal maggiore,
Mohammed Alì Mirza, governatore di Kermanshah (Persia occidentale), che
aveva lasciato la corte pronunciando le abituali, nemmeno tanto oscure
minacce del legittimo diseredato.
La successione contestata aveva portato alla divisione del paese: l’erede
nominato rimaneva a Teheran, spalleggiato da un gruppetto di consiglieri e
militari inglesi, continuando a governare precariamente sulla maggior parte
del territorio. Mentre Mohammed Alì Mirza si era ritirato a Tabriz e tra i suoi
ufficiali c’erano numerosi francesi, e comunque non inglesi o antinglesi, ai
quali si andò ad aggiungere Avitabile. Anche per provare la validità di un
uomo di cui i militari francesi parlavano con un certo rispetto, sebbene lo
conoscessero pochissimo, all’ex artigliere dei Borbone furono affidati
incarichi minori di addestramento delle truppe. Poi, come per un’ispirazione,
al Mirza venne l’idea di mandare questo italiano affabile e di poche parole,
riservato e privo di millanteria e di vanità, a differenza dei francesi, a trattare
con gli intrattabili kurdi, per costringerli a combattere contro lo shah, opzione
che i tosti montanari non scartavano mai in linea di principio. Questo tuttavia
non era il compito primario di Avitabile. Il governatore si era convinto, come
saranno subito convinti numerosi altri dopo di lui, inglesi, persiani, indiani,
sikh, che il napoletano aveva una rara dote per risolvere le missioni
apparentemente impossibili. In questo caso fare pagare le tasse ai kurdi, che
non le avevano mai pagate da centinaia di anni, a memoria di generazioni.
Il rifiuto di farsi taglieggiare dal governo, diffuso in quasi tutti i paesi a
regime personale, nel Kurdistan persiano assumeva un aspetto che andava al
di là della più o meno grande esosità delle richieste. L’esercizio del potere
presupponeva certi diritti, tra i quali il più importante era quello di imporre le
tasse a tutti i sudditi che vivevano entro i confini del territorio controllato. Per
la stessa ragione i capi delle fazioni tribali o delle minoranze come i kurdi
non potevano permettere che i loro affiliati pagassero le tasse, altrimenti la
loro autorità e la capacità di mediare con il governo non avevano più senso. Il
risultato era che il principe ribelle era costretto a organizzare cene sontuose
per mostrare ai pezzenti di Tabriz di che sfarzo e di che lusso fosse capace –
un lato non minore del fare politica in Oriente. Poi succedeva che i soldati
non ricevevano la loro paga perché le casse dello stato risultavano vuote e
non era strano che i governanti fossero sempre in bilico tra l’omaggio
reverente dei congiunti e la pugnalata nel corridoio inferta dagli stessi. La
fama di Avitabile, the kind Avitabile come a volte lo chiameranno gli inglesi
senza un filo d’ironia, perché apprezzavano molto la sua gentilezza formale e
le buone maniere, è iniziata qui, nella splendida regione del nord-ovest della
Persia. Riuscì a fare quello che nessuno mai aveva fatto.
Non ci sono rimasti resoconti sulle sue missioni in un territorio così
difficile e ostile ai controlli, di qualsiasi tipo fossero, tuttavia non mi è
difficile immaginarlo mentre si muove per raggiungere i villaggi kurdi,
seguito da una poderosa scorta, attraverso un luogo straordinariamente carico
di magia: quella pianura ondulata che si estende intorno a una collina dai
pendii ripidi, un ex vulcano con il cratere invaso dalle acque di una sorgente,
come a Nervi, vicino a Roma. Quando raggiunsi la cima della collina,
chiamata Takht-é-Soleiman, il Trono di Salomone, un giugno di qualche
anno fa, dopo aver attraversato tutta la Persia settentrionale alla ricerca della
possente e meravigliosa architettura selgiuchide, non ho resistito e mi sono
immerso in quelle acque dove aveva nuotato – dicevano – Zoroastro. I
tentativi di far combaciare i miti alla realtà storica mi sono sempre sembrati,
più che ridicoli, non conseguenti alla stessa natura del mito e l’accanimento
degli accademici che scrivono tomi per dimostrare che qui Romolo faceva
merenda e laggiù Achille si allenava in palestra, assomiglia a una regressione
nell’infanzia. Non essendo dotati di qualità poetiche, non ce la fanno a volare
sopra le nubi, come facevano Robert Graves, Giorgio de Santillana e Hertha
von Dechend e restano a terra a incaponirsi su quei quattro sassi polverosi. A
me interessava unicamente la leggerezza del mito, la sua capacità di svegliare
la fantasia e, nuotando in quelle acque fredde e scure, ricordo che provai
come la sensazione di essere iniziato a un mistero, anche se non sapevo
assolutamente quale. E di partecipare a un altissimo privilegio, anche se
avevo letto che Zoroastro sarebbe nato da tutt’altra parte, nei territori più
aspri al confine con l’Afghanistan. Subito dopo, incontrammo un gruppo di
giovani kurdi, tra cui delle belle ragazze con il viso completamente scoperto e
con i vestiti coloratissimi, che ballavano e cantavano lungo la strada. Ci
mettemmo subito a ballare e a cantare con loro, trasformando questo incontro
in una piccola festa. Eravamo nelle loro terre e il senso di sollievo di uscire
da un paese meraviglioso per molte ragioni, ma in mano ai detestabili mullah
e di non vedere più quelle tetre, nere figure femminili ammantate dal chador,
fu fortissimo.
Non si può dire che per il periodo persiano della vita di Avitabile, che pure
è durato sei anni, Cotton abbia fatto delle ricerche approfondite. Dice solo
che «con un pugno d’uomini fu capace di ridurre le tribù ribelli della
frontiera, che a lungo avevano sfidato l’autorità dello shah. Per questi e altri
servigi ebbe in compenso il titolo di khan, il grado di colonnello e le
decorazioni dei Due Leoni e della Corona e del Leone e del Sole». Nei
diplomi che accompagnano questi ordini, Avitabile è chiamato «il fiore della
nobiltà italiana, pieno di valore e di magnanimità» e con un’espansività che
dovette sorprendere anche lui, qualificato come «Eletto della Cristianità». È
un riassunto troppo scarno per un tempo così lungo, e non cita nemmeno uno
di quei particolari che risollevano una pagina persa nella noia descrittiva. La
biografia tanto cercata mi stava deludendo, fortunatamente compensata da
The Adventurers che dovevo aver sfogliato, più che studiato, perché a
rileggerlo scoprivo che su Avitabile l’autore, Grey, non aveva pregiudizi, in
nessun senso. E ora metteva in chiaro che era stato qui «per la prima volta,
che Avitabile ha messo in pratica quel sistema misto di terrore, torture
inaudite, esecuzioni di massa, che applicato più tardi ai ruffiani di confine che
gravitavano intorno al Khyber Pass (che nei libri dell’Ottocento viene
chiamato Khaibar Pass) e a Peshawar, costrinsero i suoi amministrati a rigare
dritto. Questi metodi avevano tutta l’ammirazione dei sikh, che
disprezzavano la dubbia umanità di Ranjit Singh, un uomo senza scrupoli e
molto rude, ma che si fermava un attimo a pensare prima di dare la morte».
Secondo Grey il napoletano aveva perfettamente intuito la mentalità dei
“selvaggi” asiatici, che non solo dovevano essere governati attraverso la
coercizione e la paura, ma loro stessi si aspettavano un comportamento simile
da parte dei governanti e anzi lo giustificavano e lo apprezzavano. A
Peshawar il generale diventato governatore aveva sempre attorno a sé una
folta guardia del corpo che non lo lasciava mai un attimo, formata da parenti
di afghani e khyberiti fatti torturare e poi squartati o impiccati dal napoletano.
Questi gentiluomini avrebbero potuto ucciderlo in ogni momento, come è
successo in era contemporanea a Indira Gandhi. Invece non solo non
pensavano alla vendetta, ma salvarono il loro capo in più di una situazione
difficile. La stessa cosa accadde quando il reggimento sikh di Peshawar si
ammutinò e i tagliagole afghani, quelli perseguitati fino al giorno prima,
vennero convinti a passare dal ruolo dei fuorilegge a quello di chi fa
rispettare la legge. E guidati da Avitabile, in quello che è stato il suo colpo
d’ingegno più celebre e lodato, costrinsero i sikh a venire ai patti. In un passo
precedente Grey diceva che in Persia era talmente apprezzato che, quando
morì il suo datore di lavoro Mohammed Alì, così stolto da attaccare Baghdad
con tutti i nemici che già aveva all’interno del suo paese, Abbas Mirza lo
chiamò subito al suo servizio, proponendogli anche lui l’impresa impossibile:
far pagare le tasse ai kurdi.
Tutto sommato, fino a questo punto ne sappiamo ancora poco di Avitabile.
Ma la sua linea di condotta appare già definita, con caratteristiche che
chiamerei “alla corleonese” se mi è permesso un accostamento che può
sembrare troppo eccentrico o troppo remoto dal mondo indiano, ma che
invece dimostra come le leggi che governano i rapporti tra gli uomini sono
simili ovunque. I mafiosi corleonesi degli anni Ottanta che risultarono
vincenti su tutte le altre cosche della Sicilia misero sul campo una strategia
psicologica del terrore, accompagnata dalla inesorabilità e dalla ferocia delle
condanne. Non era una strategia del tutto nuova, ma Riina e amici la
portarono alle ultime e più spietate conseguenze. Chi si metteva contro era
condizionato già dall’inizio, perché i corleonesi erano talmente temuti che si
creava un clima a loro favorevole ancora prima di muoversi. Tra le storie che
ho sentito raccontare sul loro conto, a cominciare da quella del boia Pino
“Scarpuzzedda” che faceva a pezzi i prigionieri e poi li gettava nella famosa
vasca riempita di acido per dissolvere i corpi, a tutte le altre, una delle più
significative risale a molti anni fa, nel tempo in cui Totò Riina detto ’O Curto
e Provenzano erano due picciotti che lavoravano nell’azienda agricola di
Leggio detto Liggio, il più feroce uomo di mafia che ci sia mai stato e
capostipite dei corleonesi. I tre, il capo incontrastato, allora senza problemi di
salute, e i due suoi allievi preferiti, uccidevano a colpi di roncola il bestiame,
in una sorta di rito sacrificatorio in cui l’elemento principale era il sangue,
che schizzava da tutte le parti. E poi, con indosso ancora i vestiti macchiati,
portavano i quarti macellati così selvaggiamente al mercato di Palermo,
frequentato non da orsoline. Il loro arrivo con il camion da cui trabordavano i
quarti, le facce del terzetto, l’odore del sangue che si sentiva a distanza, tutto
faceva pensare a una messa in scena altamente teatrale, studiata per i loro
piani di dominio. Ma i lavoranti, gli scaricatori e i macellai provavano brividi
che erano reali.
Sembra che l’ex cannoniere dei Borbone riuscisse ad accontentare anche il
nuovo padrone. Ma a questo punto succede l’imprevisto assoluto, almeno
nella biografia: senza averci minimamente preparato, senza aver lasciato
cadere qualche avvertimento da raccogliere e da interpretare, il nostro Cotton
quasi di colpo ci mostra un lato della personalità di Avitabile che credevamo
inesistente. Il generale tiene nostalgia. Una mattina si sveglia e si mette a
pensare con struggimento a Chiaia, Marechiaro, Santa Lucia e aggiungiamoci
le pizzelle, il sartù, la pizza con la scarola, magari la cedrata – e bisognerebbe
informarsi da Fabrizio Mangoni, urbanista e storico dei dolci napoletani, se in
quel tempo erano già nati le sfogliatelle e il babà. E in poco tempo organizza
tutto per il ritorno.
Per la verità non sappiamo quale sia stata la vera ragione di una decisione
così imprevedibile. C’è il sospetto che la nostalgia sia solo un pretesto e che
il suo fiuto gli aveva suggerito di cambiare aria rapidamente. Ma se
veramente ’O Malommo teneva nostalgia, allora qui siamo in piena
sceneggiata napoletana, con chillu piezzo ’e merda che sarà pure quello che
sarà, ma tene ’o core scure scure perché pensa sempe a Napule, ca nun s’a
pò scurdà. Siamo a Santa Lucia luntana. E in effetti Avitabile ritorna a
Napoli, carico di doni per tutti e soprattutto per la corte e per la regina, alla
quale presenta un piccolo cofano d’oro che contiene il più fine degli scialli
kashmiri, probabilmente uno shah-tousc, la lana del re, tessuto con i peli del
rado vello di una capra antilope che si trova tra il Ladakh e il Tibet. Ma i doni
non servono a guarire dalla paralisi che immobilizzava una corte di vegliardi
destinata a sprofondare nelle sue meravigliose ville. E non si accorgono che
l’ex cannoniere, senza alcun dubbio un arrivista e della peggiore specie,
volgarissimo dietro le affettate urbanità, è proprio l’uomo che il destino ha
mandato loro per salvarli dalla catastrofe. Il generale, in apparenza, viene
accolto con tutti gli onori, anche qui gli viene messo al collo qualche nastro
con qualche insegna di ordine di San Gennaro o similia. Ma dopo due o tre
settimane si rende subito conto che quello che lui sperava, un incarico o
reincarico di prestigio a Napoli o altrove nel Sud dell’Italia, non trova
conferma nelle vaghe parole d’apprezzamento del sovrano e dei suoi ministri.
Se c’era uno stato in Italia che aveva bisogno dell’energia senza scrupoli di
Avitabile, delle sue conoscenze tecniche, della sua brutalità mascherata, di
qualcuno che sapesse respingere qualsivoglia attacco, di terra o di mare, da
parte di eserciti regolari e di guerriglieri, che fosse in grado di difendere
l’integrità dello stato sfruttando quelli che erano i suoi nemici, come farà a
Peshawar, questo era proprio lo stato napoletano. Ma il re e molti dei suoi
ministri non facevano onore alla fama di svelto intuito che si attribuisce,
insieme con innumerevoli altre qualità e difetti, ai napoletani, senza mai
considerarli per quelli che sono: simili a noi tutti. Inoltre erano troppo
provinciali e ignoranti per capire la possibilità che si offriva loro. Gli era
capitata una magnifica occasione e l’avevano mancata.
Nelle sue memorie il barone Carl von Hugel, che si diceva amico di
Metternich, e che fu uno dei grandi viaggiatori in Oriente nella prima metà
dell’Ottocento, per arrivare nel Kashmir aveva dovuto chiedere a Lahore
l’autorizzazione a Ranjit. Qui aveva incontrato Avitabile, che gli aveva
confessato di essere rimasto disgustato dell’ambiente napoletano e di essere
ritornato in Oriente, dove si era messo al servizio di un principe indipendente.
Il principe indipendente era naturalmente Ranjit. Cotton, che lesse ad
Agerola il diario tenuto dal generale, racconta che Avitabile aveva tra le sue
numerose, imprevedibili doti, che facevano di lui un essere inaffondabile e
pieno di risorse, quelle specifiche del magliaro (non usa la parola “magliaro”,
che gli era sconosciuta, ma il concetto è chiarissimo). Per pagarsi le spese del
lungo viaggio fino al Punjab in compagnia di Claude Auguste Court, un
tenente di fanteria reduce come quasi tutti dalle battaglie napoleoniche e un
ex allievo del Polytechnique (e futuro artefice dell’artiglieria sikh, seguendo
anche i consigli del suo amico napoletano), si portò dietro un bagaglio che
comprendeva, tra centinaia di cianfrusaglie, anche quadri e cartoline oscene,
carillon, orologi con musica, tabacchiere, che riuscì a vendere con notevole
profitto lungo la strada. Fu anche fortunato dall’essere stato preceduto, nelle
presentazioni al maharaja, da Allard e Ventura, che avevano faticato non
poco, come abbiamo visto, a superare le diffidenze del sospettosissimo
Ranjit. Nel 1826, quando Avitabile arriva a Kabul, allora parte dell’impero
dei sikh, non ha bisogno di farsi troppo avanti perché tutti conoscono le sue
gesta in Persia, riferite dai due francesi, e qualche mese più tardi a Lahore gli
viene subito affidata tutta l’artiglieria, con la sovrintendenza degli arsenali e
delle fonderie. Ma Ranjit, dopo averlo incontrato durante una di quelle
adunate di capi militari e di consiglieri che si tenevano nel cortile del suo
palazzo, ha la stessa intuizione del pretendente persiano e senza troppe
spiegazioni gli affida la provincia di Wazirabad. E qui abbiamo, da parte del
dottor Joseph Wolff, una delle prime testimonianze dirette dei suoi metodi.
Ex ebreo boemo e poliglotta, esperto teologo che trovava sempre difetti in
tutti i credi che di anno in anno cambiava come vestiti, Wolff aveva viaggiato
in lungo e in largo per ampliare la sua vasta scienza e per rendere ancora più
noiosi i racconti su tutto quello che non aveva ancora visto. Diceva anche di
avere l’abitudine di dire sempre la verità e in una regione come quella in cui
era finito, questo imperativo morale non si presentava come il miglior
metodo per vivere a lungo. Aveva conosciuto Avitabile ancora prima che
fosse nominato governatore di Peshawar, ma il ritratto che ne fa è ambientato
nella capitale dei patani, famosa da sempre per essere ingovernabile: «Aveva
migliorato la città per una notevole estensione. Egli teneva le vie pulite e
aveva un bel palazzo e una bella carrozza. (Cotton lo paragona
urbanisticamente al celebre barone Haussmann, che aveva cambiato il volto
di Parigi, distruggendo quasi tutta la parte medievale in funzione dei grandi
boulevard, dove sarebbe stato molto più difficile per il popolo in rivolta
formare barricate, come avevano fatto per un secolo). Egli era un uomo
assennato, allegro e pieno di buon umore. Egli disse una volta a Wolff
(l’autore parla in terza persona) che voleva mostrargli i suoi angeli custodi e
allora lo condusse nella camera da letto le cui pareti erano ricoperte di quadri
(osceni) di kunchnee o danzatrici. Egli e Wolff erano un giorno usciti a
passeggio trasportati da elefanti ed egli gli disse: “Ora vi mostrerò i segni
della civiltà che ho introdotto in questo paese”. Uscirono fuori le mura e
Wolff vide sei forche da cui penzolavano altrettanti malfattori… Benché
avesse ammassato una fortuna di cinquantamila sterline, il suo più vivo
desiderio era di tornare a Napoli. Diceva sempre: “Per amor di Dio, fatemi
partire da questo paese”».
Ranjit aveva conquistato Peshawar nel 1818, prima dell’arrivo dei
mercenari europei, quasi senza combattere perché il comandante afghano,
spaventato dalla furia con cui i sikh stavano devastando le province intorno,
era fuggito rapidamente senza preoccuparsi di lasciare intatti sugli spalti
quattordici grandi cannoni. E proprio per marcare la differenza con il
comportamento degli afghani e patani che avevano sempre saccheggiato le
città del Nord dell’India durante le loro periodiche incursioni, l’ordine del
maharaja, non si sa bene quanto rispettato, era stato quello di non toccare
cose e uomini. La proclamazione si era svolta facendo rullare i tamburi lungo
le strade e il giorno dopo Ranjit, con i suoi due fili di meravigliose perle che
portava annodate al collo e alla vita, in pace e in guerra, seduto sulla groppa
di un enorme elefante era andato in giro per il bazaar a dimostrare la propria
benevolenza. I patani avevano risposto nel tempo in modo non equivoco,
uccidendo una media di cento soldati sikh ogni anno, di solito pugnalandoli
mentre camminavano nel bazaar, per far capire al marahaja in quale conto
tenevano le sue proclamazioni. E la situazione era andata peggiorando fino a
quando non arrivò il napoletano.
Cotton dice che il racconto dell’arrivo di Avitabile a Peshawar glielo fece
il vecchissimo Vanacore, l’architetto del castello ad Agerola, che lo aveva
sentito direttamente dal generale: «Prima di muovermi verso Peshawar,
mandai avanti carri con un buon numero di pali di legno, che i miei uomini
piantarono in giro, intorno alle mura della città. Il popolo rise forte a questa
nuova pazzia del ferenghi e più forte ancora quando i miei uomini ritornarono
a deporre una corda sotto ogni palo. Fucili e sciabole, dicevano i patani
sottovoce, sono le armi per reggere una città, non mazze e funi. Ma quando
tutto fu in ordine un bel mattino si trovò che da quelle forche pendevano
cinquanta tra i peggiori soggetti di Peshawar e l’esposizione si rinnovò con
nuovi soggetti ogni giorno di mercato, finché ebbi tolto di mezzo briganti e
assassini. Successivamente fui costretto ad occuparmi dei bugiardi e degli
spioni. Il mio metodo era di tagliare loro la lingua e quando venne un santone
che proclamava che avrebbe fatto ricrescere la lingua a tutti, la feci tagliare
anche a lui. E così a Peshawar cominciò a regnare la pace».
Uno dei pochi a detestare il napoletano e i suoi metodi era Henry
Lawrence, che successe ad Avitabile quando i sikh si arresero agli inglesi.
Lawrence è stato il capostipite di quella élite del corpo coloniale,
immensamente energica, con una capacità di lavoro sovrumana, inattaccabile
dal caldo, dalle malattie, dai thugs, fortemente puritana, molto consapevole e
con un’aria di superiorità impossibile da nascondere, che di fatto creò e resse
l’impero inglese. Scrisse più volte che i metodi di Avitabile erano orribili e
inaccettabili e se qualcuno gli chiedeva di fare degli esempi, raccontava due
storie, tutt’e due vere. La prima riguardava una delle tecniche preferite dal
napoletano per sbarazzarsi dei condannati a morte: il famoso lancio dall’alto
del minareto della sua residenza, minareto privo di cuspide, che aveva fatto
abbattere per creare una piazzola, in modo da rendere più facile l’operazione.
Una volta due boia avevano gettato nel vuoto un poveretto, che per una
fortuna incredibile era finito contro una sporgenza immediatamente sotto la
piazzola e a questa si era aggrappato. Una volta di nuovo in piedi sul
cornicione e in una posizione dove non poteva essere raggiunto, si era messo
a gridare: «È Allah che non vuole farmi morire. Avitabile deve concedermi la
grazia». Terrorizzati per non aver eseguito la condanna e non osando saltare
sul cornicione anche loro, i boia avevano iniziato con il condannato una
conversazione di tipo beckettiano. «Allah ti ha salvato, ma Avitabile non
perdona», dicevano, e gli consigliavano di buttarsi di sotto prima dell’arrivo
del generale. La conversazione andò avanti per qualche tempo fino a quando
uno dei boia decise di andare a raccontare tutto al generale che stava nel suo
studio. Impassibile come sempre Avitabile fece venire carta e penna e firmò
una vistosa concessione di grazia. Poi la porse al boia dicendo: «Fategliela
vedere. Quando lo avrete di nuovo tra le mani, ributtatelo di sotto». I boia
eseguirono gli ordini.
Il secondo episodio è rimasto altrettanto famoso, e sempre con
connotazioni da teatro dell’assurdo. Lawrence l’aveva saputo da monsignor
Jacobi, arcivescovo cattolico di Lahore e “intimo”, secondo l’inglese, con il
governatore (in quell’intimo c’era tutto lo sprezzo del protestante fanatico
verso il degenerato prete cattolico). Uno dei principi della casa regnante di
Kabul era andato in visita ufficiale a Peshawar. Terminata la visita, la
delegazione era ripartita da un paio d’ore quando nel cortile del governatore
era riapparso uno degli uomini del seguito afghano per riprendere degli
oggetti che il suo signore e padrone aveva dimenticato. Ma appena entrato nel
cortile, non si sa bene se riconosciuto o preso per un altro, era stato subito
impiccato per essere entrato senza aver chiesto il permesso. Poi Avitabile
aveva mandato al principe il corpo del cortigiano, accompagnandolo con un
biglietto di scuse. Che sembrava un’ulteriore presa in giro, ma non lo era,
perché faceva parte essenziale della sua strategia. E la strategia era questa:
mai perdonare, in nessun caso, sotto nessun pretesto, a nessuno. Aveva anche
un motto, che diceva «per ogni crimine una testa» e il motto, tutti lo
sapevano, non aveva assolutamente nulla di metaforico. Avitabile
considerava la gente di montagna, lungo il confine con l’Afghanistan, come
della feccia che andava eliminata non importa con quale metodo. E per
raggiungere risultati migliori arrivò a stipulare con un khan locale un
contratto, con il quale il khan s’impegnava a presentargli annualmente
cinquanta teste di afridi, come prova della sua buona volontà a eseguire le
direttive di Ranjit, filtrate dal metodo di Avitabile. Dice Cotton che molti
anni più tardi il vecchio khan si divertiva a raccontare come avesse qualche
volta imbrogliato il napoletano, presentandogli le teste imbalsamate degli
anni precedenti o adoperando qualche altro trucco. Gli unici casi in cui
interveniva per salvare una vita, ma non da lui condannata, erano quando
qualche graziosa vedova, destinata a essere bruciata insieme con il defunto, si
rivolgeva a lui, cercando di impietosirlo. Naturalmente la sua destinazione,
una volta liberata, era l’harem già cospicuo del governatore.
Le alternative alle impiccagioni e ai voli dai minareti erano numerose,
anche se non così inventive come ci si sarebbe aspettati da un napoletano. Un
certo Mackinnon, un ironico funzionario scozzese, nauseato da tutta questa
carneficina, ha descritto l’area esterna alle mura di una città, che deve essere
già Peshawar, come il luogo più abominevole che avesse mai visto, dove
arrivavano tutti gli avvoltoi della provincia, attirati dalla quantità di carne
umana che penzolava dagli alberi e che mandava un fetore insopportabile. Gli
uccellacci non si azzuffavano nemmeno tra loro, perché ognuno aveva a
disposizione un lauto pasto, e si fermavano in questo atroce beccottare solo
per emettere rauchi, sinistri richiami, che secondo lo scozzese volevano dire:
«Lunga vita e prosperità al generale Avitabile». Era stato ripristinato uno dei
più feroci e crudeli metodi di uccidere che mente umana abbia mai inventato,
insieme con il palo che, infilato nell’ano, entrava nel corpo del condannato
cercando di non forare gli organi vitali, per allungare i tempi della tortura. Si
trattava di scuoiare la vittima da viva, partendo dalle piante dei piedi e
salendo per le gambe, le braccia, fino a quando il disgraziato non crepava, tra
atroci dolori.
Si dava per scontato nell’Oriente che per far pagare le tasse ai sudditi più
negligenti fosse ammesso l’uso di mezzi impropri, come la tortura. Ma da
allusioni e anche da dichiarazioni di quasi tutti quelli che lo hanno
conosciuto, appare chiaro che Avitabile non applicava il cavalletto e non
tagliava nasi e orecchie per la ragione di stato, ma per estorcere denaro a fini
personali. Aveva organizzato una casa-bottega nella sua residenza di
Gorkhatri, e durante i pranzi, possibilmente tra una portata e l’altra, si alzava
scusandosi – «ragioni di servizio» – e andava nella sala vicina dove
torturavano qualcuno. Poi, dopo qualche minuto, tornava alle pietanze. Una
bella, crudele scena di tenaglie roventi che strappavano carne umana gli
faceva l’effetto del sorbetto di limone, usato per digerire nelle interminabili
cene di una volta. La tortura più orribile, detta il “mazzo di asparagi”, era
collettiva come indica lo stesso soprannome, veniva applicata spesso e
vantava un’alta percentuale di risultati. Quattro, cinque, anche sei poveretti
erano legati insieme con una grossa corda, poi gli costruivano intorno un
muro che si faceva sempre più alto e più stretto, fino a quando i primi non
cominciavano a svenire e poi a morire. Con quel caldo che d’estate faceva a
Peshawar i corpi imputridivano subito e per chi resisteva e rimaneva dentro,
non doveva essere una villeggiatura. Ma Avitabile non si lasciava
commuovere e, se non pagavano, nessuno li andava a tirare fuori da quel
calvario. La differenza tra lui e il suo datore di lavoro Ranjit Singh, dice
Grey, era che il napoletano preferiva la forza diretta, la tortura, l’esecuzione
immediata e multipla, mentre il maharaja praticava meglio l’inganno, il
tradimento, la pugnalata alle spalle, la trappola e usava la forza solo se questi
altri metodi fallivano. Non fate caso a queste differenze di principio, perché i
due erano fatti per intendersi.
Cotton non nasconde nulla delle malefatte del generale, solamente in molti
casi non le considera tali o dice che si sono rese necessarie. E comunque la
spiegazione che dà delle cause non esce dal luogo comune della eccitabilità
italiana, del ribollire del sangue latino che induce agli estremi, che non
considera, che prima agisce e poi pensa. Solo dopo essere andato ad Agerola
e aver letto la sua corrispondenza con parenti e familiari, anche a lui la tesi
del sangre caliente non lo convince più e arriva a scoprire quello che tutti in
Italia sanno: «Il suo cuore batte poco», spiega, «fuorché per la sua casa e per
il suo denaro». Un secolo più tardi chiameranno questo comportamento di
molti meridionali italiani “familismo amorale”, una delle rare definizioni
sociologiche che non ha bisogno di altre spiegazioni. Così, dopo la nostalgia,
’O Malommo tiene pure il familismo amorale. E io che lo pensavo un tipo
così internazionale...
5.

L’aguzzino venuto dal Sud

Avitabile incuriosiva moltissimo ed esistono su di lui numerosi schizzi e


ricordi di viaggiatori, di mercanti e di funzionari inglesi, attirati da un
personaggio la cui fama di terribilità dava una nota particolare alla visita. Si
può essere certi che molti tra i loro diari iniziavano così: «Oggi sono andato
da quel generale di cui si dicono cose pessime… mi è sembrato un
brav’uomo e anche simpatico». Una descrizione fisiognomica ce l’ha lasciata
il tenente Barr, di cui non so nulla tranne che è citato continuamente da Grey:
«Avitabile è un bell’uomo robusto, sul metro e ottanta. Il suo viso ha
un’espressione piacevole, ma determinata e quando dà un ordine, vuole
essere obbedito all’istante. Porta una barba grigia che gli arriva a metà del
petto (una delle clausole, da rispettare categoricamente, per lavorare agli
ordini del maharaja dei sikh, era l’obbligo di lasciarsi crescere la barba) e
veste splendidamente. Il suo abito consiste in una lunga veste verde,
impreziosita da una profusione di lacci d’oro e adornata da tre file di bottoni
d’oro; calzoni di seta scarlatta con un ampio bordo dorato, un berretto di
velluto verde con fascia dorata e altri tasselli della stessa stoffa che gli
servono per coprirsi la testa anche quando rientra in casa, perché questa è
l’usanza, cioè di stare sempre con il capo coperto. Dentro un fodero di velluto
verde è infilata una tra le più belle sciabole che abbia mai visto e il velluto è
talmente incrostato di pietre preziose che il tessuto nemmeno si vede. La
lama apparteneva ad Akhbar Khan, il figlio del re dell’Afghanistan
spodestato dagli inglesi, che guidò gli uzbeki e gli afghani nella prima guerra
anglo-afghana, quella della celebre, spaventosa ritirata da Kabul, e gli è
costata cinquemila rupie. Calcolando che il fodero raggiunge il prezzo di
mille rupie, il valore complessivo dell’arma è ragguardevole». Un altro di
quegli ufficiali inglesi che andavano a ficcanasare ovunque, persino in
cucina, doveva essere stato suo ospite per qualche giorno e trattato
principescamente, perché parla di Avitabile come di un uomo orchestra dai
talenti multipli: «È un uomo dalle abitudini principesche e i suoi vestiti, il suo
equipaggio, la sua scorta partecipano dello splendore calcolato per dare éclat
alla sua autorità presso gli afghani. È una persona franca, allegra, sempre di
buon umore ed è molto ospitale. E con tutta questa grandiosità nell’accogliere
gli ospiti, si dice che abbia raccolto una somma enorme e l’abbia sistemata
nei forzieri dell’India Company».
L’attitudine benevolente dei coloniali nei suoi riguardi è abbastanza
comprensibile. Tutti sapevano quanto fosse difficile, a volte impossibile il
controllo dei patani o pashtuns (come tra loro si chiamano), gli afghani
emigrati oltre il Khyber Pass che costituivano la maggioranza degli abitanti di
Peshawar, considerati una razza dannata. L’indiscussa capacità del generale
napoletano di tenerli a bada riempiva di ammirazione i funzionari e i soldati,
ammirazione che non diminuiva quando si conoscevano i dettagli del suo
modo di operare. Avitabile era molto sensibile all’opinione che gli inglesi si
potevano fare su di lui, perché ne capiva l’importanza e il riflesso in Europa,
dove aveva tutti i suoi interessi e, soprattutto negli ultimi anni, rimanendo
sempre spietato, aveva aumentato le pubbliche relazioni. Queste, per lui,
significavano feste e banchetti, liquori e sesso offerto sotto le piacevoli forme
delle danzatrici, di cui aveva una riserva apparentemente inesauribile e molti
visitatori, se non tutti, ne approfittavano. Così era difficile che, tornati in
patria, questi visitatori eternamente ospiti parlassero male di chi li aveva così
sontuosamente accolti. Tuttavia qualcuno esagerava nella piaggeria o nella
stupidità, come il barone Erich von Schomberg che incontrò Avitabile nel
1843 a Lahore: «Sono sicuro che il suo cuore è buono e che non sia colpevole
di crudeltà... posso chiamarlo il beniamino del popolo… mai conobbi alcuno
che ponga tanto piacere nel fare il bene come il generale Avitabile». Gli alti
papaveri (è un termine dell’epoca) dell’amministrazione inglese erano molto
seccati per questi intrattenimenti, per paura che tra danzatrici, incantatori di
serpenti, droghe, fachiri e tutto il resto dell’“India misteriosa”, i giovani
ufficiali perdessero la “capa”, rivelando segreti militari. Solo gli ufficiali
seniores, con una certa esperienza, potevano frequentare la residenza
governativa. Ai giovani di prima nomina veniva data una somma di denaro,
da spendere altrove.
In tutti i testi, documenti, informazioni, memorie che ho sfogliato e letto
per cercare di capire chi fosse veramente Avitabile, e tra tanti conoscenti e
testimoni dell’epoca che vogliono dire la loro su un simile personaggio, ho
trovato l’inconfondibile aspetto della semplice verità soltanto in un medico,
al quale non poteva sfuggire che il comportamento di Avitabile aveva
qualcosa di patologico, sia pure mascherato dalle buone maniere. Il medico
era ungherese, si chiamava Honinberger e doveva essere anche un versatile
tuttofare esperto nella chimica, perché era capace nello stesso tempo di
preparare nuovi tipi di polveri da sparo per cannoni e un discreto brandy per
il maharaja. In Trentacinque anni d’Oriente, memorie abbastanza
spregiudicate scritte quando era rientrato in Europa, tra i numerosi episodi
non poteva mancare il generale napoletano in una storia di macelleria
proibita, questa volta bovina. Alcuni macellai musulmani avevano ucciso e
messo in vendita carne di vacca, animale sacro quant’altri mai in India,
contando evidentemente sulla tolleranza del governatore, un ferenghi e quindi
cristiano e mangiatore di roast-beef, di cui i coloniali inglesi sembravano non
potere fare a meno. I macellai furono subito impiccati, a prescindere. E
quando i suoi ospiti espressero meraviglia per tanta durezza, Avitabile spiegò
che proprio perché non era un sikh sentiva l’imprescindibile dovere, come
governatore, di fare rispettare la legge dei sikh. Al medico tutto questo rigore
nel caso del governatore gli sembrò sospetto, perché Avitabile non era mai
stato un uomo di molti scrupoli, specialmente con i suoi soggetti, che trattava
con la più ampia disinvoltura, in totale assenza di leggi. Si accorse, invece,
che il generale provava un vero e proprio piacere nel vedere gli umani appesi
per il collo a un albero mentre agonizzavano. E attribuì questa patologia agli
eccessi, soprattutto al bere in continuazione, un’abitudine che nei tropici
poteva fare pessimi scherzi. Secondo lui Avitabile era andato fuori di testa,
anche se sembrava normale e se nessuno se ne accorgeva. Un malato, che a
differenza di altri malati poteva decidere della vita di migliaia di persone. «Vi
posso dire che l’ho conosciuto bene», aggiunge nelle sue memorie. «Ho
vissuto per tre anni in casa sua e l’ho anche curato».
Nella sua recente biografia di Ranjit, uno storico indiano, Khushwant
Singh, ha contato più di cinquanta ufficiali mercenari stranieri al suo servizio,
tra i quali c’erano anche spagnoli, greci e un americano. Quelli con gli
incarichi più prestigiosi s’incontravano periodicamente nel durbar, nome che
stava a indicare la riunione nel cortile del palazzo di Ranjit di tutti i suoi
generali e favoriti e insieme lo stesso governo. Anni più tardi, quando già gli
inglesi, superata la crisi del Great Mutiny, avevano fatto dell’India il pezzo
pregiato del loro impero, si potevano ancora vedere, appesi in qualche mensa
ufficiali o nelle sale dei palazzi dei governatori, dipinti che risalivano al
regno di Ranjit, in cui erano raffigurati i durbar, che funzionavano anche da
mappa visiva del potere sikh: a seconda della posizione e della distanza dal
maharaja, si capiva quale importanza avevano i personaggi raffigurati. Cotton
ce ne ha lasciato una descrizione: «Al posto d’onore sta il Padishah, seduto
con le gambe incrociate, in una sorta di semicupio d’oro, con l’occhio destro
orbo nascosto allo spettatore, la barbetta bianca pendente fino alla cintola. I
suoi lineamenti si salvano dall’evidente bruttezza per l’incanto del suo unico
occhio che soggioga e per il portamento maestoso. Il suo costume è
semplicissimo, in modo da far risaltare un filo di perle enormi che gira un
paio di volte intorno al corpo e un braccialetto con il Koh-i-nur al centro, la
montagna di luce. Dietro di lui, sistemato strategicamente, si scorge la corta,
robusta figura del raja Dhyan Singh, primo ministro e consigliere generale,
mentre il suo effemminato figlio, Hira Singh, favorito imperiale, si appoggia
con posa noncurante dietro il suo padrone. Gli altri, senza eccezione, sono in
piedi: eterogenea folla di barbute figure in turbante, con indosso vestiti
carichi di gioielli. In primo piano c’è Allard, nella corazza d’argento di
generale napoleonico, con la testa stranamente sormontata da un cappello
persiano. Accanto a lui compare Ventura, i suoi lineamenti ebraici ci
ricordano che suo padre era Rabbin ben-Toora di Modena. Il sabreur di
Wagram ha adottato il costume di un bellicoso capo afghano e sembra gettare
uno sguardo di disprezzo verso il favorito, bello e dissoluto. Più vicino al
semicupio sta Avitabile, il più severo di tutti… tali erano gli uomini del
Napoleone asiatico, capaci di fare la guerra ai dèmoni».
Ma Ranjit non amava affatto questi soldati di ventura, se ne serviva
solamente. Quando i primi reduci dalle battaglie napoleoniche arrivarono in
India, lui aveva già conquistato una parte consistente di quello che sarà
l’impero sikh e probabilmente sarebbe riuscito a continuare nella sua
espansione senza di loro, ma con tempi molto più dilatati e con maggiore
difficoltà. Tuttavia non erano i potentati indiani o afghani che impensierivano
il maharaja, dotato di un fiuto politico straordinario, come oggi tutti gli
riconoscono, ma la presenza sempre più consistente degli inglesi. E se James
Morris, l’autore (o meglio l’autrice, perché nel frattempo ha cambiato sesso)
della splendida trilogia sull’impero britannico, sostiene che nessuno in
Inghilterra a quel tempo pensava a un impegno così immenso, Ranjit aveva
intuito molto bene da dove sarebbe arrivato il vero pericolo per un regno
locale indipendente. E si stava attrezzando in modo da trasformare il suo
esercito in qualcosa di estremamente competitivo anche per gli occidentali,
nell’eventualità di uno scontro in grande stile. Per fare questo, non bastava la
competenza dei nuovi istruttori, un parco di artiglieria come non si era mai
visto da quelle parti, e la scoperta che in un esercito moderno la disciplina è
importante quanto, se non di più, del numero delle bocche da fuoco. I suoi
successi dovevano molto all’abilità con cui aveva cercato di creare non
proprio un nazionalismo, ma almeno un minimo di consapevolezza che
appartenere a un’entità chiamata Punjab era più importante dell’essere
musulmano, sikh o indù. I suoi soldati najib, di religione musulmana, che
rimarranno fedeli durante l’ammutinamento dei sikh di Peshawar (vedi
capitolo 6), si rifiutavano di ascoltare l’appello alla guerra santa contro gli
infedeli lanciata ciclicamente dagli afghani e dai patani. Saranno loro a
forzare il Khyber e a entrare in Kabul portando lungo le strade della città i
colori del maharaja durante la parata della vittoria. Poi tutto questo si
disintegrò con la sua morte. Non c’era stato il tempo per permettere al nuovo
di radicarsi su un terreno ostile e di annullare le divisioni, le rivalità tra i
successori che portarono il Punjab esattamente dove Ranjit non voleva che
andasse, nelle fauci del leone inglese, per adoperare una metafora di stile
imperialistico.
L’unico europeo verso cui il maharaja dimostrò una forte affezione era
Allard e quando il sabreur andò in Francia in missione, ritornando carico di
corazze per i cavalieri e di armi, lo ricompensò con doni da maharaja dei
racconti fiabeschi. Apprezzava anche le capacità professionali di Ventura e di
Court, che aveva creato dal nulla l’artiglieria, con l’aiuto, sembra, dello
stesso Avitabile. Ma ripeteva spesso e qualche volta ad alta voce «non
importa se tedeschi, francesi, inglesi, tutti questi bastardi europei si
somigliano». Da parte loro, i militari di ventura, quasi tutti, lo trovavano
troppo dedito agli intrighi, un leader eccezionale, ma anche un uomo infido e
pericoloso, che pagava bene, ma non sempre, una persona senza cultura e che
simulava malamente la grandiosità degli imperatori moghul. Uno capace di
scherzi schifosi come urinare in testa ai suoi soggetti, quando andava in giro
sulla groppa di un elefante.
La presenza e la – relativa – stabilità dell’impero sikh, favorì moltissimo il
lavoro degli esploratori e cartografi che non se ne sarebbe andati senza prima
aver dato un’occhiata al di là delle montagne che s’intravedevano sullo
sfondo, già allora considerate come le più alte del mondo. Le città del
Turkestan occidentale, Samarcanda o Buchara, potevano essere raggiunte
senza troppe difficoltà dall’Afghanistan, attraverso i passi del basso
Hindukush. Ma arrivare a quello che una volta si chiamava il Turkestan
orientale o cinese, risalendo e scendendo per il Pamir, fino alla leggendaria
città carovaniera di Kashgar, costituiva un viaggio di straordinaria difficoltà,
perché i passi erano situati a una altitudine di oltre cinquemila metri, non
c’erano viottoli ma tracce di sentieri e bisognava avere doti di alpinista,
quando gli alpinisti facevano imprese molto più tranquille. Nessuno, tranne
Alexander Gardiner, almeno fino agli anni Ottanta dell’Ottocento, era mai
tornato da posti come Kotan o Yarkand, paesi sparpagliati lungo i confini a
nord e a sud del terrificante deserto del Taklamakan. Nel Seicento alcuni
gesuiti erano riusciti a raggiungere il Tibet, ma da allora nessuno aveva osato
attraversare passi che apparivano valicabili unicamente dal markhor, una
sorta di capra o muflone locale dalle immense corna, come uscito da un
bestiario medievale. La ripresa d’interesse per l’Asia Centrale doveva molto
alla rivalità imperialistica tra Russia e Regno Unito e, a mano a mano che
queste stupende montagne cominciavano ad essere attraversate e conosciute,
tra gli esploratori e viaggiatori dell’epoca si produsse come uno slittamento di
curiosità in favore delle montagne stesse: da ostacolo che bisognava superare
diventarono l’oggetto stesso e lo scopo dei viaggi.
La via più breve venendo dall’Ovest, ed evitando accuratamente
l’Afghanistan, passava per il Kashmir, uno dei domini indiani conquistati da
Ranjit Singh. Solo lui poteva dare i permessi per andarci e questo spiega la
presenza a Lahore, a volte anche prolungata, dei pionieri dell’Himalaya,
come William Moorcroft, Joseph Wolff, Victor Jacquemont, Carl von Hugel
e il più famoso e il più discusso di tutti, Alexander Gardiner. Molti anni più
tardi, quando era diventato un personaggio famoso, tra il 1860 e il 1870,
Gardiner si era andato a ritirare nella splendida Srinagar e lo si poteva
incontrare mentre camminava faticosamente appoggiandosi a un bastone
durante l’abituale passeggiata intorno al lago Dal. Una figura altissima,
allampanata, con i kashmiri che lo sorvegliavano a vista in modo che non
cadesse nel lago e che lo chiamavano “colonnello”. Fosse veramente un
colonnello o qualsiasi altra cosa, quella che non cambiava mai era la più
stravagante divisa che si fosse mai vista, composta da una giacca stretta da
una cintura, da un gilè, da un paio di calzoni e da un turbante, tutti tagliati
nello stesso tartan, la stoffa a strisce colorate e a disegni geometrici delle
Highlands della Scozia dai quali si riconosce il clan di appartenenza. La
penna di airone che attraversava il turbante stava a segnalare una militanza
nei ranghi superiori delle armate del Punjab, guidate dal maharaja Ranjit
Singh, e l’insieme della divisa e il modo di portarla, come i calzoni
accartocciati intorno alle gambe scheletriche, erano definitivamente orientali.
Ogni tanto, quando si ricordava di essere stato il comandante di uno
squadrone di centottanta tagliagole afghani, cavalieri che avevano sparso il
terrore tra gli uomini di Dost Mohammed, l’emiro di Kabul a periodi alterni,
il colonnello s’infilava in testa il berretto patano di feltro e, seduto su una
poltrona di vimini sotto una veranda, prendeva a raccontare le sue avventure
ai numerosi ospiti. Perché Alexander Gardiner, tredici ferite da sciabola, da
pugnale, da lancia e da moschetto, di cui alcune tremende e che lo avevano
fatto dare per spacciato più di una volta, era uno degli uomini più famosi tra
Kabul e New Delhi: una leggenda vivente, come scrivevano i cronisti con il
vocabolario limitato. O il più grande cacciatore di balle che avesse
attraversato il Khyber Pass, come pensava qualcuno.
Durante il racconto s’interrompeva spesso per bere. Era un’operazione
dolorosa da quando un colpo di lancia gli aveva attraversato la gola
deformandola, e poteva inghiottire cibi solidi e anche liquidi solo servendosi
di un paio di pinzette, con le quali tirava in basso la lingua. Il suo inglese era
arrugginito, le sue espressioni arcaiche, e le parole uscivano dalle labbra
come biascicate, avendo perso tutti i denti. Ma dopo pochi minuti, nessuno
faceva più caso a questi e altri inconvenienti, perché questo vecchio ridicolo e
malandato si trasformava in un incantatore, capace di descrivere come nessun
altro le traversate delle montagne più alte del mondo sotto le tempeste di
neve, quando anche gli yak si rifiutavano di andare avanti e le guide si
perdevano; gli scontri con i turcomanni per impadronirsi dei loro cavalli, i più
veloci del mondo; gli interminabili viaggi in tre o quattro paesi dagli incerti
confini dell’Asia Centrale, luoghi dove la differenza tra predatore e predato
era molto sottile, perché i ruoli si capovolgevano a seconda delle circostanze;
la scoperta di regioni sconosciute, di misteriose popolazioni come i cafiri, che
avevano i capelli biondi e gli occhi azzurri e nelle vallate dell’Hindukush
coltivavano la vite e facevano il vino. Gardiner aveva raggiunto Gilgit dieci
anni prima di qualsiasi altro viaggiatore europeo, superato i passi del
Karakorum, calcato la sabbia mista a ciottoli del Taklamakan, nel Turkestan
cinese, uno dei deserti più spaventosi che esistano, dove il buran soffiava a
centocinquanta chilometri l’ora, seppellendo le carovane.
Ricordava meno bene le sue origini. Sembra che fosse nato da qualche
parte vicino al lago Superiore, negli Stati Uniti, da padre scozzese e da madre
mezza inglese e mezza spagnola. Era arrivato in Europa ancora ragazzo,
passando poi nell’odierno Turkmenistan per lavorare con il fratello in una
miniera di loro proprietà vicino ad Ashkabad. Quando i russi, lanciati alla
conquista dell’impero asiatico, avevano massacrato i turcomanni, requisendo
tutti i beni degli stranieri, Alexander decise che non sarebbe mai più tornato a
una vita omologa a tante altre, dove non c’era posto per l’imprevisto. Dotato
di logica elementare ma ineccepibile, preferiva rubare, invece di essere
derubato, e per i successivi tredici anni (allora ne aveva trentatré) aveva
vissuto a cavallo, facendosi chiamare Arb Shah, indossando un costume
uzbeco e portando nella sacca un Corano tra le cui pagine infilava i rari
appunti che ogni tanto prendeva dei suoi spostamenti e delle cose notabili che
vedeva. Al suo seguito si era formato un gruppo da lui definito di seguaci, ma
che non dovevano essere altro che banditi di strada, perché uno dei racconti
più entusiasmanti di Gardiner, anche se confuso nei particolari, era
l’improvvisa fuga dalla Transoxiana, inseguito da altre bande rivali,
l’attraversamento dell’Oxus, oggi Amu Darya e l’arrivo in Afghanistan, dove
sperava di mettersi al servizio di Dost Mohammed. Ma a Kohistan, nei pressi
di Kabul, la variopinta compagnia in cui militavano alcuni tra i più notori
assassini della regione, venne intercettata da Habib Ullah Khan, l’erede al
trono del paese, che dopo essere stato privato dei suoi diritti da Dost, suo zio,
aveva preso la strada delle montagne, iniziando una sanguinosa guerriglia,
come d’uso, che stava facendo centinaia di morti.
Non so molto di Habib Ullah Khan e mi riesce anche difficile non
confonderlo con le dozzine di pretendenti, capi tribù, leader di varia natura e
appartenenza che facevano dell’Afghanistan il paese più turbolento di tutta
l’Asia. Risulta solo che fosse un depravato, un ubriacone, un codardo, almeno
secondo le fonti dei militari inglesi, che a quel punto avevano smesso di fare
la guerra a Dost e anzi lo appoggiavano e dunque sono sospette. Gardiner,
molti anni più tardi, nella veranda di Srinagar, ne faceva un ritratto totalmente
opposto, come di un afghano di razza, di un coraggio illimitato, di una
magnanimità senza confini e di alti principi, che invece di tagliare la gola a
lui e ai suoi uomini, come si aspettava, gli aveva offerto di guidare uno
squadrone a cavallo nella lotta contro l’odiato Dost. Naturalmente Gardiner,
conoscendo quale sarebbe stata l’alternativa, accettò subito il comando e per i
successivi due anni e mezzo condusse una vita di guerriglia a tempo pieno,
«per la giusta causa contro quella sbagliata», come diceva, con un singulto
della gola deformata. In ogni momento lo squadrone era pronto a scendere
dalle prime alture delle montagne tra Jalalabad e Bamyian, dove riposavano
le meravigliose statue di Budda ancora intatte, e a seminare il terrore tra i
contadini della valle del fiume Kabul o ad assaltare le carovane che
arrivavano da oriente, lungo i passi dell’Hindukush. Di questa discutibile
attività Gardiner stesso dava una giustificazione sostenendo che i veri
anglosassoni, non gli smidollati vittoriani con le loro pipe e le loro pose, ma
the real stuff, i discendenti dei pirati dell’epoca di Drake, avrebbero trovato in
terra afghana il loro ambiente naturale. Qui o rapinavi e ammazzavi o venivi
ammazzato.
Tuttavia anche un nomade per vocazione, come Gardiner, chiamato subito
“Running Gun”, fucile mitragliatore, aveva bisogno di una donna che gli
preparasse i pasti e la tenda al suo ritorno e tutto il resto. Durante un attacco a
una carovana di distinti pellegrini notò una bella ragazza – le donne afghane,
quando si sbarazzano degli stracci che si trascinano dietro per coprirsi,
possono essere stupende – seminascosta dentro un palanchino e senza esitare
la trascinò via come bottino di guerra, sistemandola in un forte vicino
Parwan, che aveva addobbato con tappeti turcomanni. Non abbiamo notizia
di quello che pensasse la bella del suo nuovo e irruento innamorato.
Sappiamo invece che Gardiner, quando ricordava quei giorni (due anni) di
convivenza con la ragazza, che era di sangue reale, sembrava profondamente
commosso e dalla gola uscivano spaventosi rantoli, perché era una vicenda
iniziata con grande affetto e finita tragicamente. Intorno al 1826 Habib Ullah,
senza più possibilità di continuare la guerriglia, aveva dato ordine alle truppe
che gli restavano di ritirarsi fino a Parwan, dove avrebbe deciso le successive
mosse. Gardiner arrivò tardi all’appuntamento e fu la sua fortuna, ma una
disgrazia per la famiglia appena formata, perché i ribelli erano caduti in
un’imboscata dei cavalieri di Dost, lo stesso Habib Ullah era rimasto
gravemente ferito e il forte stava bruciando con il cortile disseminato dei
cadaveri degli uomini lasciati di guardia. L’unico rimasto in vita, un mullah,
aveva nascosto sotto una coperta i resti dei due figli, quasi neonati, di
Gardiner e il corpo straziato della moglie. Per un tempo che non ricordava più
quanto lungo, caduto in ginocchio davanti alla moschea, lo scozzese si era
messo a pregare invocando il Dio dei musulmani, perché la vendetta è di
Allah, anche se la mano è degli uomini. Poi, dopo aver salutato gli antichi
compagni di strada, aveva distribuito buona parte del denaro accumulato fino
a quel momento ed era partito verso est. Era la fine delle sue avventure in
Afghanistan e l’inizio dei suoi viaggi attraverso l’Himalaya occidentale.
A partire da questo momento le indicazioni dei nomi e i riferimenti
geografici, già non molto precisi in passato, diventavano più incerti e Arb
Shah tornato Gardiner non era il tipo che si attardava a fare rilevamenti.
Secondo gli appunti del suo diario, che più tardi mostrerà a tutti, aveva di
nuovo attraversato l’Oxus di fronte a Shakhdara e con tredici compagni era
entrato nella valle di Shignan, l’unico varco percorribile per raggiungere il
Pamir, chiamato il Tetto del Mondo dai burocrati inglesi dell’East India
Company, piuttosto deboli a fantasia (quelli che volevano far sapere di
esserci stati, si lisciavano i baffi dicendo: «Gran brutto posto. Unisce la
desolazione del Tibet con l’asprezza del Karakorum»). Di qui sarebbe sceso
verso le vallate del Turkestan cinese seguendo un itinerario che ho percorso
anch’io, molto più comodamente di Running Gun e che mi era sembrato
meraviglioso d’estate, con le praterie rese luccicanti dall’acqua dei ghiacciai,
i rondicchi che si esibivano in ellissi acrobatiche, le farfalle parnassius che si
posavano sui fiori appena ricoperti dalla brina. E d’improvviso, uscendo da
un proscenio di colline grigio-violacee, compariva il gigantesco cristallo
siderale del Muztagata, il Padre della Montagna di Ghiaccio che s’innalzava
per settemila metri, trasformato dal sole in un prisma da cui partivano lampi
di fuoco.
La destinazione di Gardiner era Yarkand, un paese ai bordi del
Taklamakan, da dove, rivolgendosi verso sud, si potevano vedere le
montagne chiamate Kun Lun, nelle cui vallate un secolo dopo i romanzieri
europei collocheranno Shangri-la e fonti di giovinezza annesse. Cosa ci fosse
andato a fare non lo ha mai spiegato, così come non sono chiare le ragioni dei
successivi spostamenti, Leh nel Ladakh, Gilgit, l’Hindukush (sulla carta è un
itinerario privo di senso) finendo tra i cafiri infedeli, discendenti, secondo una
tradizione spuria, dei macedoni di Alessandro Magno. Gli piacevano le donne
locali che avevano magnifici denti bianchi, occhi azzurri e lunghi capelli
castano biondi, simili alle figlie di un re barbaro che vagassero nelle selve
teutoniche. E anche qui gli venne offerto il comando di una tribù.
Running Gun scese dalle montagne qualche anno più tardi, dirigendosi
ancora una volta verso l’Afghanistan, prima a Jalalabad, poi a Kandahar e
infine riprese la via per Peshawar, al servizio di Ranjit Singh. Nei diari che ha
lasciato, di Avitabile parla due o tre volte, ma sempre di sfuggita: i due, così
diversi come temperamento, avevano in comune solo un’ipertrofia dell’Io e
basta. E fino a quando non si ritirò definitivamente, restò sempre al servizio
dei successori di Ranjit che si avvicendavano attraverso una guerra civile che
si svolgeva, secondo le preferenze locali, più per tranelli e veleni che per
scontri diretti. A volte era stato costretto a torturare e a tagliare un naso o le
orecchie a qualche oppositore, per dimostrare la sua fedeltà al maharaja-
padrone. Quando morì nel 1877, a novant’anni, già circolavano da molto
tempo una ventina di estratti dei suoi diari che avevano fatto inarcare le
cespugliose sopracciglia di parecchi esperti ed esploratori dell’Asia Centrale.
Uno di loro scrisse: «La geografia, come la divinità, ha i suoi Apocripha.
Sono spiacente di includere sotto questa menzione i diari del colonnello
Gardiner». Ma anche se è probabile che si sia inventato numerosi dei suoi
viaggi attraverso l’Himalaya, perché nessun essere umano poteva muoversi a
quella velocità sui terreni più aspri e difficili del mondo e percorrendo quelle
inverosimili distanze, i racconti afghani, i combattimenti, la morte della
moglie e dei due figli, sembrano autentici. E ci sono pochi dubbi che sia stato
tra i cafiri, non per anni, forse, ma per un tempo sufficiente a registrare le loro
usanze, che riferiva con una certa precisione.
Non so dove sia sepolto. Ma sopra la sua tomba bisognerebbe mettere una
scritta simile a quella che qualche anno fa i geniali americani del vecchio
Paul Getty Museum avevano messo alla base di un famoso kouros greco, una
statua arcaica del VII secolo, di cui nessuno era riuscito a stabilire con
esattezza se fosse vero o se fosse falso. La scritta diceva: «VII secolo a.C. o
XX secolo». Per Gardiner suggerirei una variante: «Il più grande esploratore
dell’Asia o il più grande bugiardo dell’Asia o tutt’e due insieme».
6.

Quando Avitabile salvò gli inglesi

La prima guerra anglo-afghana viene ricordata come la più grave sconfitta


che gli inglesi abbiano mai subito fino alla conquista di Singapore da parte
dei giapponesi, un secolo dopo. Non così grave, tuttavia, da frenare le
ambizioni di potenza mondiale che nel Regno Unito stavano crescendo di
giorno in giorno e che, superato anche il Grande Ammutinamento dei sepoy,
si fecero chiare agli isolani d’oltre Manica. Qualcuno se ne servì per
paragonare l’impero britannico a quello romano: tutt’e due potevano perdere
alcune battaglie, anche importanti, ma alla fine vincevano sempre le guerre.
Ma da qualche tempo gli storici indiani e pakistani contestano questo
primato, attribuendo il titolo di peggiore sconfitta a uno scontro avvenuto in
un luogo chiamato Chillianwala, sul fiume Jehlum, dove un esercito misto
anglo-indiano superiore come effettivi e come mezzi, ben pasciuto e riposato,
con due brigate di cavalleria pesante a proteggere i fianchi, intenzionato a
«far assaggiare il gelo delle lame delle baionette» ai sikh, come si era
cristianamente espresso il loro comandante in capo, e per di più aiutato da
un’eccellente logistica, venne fatto a pezzi dall’artiglieria sikh, addestrata a
suo tempo dagli ufficiali europei al servizio di Ranjit Singh, morto dieci anni
prima.
Fino a quel momento in India circolava un dogma propagandato dagli
uomini della Compagnia e, come tale, mai veramente messo alla prova se non
attraverso scontri minori o battaglie non significative: nessuna forza locale,
fosse musulmana o pagana, sikh o maharatta, nepalese o afghana, era in
grado di poter reggere a una irresistibile carica alla baionetta delle giubbe
rosse, considerate la prima fanteria del mondo (va ricordato che l’esercito
inglese era costituito da irlandesi cattolici, scozzesi, gallesi, e anche che gli
ufficiali erano spesso cadetti dalle famiglie nobili dell’Anglia). Con
Chillianwala il dogma venne infranto, gli indiani capirono che gli inglesi non
erano dei semidei e potevano essere battuti. Dopo qualche anno esplose il
Grande Ammutinamento dei sepoy, impensabile senza quella battaglia presso
il fiume Jehlum e se gli indiani fossero stati in grado di capire anche un’altra,
elementare lezione, non sarebbero mai caduti sotto il dominio della Union
Jack. Ma le divisioni tra i vari gruppi e le differenti etnie erano ancora troppo
profonde per pensare veramente a un’unica nazione in armi e il governo di
Sua Maestà trovò il modo di sfruttarle e alla fine vincere, sostituendosi alla
oramai anacronista Compagnia delle Indie.
Nei testi di storia anglosassoni quella battaglia è minimizzata e chiamata
con un altro nome. Mentre tutti riportano i particolari efferati della ritirata da
Kabul, per ragioni di superiore drammaturgia storica e di alta resa emotiva:
dove trovare un equivalente del racconto di una colonna di militari misti a
civili che attraversa uno dei territori più suggestivi del mondo, in pieno
inverno, cercando di tornare da dove era incautamente partita, attorniata da
bande di afghani che la inseguono con la tecnica dei lupi, senza mai dare
tregua, giorno dopo giorno, eliminando i più deboli, stuprando le donne,
tagliando la gola ai bambini, fino alla distruzione totale. Una caccia senza
pietà, che agli aristocratici britannici ricordò, con un brivido, la caccia alla
volpe (e che fine miserrima fa la volpe) disseminata di trappole e di inganni,
in cui i celebrati cavalieri afghani diedero il meglio e il peggio di sé,
dimostrando di essere irriducibili quanto feroci. Descritta nelle scene più
orribili dai giornali inglesi, che stavano cominciando a capire quali vaste
prospettive di articoli eccitanti in luoghi esotici e di vendite clamorose
significava avere colonie sparse per il mondo, venne illustrata con vignette
che ancora oggi strappano le lacrime.
Sarebbe potuto andare ancora peggio, perché i battaglioni sikh, attestati
dall’altra parte del labile confine, detestavano talmente la presenza britannica,
che alcuni loro comandanti (Ranjit era morto da due o tre anni) si erano spinti
fino a scrivere ai loro tradizionali nemici, gli afghani, offrendosi di eliminare
tutte le giubbe rosse che ancora erano vive tra Jalalabad e Peshawar. Chi
impedì il linciaggio delle truppe trincerate a Jalalabad e permise agli inglesi
di recuperare e poi di tornare a Kabul, questa volta con successo, fu
Avitabile, dalla vicina Peshawar. «Se si va a cercare tra le vecchie carte di
allora», dice Grey, «appare evidente la sciocca incompetenza della grande
maggioranza degli ufficiali britannici. Che sguazzava in mezzo a una
incredibile inettitudine ufficiale, stupida arroganza, noiose querimonie e
senile inefficienza. Tutte virtù ampiamente condivise da quei dementi che
avevano progettato di sostituire l’emiro dell’Afghanistan con un altro a noi
favorevole. Nel disastro che seguì solo tre uomini rimasero in piedi a
sostenere il soffitto che crollava: due inglesi, Lawrence e Mackeson, e un
italiano, Avitabile». L’unico, vero politico dei tre, il generale napoletano era
riuscito ad impedire che i vecchi nemici unissero le loro forze, formando così
un doppio fronte antinglese, che avrebbe bloccato l’uscita dall’Afghanistan,
ma anche l’entrata, mentre i miserevoli resti dell’armata della Compagnia
erano rinchiusi a Jalalabad e attendevano soccorsi. A questo punto della sua
vita, Avitabile avrebbe solo voluto lasciare quei luoghi che l’avevano
arricchito, ma che si erano fatti troppo pericolosi anche per lui. Furono gli
inglesi, scossi profondamente dall’enormità di quello che era successo, a
costringerlo in tutti i modi a rimanere ancora per qualche tempo. Si erano resi
conto che tra loro non c’era nessun alto funzionario o militare, come spiega
una nota riservata trovata nell’immenso archivio del Punjab, che riunisse,
come in Avitabile, tutto quello che occorreva per fronteggiare la più difficile
emergenza in cui si fossero trovati.
Qualche settimana prima, durante una gelida giornata di gennaio (1842),
regnando graziosamente la regina Vittoria non ancora imperatrice, un
ufficiale medico dell’esercito coloniale inglese, di nome Brydon, era
comparso stremato alla porta principale di Jalalabad, un forte
dell’Afghanistan vicino alla frontiera indiana, lungo la pista tra Kabul e il
Khyber Pass. Fino a quel momento lui stesso aveva creduto di non potercela
mai fare. Inseguito tra le alture coperte di neve da un gruppo di cavalieri
afghani e oramai quasi circondato, aveva già spezzato la sciabola perché non
finisse intatta nelle mani di chi l’avrebbe tra poco sgozzato senza pietà, come
aveva visto fare innumerevoli volte durante quella spaventosa ritirata da
Kabul, fossero donne, uomini o bambini. Improvvisamente gli afghani erano
spariti e nello stesso tempo l’ufficiale medico si era trovato di fronte le mura
di fango di Jalalabad, dove sventolava la Union Jack. Aveva allora raggiunto
lentamente il forte senza sapere ancora di essere l’unico superstite di una
delle più umilianti sconfitte che avessero mai subito le truppe britanniche.
Tutto era cominciato nel 1839 con l’occupazione di Kabul, allora come
adesso circondata da un altopiano inospitale e privo di vegetazione, abitata da
una popolazione di cui si sapeva poco, e quel poco doveva bastare per tenersi
alla larga. Gli afghani potevano essere vivaci, coraggiosi, persino amichevoli,
ma una tradizione consolidata li presentava come di animo estremamente
mutevole, pronti a trasformarsi in bande assai temibili di traditori e assassini.
Non solo odiavano qualsiasi straniero osasse mettere piede nel paese, per una
ragione o per l’altra, ma erano incessantemente in guerra tra loro, uno dei
popoli più naturalmente portati a cercare e a trovare nel combattimento la
soluzione di tutti i problemi. La divisione in grandi clan tribali, i Durrani, i
Ghilzai, i Barakzai, con i loro usi, costumi, lealtà particolari, che venivano in
parte ereditati dagli innumerevoli sottoclan, a loro volta divisi tra loro, pronti
ad allearsi come a diventare nemici per molto poco, rendevano l’Afghanistan
un paese estremamente difficile da capire e assolutamente impossibile da
governare. Già allora la sua fama era tale che quando arrivò a Londra la
notizia, quattro o cinque mesi più tardi, di una spedizione inviata a Kabul da
Lord Auckland, governatore generale dell’India, una parte dell’establishment,
quella più informata della situazione nel lontano Oriente come i direttori della
East India Company, aveva commentato che entrare in Afghanistan poteva
essere facile, uscirne vivi sarebbe stato molto più difficile. Ma Palmerston,
ministro degli esteri del governo whig, aveva appoggiato l’iniziativa, come
faceva sempre quando c’era da tenere alto l’onore britannico servendosi dei
cannoni. Anche perché Auckland si era mosso dopo aver saputo della
presenza di inviati russi alla corte del re afghano Dost Mohammed, che
apparteneva all’ultima delle otto casate reali alternatesi in mezzo secolo:
erano le prime avvisaglie di un magno confronto imperiale, The Great Game
o il Grande Gioco (come sanno tutti quelli che hanno letto Kim di Kipling)
paradossalmente basato su falsi presupposti, ma che terrà desta e pronta a
intervenire l’Inghilterra durante tutto l’Ottocento.
È quasi impossibile rendersi conto oggi della paranoia che attraversava
l’opinione pubblica inglese e i circoli governativi a ogni mossa nei russi in
Asia. Dai primi del Settecento l’impero degli zar non aveva fatto che
espandersi dagli Urali verso oriente e ora gli inglesi cominciavano a temere
per l’India, l’inestimabile gioiello senza il quale le colonie britanniche erano
solo dei litorali selvaggi, come pezzi gettati alla rinfusa di un mosaico privato
del motivo centrale. Di volta in volta la Persia, l’Egitto, la Turchia, persino i
Balkani erano stati considerati dagli strateghi di Londra come la via
attraverso la quale i cosacchi (per gli inglesi le truppe russe si identificavano
sempre con i cosacchi, un corpo molto limitato rispetto all’enorme armata
zarista) sarebbero passati per impadronirsi dell’amato possedimento e più
tardi e a lungo anche l’Himalaya e il Pamir saranno visti come barriere non
completamente sicure. Ma il primo, se non il più classico Great Game verrà
giocato tutto nell’Afghanistan, che nell’ottica della geopolitica britannica
doveva avere un ruolo di stato cuscinetto. Poi, nel 1837, un agente inglese era
stato a Kabul e aveva trovato conferma della presenza dei russi e, anche se
nessuno sapeva cosa erano venuti a fare, i coloniali britannici erano entrati in
fibrillazione, immaginando gli squadroni della cavalleria del Don risalire al
galoppo il Khyber. Passando le informazioni agli uffici governativi di Simla,
dove il governatore generale andava a risiedere durante l’estate, trasferendosi
dalla bollente Calcutta alle alture prehimalayane, l’agente aveva
raccomandato di considerare Dost, con tutti i suoi possibili flirt con i russi,
come un potenziale alleato e un personaggio ragguardevole. Auckland lo
riteneva invece un uomo assolutamente infido e, senza molto riflettere sulle
conseguenze di un atto simile, diede ordine a 9500 soldati della Corona e
della East India Company di marciare su Kabul, accompagnati da un
sostituto-fantoccio alla poltrona regale, Shah Shuja, un elegante vegliardo
totalmente inetto, famoso unicamente per essere stato il proprietario del
diamante Koh-i-nur, la montagna di luce, che oggi riposa negli scrigni del
tesoro reale inglese. Shuja si era portato dietro circa seimila sepoy e un paio
di squadroni di autentici predoni, gli Yellow Boys che insieme con gli altri
formavano quella che pomposamente venne chiamata l’Armata dell’Indo.
Come operazione militare, l’invasione si rivelò un pieno successo. Presi di
sorpresa gli afghani tardarono a reagire e la più minacciosa fortezza di tutto il
paese, Gazhni, fu catturata con un abile e coraggioso colpo di mano di un
ufficiale, Henry Durand, dei Bengal Engineers, uno degli eroi eponimi delle
guerre coloniali, come Gordon nel Sudan, il tenente Manners Smith tra i
Dardi del Karakorum, i soldati sopravvissuti all’attacco dei battaglioni zulù a
Rorke’s Drift, tutti decorati con la Victoria Cross. Dost era fuggito, andando
a mettersi incautamente nelle mani dell’emiro pazzo di Buchara, l’aveva poi
scampata, rientrando in Afghanistan alla testa di un contingente di
irriducibili, ma per ragioni che non sono mai state spiegate con chiarezza, e
meno di tutti dagli afghani, si era arreso agli inglesi ed era stato mandato in
India sotto scorta. Così i rappresentanti di Lord Auckland, dopo aver
trasformato il paese in un protettorato britannico, si erano assicurati con un
trattato firmato da Shuja, appena salito al trono, la permanenza per un tempo
indefinito delle truppe anglo-indiane, sicuri di costringere i riottosi guerrieri
tribali a cooperare alternando la minaccia di usare la forza alla corruzione dei
capi tribù.
Questa sicurezza era solo un’illusione derivata dalla non conoscenza
dell’indole degli afghani. Intanto alcuni gruppi, come i fondamentalisti
islamici, e gli uomini della tribù Ghilzai, che controllavano i principali passi
di montagna per l’India, non avevano mai accettato la presenza occidentale e
continuavano a muoversi in modo turbolento. Ma anche degli altri
apparentemente sottomessi c’era pochissimo da fidarsi, considerando che la
simulazione aveva sempre avuto nei costumi tribali uno status paragonabile a
quello del coraggio. A questo punto ci furono due errori di Auckland, uomo
di intelligenza modesta e di scarsa immaginazione: pensando che non fosse
più necessario mantenere tanti soldati accampati scomodamente intorno a
Kabul, aveva fatto ritirare oltre il Khyber una parte della truppa, senza
ascoltare chi gli diceva che da quelle parti i soldati non erano mai troppi. E
completamente inconsapevole di quello che si stava tramando in città, al
posto del generale Keane, il comandante dell’armata che si era mosso con
abilità tra le montagne afghane e che ora rientrava anche lui in India, aveva
nominato una nullità paragonabile a quell’altra nullità che era il re: il
maggior-generale William Elphinstone, un imbambolato reduce di Waterloo,
indeciso a tutto. Nessuno di questi ultimi due aveva la minima idea di quanto
il protettorato inglese rendesse furibondi tutti gli afghani, e l’improvviso
linciaggio del residente britannico da parte di una folla inferocita, senza che
nessuno dei servizi avesse segnalato qualcosa di sospetto, li colse
completamente impreparati. Quasi di colpo, tutto quello che sembrava andare
favorevolmente ora aveva preso un andamento negativo, tra fatti grandi e fatti
piccoli, tra i quali si contavano una caduta da cavallo di Elphinstone,
diventato ancora più indeciso e come un po’ suonato, e l’arrivo sulla scena di
un formidabile leader della rivolta, Akhbar Khan, il figlio di Dost. Alla fine
del 1841 la situazione era tale per cui le truppe di occupazione, fino a poche
settimane prima sicure di controllare gli irriducibili guerriglieri delle
montagne, ora si sentivano assediate e non pensavano che ad andarsene via
da quell’orribile paese. Volevano solo la garanzia di non venire ammazzati
come cani infedeli lungo la strada di ritorno, e una deputazione guidata dal
rappresentante del governatore generale andò a chiederla ad Akhbar che
aspettava vicino Gazhni. Come risposta e perché non ci fossero equivoci sulla
fine prevista per tutti, i componenti della deputazione furono sgozzati e il
rappresentante ucciso dallo stesso Akhbar.
Il 6 gennaio del 1842 quello che rimaneva dell’Armata dell’Indo cominciò
la ritirata, la più tremenda della storia militare inglese. La colonna,
sparpagliata per una lunghezza di una quindicina di chilometri e composta di
oltre sedicimila profughi di cui settecento europei e quasi quattromila soldati
indiani, sarebbe stata al sicuro a Jalalabad, distante solo centocinquanta
chilometri. Ma era inverno, la strada saliva fino a passi ricoperti di neve e
sulle montagne erano in agguato trentamila afghani che cominciarono ad
attaccare a piccoli gruppi, come animali da preda. I primi a essere eliminati
furono tutti quelli incapaci di difendersi, la parte più debole della massa
fluttuante che seguiva ovunque l’esercito inglese. I resoconti dell’epoca
parlano di centinaia di donne indiane spogliate, violentate e sgozzate, i cui
corpi venivano lasciati a imputridire lungo la pista. Poi fu la volta dei servi –
ogni ufficiale inglese ne aveva da sei a dieci a disposizione – portatori
semplici e quelli che trasportavano l’acqua, i maniscalchi, i sellai, i fabbri, i
sarti, gli uomini che pulivano gli ottoni, o che tiravano su le tende, i cuochi e
gli stallieri, i pastori e i macellai: tutta l’infinita varietà dei lavoratori che
stavano alle dipendenze dell’esercito più viziato che ci fosse, a partire dal
tenente in su. Furono massacrati inesorabilmente.
I loro padroni non fecero una fine migliore. La ritirata durò sei giorni e
durante questo tempo andarono avanti trattative che si risolvevano in altre
trappole e altri tradimenti, consumati con gusto dagli afghani, che non
vedevano nulla di disonorevole nel non tenere fede alla parola data a un
nemico. Disonorevole sarebbe stato non essere riusciti a ucciderlo.
Convocato al comando di Akhbar, il generale Elphinstone venne trattenuto
come ostaggio e non se ne seppe più nulla. Un gruppo di soldati inglesi che
era riuscito miracolosamente a raggiungere un paese a venticinque chilometri
da Jalalabad fu ospitato con segni di amicizia dai paesani e trucidato di notte.
Qualche giorno più tardi al forte inglese arrivò un lugubre omaggio mandato
da Akhbar: era il corpo del povero Elphinstone, avvolto in erbe aromatiche e
seguito dal suo valletto, risparmiato per poter accompagnare il comandante
inglese nell’ultimo viaggio di ritorno. Degli altri protagonisti della vicenda, il
re burattino Shuja fu naturalmente eliminato, ma anche Akhbar morì qualche
anno più tardi, probabilmente avvelenato. Lord Auckland, dopo aver scritto
che la catastrofe era stata per lui totalmente incomprensibile, invece di
passare il resto dei suoi giorni a meditare delle umane sorti in qualche villa
del Surrey, diventò Primo Lord dell’Ammiragliato: una di quelle eccentricità
di cui gli inglesi sono stati maestri.
L’assoluta fiducia che avevano gli alti funzionari, i militari e qualsiasi altro
rappresentante della corona inglese in Avitabile, nelle sue capacità di sapersi
districare nel mondo fisico e soprattutto mentale di quella zona dell’India
particolarmente turbolenta, nel suo tocco magico (per qualcuno di loro quasi
una bestemmia, perché il “il tocco” in battaglia lo aveva avuto, notoriamente,
solo Nelson) venne accresciuta dalla velocità e dalla freddezza con cui questo
napoletano riuscì a impedire la coalizione tra sikh e patani e afghani. Gli
inglesi, che hanno l’abitudine di non dimenticare favori di questo genere,
gliene furono grati per sempre e il fatto che, tornando poi in Europa sia
riuscito a farsi ricevere da Wellington, che dopo aver battuto Napoleone a
Waterloo si sentiva se non alla destra di Dio Padre Onnipotente, almeno nelle
vicinanze e parlava quasi esclusivamente con lui, fu un riconoscimento
immenso se visto con l’ottica di quegli anni. Questa fiducia, tuttavia, non era
stata data sulla parola, per così dire. Qualche mese prima della ritirata da
Kabul, i sikh di stanza a Peshawar avevano organizzato una rivolta, come se
la vicinanza del confine li avesse resi meno sicuri e più agitati. Ma avevano
sottovalutato la capacità inventiva di Avitabile a trovare una soluzione, anche
la più paradossale possibile, a qualsiasi problema si presentasse. La sua
spregiudicatezza rimane unica negli Annali delle innumerevoli rivolte indiane
nell’Ottocento.
Sulla vicenda abbiamo le testimonianze di due militari presenti allo
svolgersi dei fatti, Colin Mackenzie e Mackeson (tutti scozzesi?), più con il
ruolo di osservatori e relatori che di protagonisti. Due militari immagino
tradizionali, che avrebbero operato secondo le direttive ricevute dagli alti
comandi, anche se gli inglesi hanno dimostrato molte volte di amare e anche
di essere dotati per la guerriglia. Ma non avrebbero mai osato quello che osò
Avitabile, protagonista assoluto, che non delega a nessuno, che li avvisa a
cose fatte e che si stropiccia le mani pensando alla trappola che ha escogitato
e al momento in cui potrà uccidere tutti i rivoltosi catturati. Se c’è mai stato
un italiano all’estero discepolo e interprete perfetto di Machiavelli, quasi
sempre citato a vanvera, questo è l’ex cannoniere di Agerola che del
segretario fiorentino non aveva mai letto una riga. Perché riteneva la lettura
una inutile coercizione imposta a una mente libera e rimproverava gli ospiti
quando li vedeva con un libro in mano.
Magnifici guerrieri, pieni di sé e arroganti, con il culto della propria
personalità guerresca e molto individualisti nello scontro, simili ai cavalieri
medievali che combattevano a singolar tenzone – una debolezza
inammissibile per un esercito moderno che Ranjit aveva cercato di eliminare
– i sikh disprezzavano per principio ogni sottomissione all’autorità, sfidando
in qualche caso anche il maharaja. Questa attitudine all’anarchia e
all’ammutinamento era stata tenuta a bada da Avitabile, soprattutto con la sua
fama di giustiziere implacabile, e i corpi degli afghani appesi fuori delle mura
servivano anche a ricordare ai sikh che il governatore non faceva sconti a
nessuno. Ma nella primavera del 1841 l’irrequietezza stava salendo oltre il
consueto limite e si capiva che l’intero contingente, con l’eccezione di tre
reggimenti e di qualche reparto di artiglieria, si sarebbe mosso, prendendo a
pretesto le paghe insufficienti. Avitabile aveva suggerito un’azione
preventiva, per eliminare i più facinorosi, ma il nuovo maharaja Sher Singh,
successore di Ranjit, lo aveva fermato temendo una sollevazione generale.
Due mesi più tardi il reggimento del Kashmir si ribella al suo comandante,
un colonnello europeo che riesce a salvare la pelle fuggendo a Lahore. E
mentre il governatore sta facendo la sua passeggiata mattutina a cavallo,
fingendo di non sapere nulla di quello che sta succedendo nel paese, arriva
dalla residenza il tesoriere terrorizzato dalle richieste dei sikh che hanno
piantato le tende nei giardini della residenza e si fanno sempre più
minacciosi. Senza affrettarsi e facendo finta di non ascoltare nemmeno una
parola di quello che va dicendo il tesoriere, e cioè di rifugiarsi a Lahore,
Avitabile rientra nel suo palazzo, dando appena un’occhiata ai “fedelissimi
sikh”, come l’anno prima si erano definiti, con grandi offerte di amicizia
verso il governatore, e fa chiamare i capi dell’ammutinamento, chiedendo
quali sono le ragioni delle loro lamentele. I capi, tipi facinorosi e facili alla
collera, qualità indispensabile all’anima guerriera, ma che davanti al
napoletano si sono sempre comportati ammodino, senza dare alcuna
spiegazione pretendono diecimila rupie di aumento. La richiesta viene
accettata, ma mentre stanno portando ad Avitabile l’occorrente per preparare
il documento, e mentre i capi, questa volta più eccitati del solito, mormorano
di considerare offensivo un aumento così miserabile e che sono intenzionati a
chiedere molto di più, nella sala si comincia a udire rumore di sciabole.
Sempre così straordinariamente calmo da fare invidia a Wellington, Avitabile
capisce che è il momento di far intervenire i fidatissimi najib, truppe
irregolari musulmane, che tiene sempre a portata di mano e che ha fatto
nascondere dietro la sala e in una scena tumultuosa i delegati sikh vengono
cacciati, tra minacce e urla di vendetta. Appena uscito l’ultimo delegato i due
scozzesi che sono stati presenti all’incontro, chiedono francamente spaventati
se quella era la mossa giusta da fare. Perché nel palazzo tra poco ci sarà
l’inferno.
Sono questi i momenti in cui Avitabile ritrova la sua napoletanità. Fa un
gesto di insofferenza che sta a significare: ma facitemo ’o piacere, poi si
ricompone, chiama vicino a sé i due scozzesi e abbassando la voce rivela il
piano che ha preparato. Per numerose settimane ha avuto contatti con gli
afghani d’oltre confine e anche con i patani, quasi tutti parenti e amici di
gente che ha fatto massacrare o torturare – ma questo non conta – per
convincerli ad attaccare i sikh ammutinati. In cambio, quelli che fino al
giorno prima sono stati i suoi nemici giurati, avrebbero avuto piena libertà di
saccheggio e di bottino delle proprietà dei sikh, comprese le donne, senza
limite. E sarebbero diventati ricchi – spiega il generale – perché ogni sikh
aveva i suoi risparmi nascosti nelle pieghe degli immensi turbanti. Questo si
rivela l’argomento decisivo e un accordo di massima viene raggiunto. «Ed
ora proprio in questo momento – aggiunge Avitabile – tre o quattromila
afghani, scesi dalle montagne, dovrebbero aver raggiunto le mura della città,
in attesa di un ordine. Quando tutto il lavoro sarà completato, mi potrò
divertire a far saltare in aria tutti i prigionieri».
Durante la notte il tempo cambia; è arrivato il monsone, le piogge sono
così torrenziali come quelle descritte nei romanzi inglesi sull’India e l’attacco
viene rimandato all’alba. Avitabile e tutto il suo staff si sono andati a
rifugiare negli appostamenti sotto il tetto, e dalle finestre più alte del palazzo
possono vedere, senza essere visti, tutto quello che succede nei cortili, dove si
sono accampati i sikh. Il governatore ha anche ordinato di tenere i cavalli
sellati e pronti nel retro, nel caso che l’attacco non riesca. Fa appena chiaro
quando torme di afghani che mandano urla selvagge scendono da tutti i
passaggi praticabili della residenza che Avitabile aveva fatto aprire, e
piombano sui sikh rifugiati dentro le tende piantate nei vasti cortili,
prendendoli completamente di sorpresa. Ma anni di addestramento con gli
ufficiali europei hanno insegnato anche ai caratteri più indisciplinati un modo
di reagire quasi pavloviano: gli indiani si organizzano formando un fronte
unico e aiutati dalla migliore qualità delle armi riescono a difendersi e a
impedire di essere sgozzati subito. La lotta è durissima e gli afghani perdono
parte del loro impeto fermandosi a stuprare le donne sikh rimaste nelle tende
e a frugare ovunque in cerca del bottino promesso. In pochi minuti
rimangono sul terreno più di trecento ammutinati, ma le perdite afghane sono
ancora più alte. Poi, inesorabilmente, quando le munizioni cominciano a
mancare, i sikh sono costretti a indietreggiare davanti alla marea montante
degli scatenati nemici e c’è solo da aspettare che l’ultimo uomo venga
scannato. «Gli afghani», dirà Avitabile, «uccidevano con il piacere di chi
sapeva che nascoste da qualche parte nei vestiti c’erano almeno cento rupie
per ogni soldato... Così prima gli tagliavano la testa e poi s’impadronivano
delle monete».
I due ufficiali inglesi, abbastanza inorriditi dall’ecatombe, ora temono che
Sher Singh, che è pur sempre un sikh e che non è stato informato della mossa
di Avitabile, reagisca brutalmente. Invece il maharaja, rendendosi conto che
quella era l’unica cosa da fare, non solo approva lo sterminio dei suoi soldati,
ma dà ordine di disarmare il resto dell’armata sikh che non ha partecipato ai
combattimenti e che si trova da qualche parte nelle vicinanze di Peshawar. È
il momento conclusivo di tutta la rivolta: i comandanti sikh, il cui orgoglio è
scomparso per lasciare posto a un’incertezza che li rende estremamente
fragili, all’inizio rifiutano di consegnare le armi. Allora Avitabile per la
seconda volta si ricorda di essere napoletano ed estrae la sciabola facendo
come il gesto di affettare un salame. È esattamente quello che ordinerà ai
patani di fare ai traditori e ammutinati se non cederanno le armi e se non si
ritireranno. Conoscendo molto bene che il governatore non ha mai graziato
nessuno, dopo una breve riunione del tutto formale per non perdere la faccia,
i sikh lasciano cadere in terra i fucili e tutto l’equipaggiamento e sotto scorta
dei soldati musulmani si dirigono verso il fiume. Non sapremo mai che fine
abbiano fatto. Ma pochi mesi più tardi, in settembre, arriva la notizia che a
Lahore i soldati si sono di nuovo ammutinati e dopo aver preso d’assalto il
palazzo reale, hanno tagliato la testa al maharaja Sher Singh, a suo figlio e al
primo ministro Dhyan Singh. Per Avitabile è venuto il momento di tornare
definitivamente a casa.
7.

«Uomo di onore e di gloria senza paragoni»

Nel 1843 Avitable decise di andar via non solo da Peshawar, ma dall’India.
Era rimasto quasi vent’anni ai tropici, era diventato famoso, “tristemente”
famoso – avrebbe aggiunto Lawrence, l’inglese che lo sostituì nella città
ritornata quella di prima – riuscendo non solo ad ammassare una fortuna, ma
anche a mantenerla intatta e ad aumentarla per volontà e non per caso, mentre
quasi tutti gli altri europei avevano sperperato i loro guadagni imitando il
treno lussuoso di vita dei maharaja. Tra le numerose sue doti si era trovato
anche un’anima da ragioniere-finanziere ed era riuscito, dopo aver messo al
sicuro per anni nelle banche di Calcutta o di Bombay molto di quello che
guadagnava e tutto quello che estorceva, a investire nella Compagnia delle
Indie e comunque in Occidente. Quando lasciò la sua ultima residenza a
Lahore, gli indiani commentarono che nella magione non aveva lasciato
nulla: l’aveva spolpata, come gli avvoltoi con le carcasse dei suoi condannati.
Aveva capito da molti anni che l’impero sikh non avrebbe sopportato il
trauma della morte di Ranjit. Lo stato aveva appena messo le radici e senza
l’astuzia e la personalità del nano orbo, senza la sua straordinaria capacità di
dosare la distribuzione del potere in una società come quella indiana,
multietnica e con una forte tendenza a lasciarsi andare all’effetto centrifugo,
era abbastanza certo che le rivalità personali avrebbero agito da
moltiplicatore, mandando all’aria il nascente e ancora debole nazionalismo.
Anche per una tigre, come lo vedevano gli afghani e i patani, veniva il
momento di ritirarsi nel più profondo canneto della giungla a tirare le cuoia.
Avitabile, naturalmente, non solo non era il tipo di apprezzare le metafore,
ma aveva tutte le intenzioni di ricominciare una nuova vita in Italia, di
sposarsi con una bella “guagliona”, di avere dei figli, di rifarsi di tutti quegli
anni passati in un Oriente che oramai detestava e che lui aveva contribuito
più di molti altri a rendere detestabile. Se si voleva scordare di Peshawar, si
poteva essere sicuri che Peshawar non si sarebbe scordata di lui, di Abu
Tabela. Intanto, come primo passo, si era trasferito a Lahore, dove abitava a
Dudhka-Awa, che non era solo una magnifica residenza, vicino ai famosi
giardini moghul di Shalimar, ma anche il luogo d’incontro di cospiratori
vecchi e nuovi contro ogni regime. Quando uccisero il successore di Ranjit,
Avitabile si espresse con una terminologia che avrebbe potuto adoperare De
Gaulle: «Questa è diventata una nazione sans foi, sans loi e sans roi».
Tutti i capi sikh, anche di opposte fazioni, avevano tentato invano di farlo
rimanere, onorandolo con gli attributi e i titoli più altisonanti come Aminulla
Dowllah, Dilawar Jung Bahadur, Amanat Pena, Kerkaa ben Safa e sperando
ognuno di accaparrarselo. Non so assolutamente cosa questi titoli
significhino, comunque da quelle parti venivano molto considerati. Ma
Avitabile aveva deciso, e uno dei problemi della partenza ero lo scioglimento
dell’harem e di cosa fare delle numerose danzatrici, compagne, amanti,
prostitute che facevano parte del suo circo personale. Se la saranno
sicuramente cavata, almeno quelle più giovani e sembra che il napoletano sia
stato abbastanza generoso con loro. In uno dei suoi innumerevoli diari,
Lawrence (sempre, qui e altrove, il suo successore a Peshawar) ha raccontato
la vicenda di una bambina avuta da una bellissima ragazza patana, che aveva
tirato su come un principessa, immaginando forse di darla in moglie a
qualche nobile locale. Alla fine non era riuscito a trovare nulla di meglio di
uno dei suoi giovani cuochi: li fece sposare, regalando alla ragazza una ricca
dote che era così aumentata nei racconti del vicinato da richiamare
l’attenzione di un capobanda, mascherato da funzionario governativo, che
tolse tutto ai due ragazzi lasciandoli in miseria. Questo funzionario, per una
di quelle coincidenze di cui sono stanco di ricordare l’importanza e di
vederne la presenza, era quel pundit che Alexander Gardiner venne costretto
a torturare e a tagliargli naso e orecchie.
Negli addii il governatore generale, che stava anche lui a Simla, si
comportò con estrema freddezza: questo napoletano aveva fatto il lavoro
sporco per loro, e non c’era bisogno di stringere troppo le sue mani. Ma a
Calcutta, prima di imbarcarsi per Napoli, ci furono ricevimenti e
ringraziamenti, anche se molti, quelli che non lo conoscevano, lo guardavano
intensamente come per scoprire sul suo viso le atrocità di cui si diceva fosse
stato capace, creando un certo imbarazzo. E sembravano tutti sul punto di
chiedere qualche cosa, di fare domande probabilmente indiscrete, che poi non
facevano. A Napoli l’accoglienza fu buona, ma non trionfale. Re Bomba gli
regalò la solita tabacchiera con il suo profilo non edificante e Avitabile sparse
davanti al trono meravigliosi scialli, stoffe introvabili in Europa, rubini,
diamanti e due moretti (due ragazzini indiani, non due moretti di ceramica di
Bassano) che rimasero a corte per qualche tempo, finendo poi nel collegio dei
missionari cinesi di Capodimonte.
Il vero trionfo fu a Parigi e a Londra, dove Avitabile si era subito diretto,
dopo una breve ispezione ad Agerola. In Francia, alla rimozione di tutto
quello che aveva riguardato l’impero era seguita, inevitabile, l’ondata di
ritorno, molto più alta e imponente di quanto ci si aspettasse. E l’arrivo da
Sant’Elena della salma di Napoleone aveva riportato il paese,
emozionatissimo e quasi in lacrime, alle glorie immense, quando gli inglesi
non erano ancora così arroganti e la Francia il primo paese del mondo. E le
avventurose ed esotiche vite successive dei napoleonidi, come Allard,
raccontate dai protagonisti, si vendevano per le strade con il successo
editoriale che solo Parigi poteva dare, allora. Un ritratto in prosa del
napoletano apparve nel Livre des Célebrités Contemporaines, e il re Luigi
Filippo, oltre a due bei vasi di Sèvres, che nell’Ottocento non si negavano a
nessuno, gli infilò al bavero, insieme con i suoi compagnons de route, des
aventures et de bataille, i vecchi ragazzi Ventura, Allard e Court, il nastrino
di cavaliere della Légion d’Honneur.
A Londra non sapevano nulla o quasi delle torture, dei voli a petto
d’angelo dai minareti e del resto. Si ricordavano benissimo, invece, che
Avitabile si era dimostrato insostituibile nell’aiutare le truppe di Sua Maestà
nel momento più nero in Asia, dopo la ritirata da Kabul. Venne introdotto da
Palmerston e da quasi tutti gli eminenti vittoriani e ricevuto, come ho già
detto, dal duca che parlava solo con Dio. Ma il momento più alto arrivò con
un sontuoso banchetto all’East India House, come solo gli inglesi
dell’Ottocento sapevano preparare su giganteschi tavoli di mogano, con tutte
le argenterie lucidate a specchio, mentre qualche decina di camerieri
servivano del claret, del borgogna e, verso la fine, del porto e del marsala.
Gli invitati erano trecento, e nel momento conclusivo del banchetto cantarono
in coro and he is a jolly good fellow... Poi comparve in sala un maggiordomo
che portava sopra un cuscino di velluto rosso la Spada dell’Onore, pesante e
inutilizzabile, ma valutata trecento ghinee, perché era incrostata di pietre
preziose.
Rientrato dopo qualche mese a Napoli, cominciò a dare una strategia al suo
desiderio di riposo, deciso di godersela per il resto della sua vita. Si fece
costruire una villetta a Portici, o forse la comprò, e un edificio molto più
grande tra Castellammare e Gragnano, una mansion, un po’ palazzo un po’
villa, a imitazione – dice Grey – di Dugald Dalgetty, il primo e il più famoso
dei “nabab” anglo-indiani che dopo una vita avventurosa si ritirarono nelle
campagne inglesi diventate opulente con le ricchezze dei traffici con
l’Oriente. Questo Dalgetty, che aveva anche una residenza vicino a Napoli,
morto nel 1820 a settantacinque anni, era partito come marinaio ed era
riuscito a diventare generale presso le armate moghul, dopo aver accumulato
una inverosimile fortuna. La villa di Castellammare doveva essere simile a
quella del nabab e riempita anche di oggetti che il generale si era portato
dietro dai tempi dell’Iran, con pavimenti a mosaico. E a mosaico si era fatto
fare anche un ritratto a grandezza naturale, al centro del pavimento del
salotto, dove appariva in tutto il suo splendore di generale in alta uniforme, a
cavallo di un bianco purosangue arabo. Si può facilmente immaginare che un
tipo con la fama di Avitabile, con il suo seguito esotico, quale continuo,
allarmato pettegolezzo suscitasse. E quasi subito si cominciò a mormorare
che Avitabile teneva nascosto un harem con tutte le sue donne, che visitava
notte e giorno e dove si facevano orge “orientali”. Anche se non si capiva
bene con chi e tra chi questi festini si svolgessero, l’aggettivo orientale faceva
supporre il massimo della licenziosità e rispetto all’indignazione delle
beghine e del vescovo, c’erano molti che avrebbero voluto essere al posto del
generale.
In questi casi di scontro tra il potere religioso e qualsiasi altro potere, che
non coinvolga chi sta attualmente al comando, quando si teme che la decenza
e il buon costume, definizioni ipocrite quante altre mai, siano in pericolo, in
Italia ha sempre vinto il potere religioso. Così Avitabile, costretto ad
allontanarsi da Napoli anche su sollecitazione della corte, alla fine scelse di
installarsi definitivamente nel paese dov’era nato e che doveva trovare meno
affascinante della costa. Altrimenti fin dall’inizio avrebbe cominciato a
costruire qui quell’ibrido tra un castello e una fortezza, che cominciò invece
con ritardo e che abitava in parte, perché non era finito, quando morì. Nel
frattempo si era sposato.
La descrizione che Cotton ci ha lasciato della moglie si risolve in una
negazione. Non era una bellezza. Grey aggiunge qualche notizia in più, e
parla di una giovane pienotta – o grassottella – contadina di diciannove anni,
figlia di un fratello. La ricchezza del generale era qualcosa di talmente
spropositato rispetto alla povertà della campagna napoletana che non ci si
poteva permettere che uscisse dai confini della famiglia. Così venne
sacrificata una ragazza che era già fidanzata e che dunque fin dall’inizio
aveva dei motivi di rancore verso il futuro marito. In questo matrimonio di
convenienza la manovra, che aveva bisogno della dispensa del vescovo,
doveva essere stata condotta dal padre della martire, che come gli altri
Avitabile non era ricco, ma qualche risparmio lo doveva avere, il genere di
persona che ha come motto “i soldi non bastano mai”. Non si hanno notizie di
preliminari, di incontri tra i due, e non si sa assolutamente nulla di quello che
ne pensava il diretto interessato, il generale Paolo Avitabile, già
ultracinquantenne, ma ancora in ottima salute. In quei suoi ultimi giorni lui
sembrava interessato quasi unicamente a finire il suo castello con vista e
andava spesso a passarci la notte, anche se il riscaldamento non esisteva, i
camini nemmeno e bisognava accendere un braciere con il carbone. Uno dei
modi migliori per un decesso indolore.
Infatti si tentò di far passare la sua morte per asfissia e i medici ben pagati
arrivarono a certificare le cause naturali. Ma tutti in paese sapevano che era
stato avvelenato dalla moglie, con l’aiuto dell’amante, un bel giovanotto
meridionale, leguleio o persino avvocato, che non si era opposto al
matrimonio, perché anche lui seguiva il rigido codice d’onore de “i soldi non
bastano mai”. Sembra che vaghi sospetti della tresca avessero raggiunto le
orecchie del generale che si era espresso laconicamente: «Se li trovo insieme,
li abbatto a fucilate come piccioni». Le sue ultime ore sono così raccontate da
Cotton che aveva parlato con un testimone importante, Gennaro Lauretano, il
farmacista locale: «La sera precedente aveva partecipato a una cena della
settimana pasquale, occasione in cui si mangia quasi sempre dell’agnello
arrostito (ma non si capisce se in famiglia o presso amici). Il mattino
successivo doveva svegliarsi presto, alle cinque, per andare a Napoli con un
suo uomo di fiducia Gennaro Lauretano, il farmacista di Agerola. Voleva fare
autenticare la sua firma da un notaio, in modo che Lauretano potesse
riscuotere e fare altre operazioni finanziarie a suo nome. Ma alle sei ancora
nessuno lo aveva visto e il farmacista, preoccupato, andò al castello, dove il
generale dormiva in uno dei due piani previsti. Non c’era in giro una candela
accesa e quando entrò nella stanza da letto del generale, trovò che era invasa
da un fumo che mandava un acre puzzo e che proveniva da un grosso
braciere posto in un angolo. Avitabile rantolava disteso ancora sul letto. “Mi
hanno avvelenato”, riuscì a mormorare. “Salvami e ti farò vedere chi è
Avitabile”».
Rimase in vita fino alle due del pomeriggio, continuando a ripetere che lo
avevano avvelenato. Quando morì nella stanza c’era il prete, il farmacista e
nessun altro. La moglie era rimasta a Castellammare, gli operai a casa per le
vacanze di Pasqua e il servo, che aveva preparato la cena, era fuggito.
Qualcuno disse di averlo visto mentre faceva involti con le cose più preziose
del castello, che poi aveva trasportato non si sa dove. A leggere le cronache
locali, sembra che si sia fatto di tutto per non trovare il colpevole: il servo, il
più probabile indiziato, venne brevemente interrogato senza accusarlo di
nulla e anche due operai furono arrestati per pochi giorni e poi liberati. Non
ci fu una vera e propria inchiesta e i medici che dovevano fare l’autopsia, per
conservare il corpo qualche giorno di più, lo riempirono di arsenico e
l’autopsia a quel punto non sarebbe servita a scoprire le cause della morte. Al
funerale i paesani si accorsero che i parenti, in particolare i “cugini” del
generale erano diventati molto più numerosi. Tutti speravano di avere anche
una minima parte dell’immenso tesoro che si favoleggiava, ma l’eredità si
trasformò quasi subito in una gigantesca lite e l’oro che per anni Avitabile
aveva estorto con le torture a chiunque gli fosse capitato tra le mani, finì per
la maggior parte nelle tasche degli avvocati.

Per la stessa sindrome che mi aveva impedito non solo di andare, ma di


pensare alla Biblioteca Nazionale di Napoli come luogo possibile per
rintracciare la biografia di Cotton, così fino a tre mesi fa non ero mai stato ad
Agerola, nemmeno per assaggiare le mozzarelle di Avitabile. Si diceva,
infatti, che Avitabile avesse importato dall’Inghilterra delle vacche che
davano un latte abbondante e squisito con il quale nel paese avevano
prodotto, da più di cento anni, un tipo di mozzarella particolare. Nel regno
delle mozzarelle di bufala, questa era veramente l’unica che potesse reggere il
confronto.
Una domenica, finalmente, mi decisi e, accompagnato da due carissimi
amici, Deli e Fabrizio, lei un’architetto molto nota a Napoli per aver
restaurato con grande perizia e capacità tecnica il Museo di San Martino,
Suor Orsola Benincasa e altri celebrati edifici della città, lui urbanista e
autore di un libro immortale, Dolci persone, l’unico trattato al mondo che
paragona i dolci agli umani, spiegando che dolce sei tu, siamo andati nel
retroterra amalfitano, salendo per corte colline che Cotton paragona alle
montagne svizzere. (Adesso che il libro è finito, lo posso confessare: ho
sempre sospettato che il biografo di Avitabile qualche volta dava i numeri. In
un passo finale, l’attento e minuzioso cronista si avventura per le impervie
salite dell’interpretazione. E scrive che la brutalità di Avitabile derivava dal
fatto che «era prima di tutto, da capo a piedi, un homme de montagne, rozzo,
duro, brutale, ostinato, infaticabile». Quelle colline del retroterra amalfitano
simili, per dire, al Narga Parbat? E Avitabile come lo yeti?)
Arrivando ad Agerola, chiedemmo dov’erano i resti del famoso castello. Ci
risposero che l’entrata stava in piazza Generale Paolo Avitabile, riconoscibile
dal grande arco monumentale che lui stesso aveva fatto costruire.
Rimasi sempre più sbalordito. Credevo di essere uno dei pochi a sapere
dell’esistenza del generale e qui gli avevano dedicato una piazza, tra le più
grandi del paese. Ma come mai quando ne avevo parlato con i miei amici
colti, anche con Raffaele La Capria, nessuno sapeva chi fosse? E si
meravigliavano della mia abilità a scovare personaggi simili, a tutti
completamente sconosciuti. Poi entrammo nel bar di fronte e, appesi al muro,
c’erano due o tre ritratti dell’indimenticabile governatore di Peshawar, come
in altri bar ci sono le fotografie dei calciatori.
Mi dissero che di Avitabile se ne stava occupando il parroco e altri dotti,
che però non avevano prodotto nulla, finora. Chi aveva molto materiale e lo
distribuiva gratis era un gentilissimo giovane che aveva trasformato il parco
in camping. Il giorno dopo, tornato a casa, cominciai a scrivere questo libro,
prima che de ’O Malommo se ne impadronissero gli altri.
Sulla strada del ritorno ci fermammo a visitare la chiesa di San Martino
Vescovo, in frazione Campora, dove è murata la sua pietra tombale, con un
ritratto in bassorilievo e una scritta di poche righe, di quelle che riassumono il
nostro fugace passaggio in terra e che riferiscono qualità che non abbiamo.
Il generale non prevedeva di morire ed è dunque difficile che l’epitaffio sia
di sua mano. La frase finale è talmente eccessiva da far sospettare che sia
stata scritta da qualcuno che volesse farsi perdonare. Se fossi un commissario
di P.S. guarderei l’epitaffio come un corpo di reato.

LUOGOTENENTE-GENERALE PAOLO AVITABILE

Nato nell’ottobre del 1791


morto il 28 marzo del 1850
Cavaliere della Legion d’onore.
Dell’Ordine di Merito di San Ferdinando di Napoli,
Dell’Ordine Durrani dell’Afghanistan.
Grande cordone del Sole e del Leone e dei Due Leoni
e della Corona di Persia.
Dell’Ordine dell’Auspicio del Punjab.

Uomo di onore e di gloria senza paragoni


8.

Quando Avitabile sconfisse Garibaldi a Calatafimi

Non so se qualcuno ha mai letto un saggio intitolato Se Napoleone avesse


vinto a Waterloo. Fa parte di quella storia fittizia del “se”, che ha come suo
modello il famoso “Se il naso di Cleopatra fosse stato più lungo” o più corto,
detestata dagli storici di formazione hegeliana (la storia fittizia insieme con
Cleopatra) e da molti altri, e messa al bando come ridicola e sciocca
esercitazione. Ma il desiderio di immaginare l’impossibile, come sarebbe
potuto andare “se”, è troppo forte per ascoltare le voci della ragionevolezza,
troppo divertente e a volte anche utile. Infatti ci si sono provati in molti, da
Winston Churchill ad Harold Nicolson con titoli e prospettive eccitanti: “Se
Byron fosse diventato re della Grecia”, “Se Don Giovanni d’Austria avesse
sposato Maria regina di Scozia”, “Se Booth (l’assassino di Lincoln) avesse
mancato il presidente”, “Se i mori in Spagna avessero vinto”, “Se Mussolini
non fosse entrato in guerra”, “Se i mongoli, invece di tornare nelle loro
steppe quando avevano conquistato già mezza Europa, avessero preso
Parigi”. Ma il personaggio favorito di queste esercitazioni di retorica e di
storia è sempre Napoleone, non solo a Waterloo, ma visto in situazioni
precedenti: “Se Nelson si fosse sbagliato nell’eseguire quell’audace manovra
ad Abukir”. “Se il grande generale Kutuzof avesse vinto a Borodino”.
Il saggio citato all’inizio, il più brillante del genere, appartiene a George
M. Trevelyan, lo storico whig e insuperato narratore della spedizione dei
Mille e della vita di Giuseppe Garibaldi, che nel 1907 aveva vinto un
concorso indetto dalla «Westminster Gazette». Trevelyan immagina che a
Waterloo il maresciallo Blücher non sia arrivato in tempo a salvare i quadrati
delle giubbe rosse, per colpa o per tradimento, e che la guardia imperiale,
anche se con molte perdite, abbia raggiunto la cresta della collina di Saint-
Jean, riuscendo finalmente a spezzare il coraggio e la resistenza britannici e
Wellington, come duca di ferro, appare ammaccato e arrugginito. A
Bruxelles, dove sono convenuti tutti i sovrani, si tiene il congresso che
sostituisce quello di Vienna e Napoleone regola i conti con gli alleati, ma in
modo sorprendentemente mite. Non sembra più il Bonaparte della guerra, ma
della pace, ha fatto offerte generose e così, pacificando l’Europa e
trasformatosi in un vecchio saggio tanto da risultare irriconoscibile,
continuerà a governare a lungo, come i re delle fiabe. Dunque Waterloo,
secondo Trevelyan, sarebbe stata una battaglia decisiva e finale sia in caso di
vittoria inglese che in quello di vittoria francese. Mentre io credo,
mantenendo inalterata tutta la mia ammirazione per Trevelyan, che se avesse
vinto Napoleone a questa battaglia ne sarebbe seguita un’altra e poi un’altra
ancora, fino al momento in cui il corso non fosse inciampato, rotolando da
qualche parte. Perché gli alleati non ne volevano più sapere di lui, a costo di
crepare tutti.
Mi sono ricordato del saggio di Trevelyan mentre raccoglievo il materiale
su Avitabile che, terminata la sua lunga missione in Oriente, era rientrato a
casa. Avvelenato o non avvelenato dalla giovane moglie con la complicità di
tutto il parentado, al momento della sua morte avvenuta nel 1850, aveva
cinquantanove anni, un’età che appena uno la sfiorava, durante tutto
l’Ottocento, veniva iscritto nella categoria senza uscita degli anziani e stava
ad aspettare quello che sapete. Ma nell’ambiente aristocratico napoletano e di
corte dovevano adoperare parametri diversi, perché la media dell’età degli
uomini – ministri, generali, governatori – che vediamo aggirarsi nella corte e
intorno al re o in Sicilia con incarichi diversi è piuttosto alta, quasi sempre
oltre i limiti del pensionamento, come se fosse stato emanato un editto
segreto che impediva alle persone più giovani di servire il proprio sovrano.
Nei primi mesi del fatidico 1860, il generale Filangieri, settant’anni,
considerato dagli storici il migliore del lotto, che aveva dato le dimissioni da
primo ministro, venne sostituito con il principe di Cassaro, che a sua volta
aveva superato gli ottanta e che non aveva nessun desiderio di ricevere in
dote all’età sua un simile incarico. Dice Harold Acton, il brillante storico di
parte assolutamente borbonica, che avendo perso i contatti con le generazioni
più giovani Cassaro conosceva solo persone già avanti con gli anni e
partecipare al governo era come stare a Villa Arzilla, e il più vacillante di
tutti era naturalmente il ministro della guerra, generale Winspeare, ottantadue
anni compiuti. L’aspetto paradossale di queste vicende di senescenza era che
il governo in realtà contava poco o comunque le sue mosse venivano
controllate e limitate da una camarilla di corte, una cerchia di cocciuti e
patriarcali reazionari, che facevano capo a quella beghina inacidita della
regina madre e che anche loro viaggiavano su età più che ragguardevoli.
In Sicilia non potevano che prendere esempio dalla capitale, quantunque i
siciliani odiassero i napoletani e viceversa. Il luogotenente e comandante di
tutte le forze di mare e di terra era il tenente generale Paolo Ruffo, principe di
Castelcicala, anche lui un reduce di Waterloo, che aveva raggiunto i
settantuno anni senza mai mettere più piede in un campo di battaglia. Ed era
conosciuto per un carattere fatalista e flemmatico, come lo poteva essere
Tomasi di Lampedusa, con il particolare non indifferente che il primo era un
militare e il secondo uno scrittore. Ma quello che sembrava più moscio di
tutti, non riesco a trovare aggettivo che gli si addica meglio, era il generale
Landi, anche lui una cariatide, che dimostrava molto più dei suoi settant’anni,
incaricato, insieme con il generale Bonanno, di fermare i Mille sbarcati a
Marsala, discretamente coperti e aiutati dalle navi inglesi. Dunque nessuno
dei militari napoletani e borbonici, incaricati a vario titolo di fronteggiare la
spedizione dei Mille aveva meno di settant’anni, con l’eccezione del re,
Franceschiello. Avitabile ne avrebbe avuti sessantanove, e sarebbe risultato il
più giovane di tutti e con un’esperienza e una capacità sulle cose di guerra
infinitamente superiori a quelle di chiunque nel Regno delle Due Sicilie. Se
fosse vissuto altri dieci anni, con quella salute di ferro che teneva, nonostante
l’alcool e i bagordi, e che gli aveva permesso di sopravvivere ai tropici per
decenni, mentre la maggioranza degli occidentali non ce la faceva a superare
i primi cinque anni, non era affatto un’ipotesi campata in aria che gli venisse
affidato un comando in Sicilia. Molti anni prima, quando era tornato a Napoli
per ripartire quasi subito, aveva trovato disgustoso l’ambiente di corte. Ma
Franceschiello non era Ferdinando II e Avitabile si era stabilito
definitivamente presso Napoli, dopo aver ricevuto gli onori di mezza Europa
e le pacche sulle spalle, molto metaforiche, dal primo duca della Cristianità, il
cui indirizzo in Inghilterra era: Number One, London. Anche se avessero
voluto, a Napoli non potevano assolutamente ignorarlo. Da questo punto di
vista la storia con il “se” teneva.
Sicuramente avrebbe eseguito gli ordini del re senza l’emotività dimostrata
da Landi, che dava l’impressione di essere molto stanco perché arrivò a
Calatafimi in carrozza, facendosi trasportare da Palermo in sei giorni, alla
folle velocità di otto chilometri al giorno. Il suo incarico era quello di fare
una ricognizione e se incontrava lungo la strada quel bandito di Garibardo,
doveva cercare di eliminarlo. Ma a sentire solo il suo nome, era andato
componendo una sinfonia di sospiri e lamenti e veramente era uno di quei tipi
a cui mancava non il fegato, ma quel minimo di coraggio che consentiva ai
non bellicosi di natura di sopportare i momenti più duri della battaglia con
dignità e non da imboscati. Il caso volle che si trovasse di fronte (solo
metaforicamente, perché mentre Garibaldi guidava i suoi su per i gradoni
della collina chiamata il Pianto del Romano, il napoletano si era rintanato
sempre in carrozza) un giovanotto di cinquantatré anni, che aveva visto i sette
mari e tutte le pampe, che amava l’Italia quanto una bella battaglia e che
andava allo scontro, come poeticamente ha scritto Trevelyan, «cantando
come un innamorato che stava per incontrare la morosa». La sera stessa dello
scontro, che avrebbe potuto vincere senza troppi sforzi, il meschino Landi era
talmente sconvolto da mandare a Castelcicala una lettera che cominciava
così: «Soccorso, soccorso, soccorso. La metà della mia colonna è uscita in
scoverta e giunta a portata di fare fuoco si è attaccata con i rivoltosi, i quali
sbucarono a migliaia da ogni dove…».
Secondo le stesse fonti borboniche, in Sicilia c’erano venticinquemila
soldati, di cui quattro quinti acquartierati a Palermo. L’esercito napoletano
era stato oggetto di notevoli cure da parte di Ferdinando II, dice Piero Pieri
nella sua Storia militare del Risorgimento, e nel 1860 risultava leggermente
inferiore come fanteria all’esercito piemontese, quasi uguale come cavalleria
e superiore come artiglieria (136 pezzi contro 102). Ma era un’armata che un
osservatore benevolo avrebbe definito poco sperimentata e con un
addestramento da piazza d’armi e uno malevolo una sorta di sacca di
disoccupazione per spostati e nullatenenti, tutta gente che aveva fatto quella
scelta per fame, con la certezza che il re non sarebbe stato così pazzo da
mandarli a combattere. Gli ufficiali erano anzianotti e tenevano famiglia. Lo
spirito marziale più sotto che vicino alla zero, i cavalieri erano discreti, ma
difettavano di allenamento e scarso l’affiatamento tra i vari reparti e le
diverse armi. Solo l’artiglieria, di calibro più piccolo di quella piemontese,
era mobile ed efficiente.
La copertura data dalle navi inglesi, che si erano messe di traverso davanti
al porto durante lo sbarco a Marsala, avvenuto l’11 maggio, aveva salvato le
camicie rosse dalla catastrofe: sarebbe stato impossibile difendersi mentre
venivano traghettati su scialuppe, dalle bordate delle navi napoletane che non
osarono sparare per timore di colpire gli antichi e potentissimi alleati di una
volta. Svanita l’occasione più semplice e più facile per annientare il
modestissimo corpo di spedizione e decidendo in base al buon senso e alle
caratteristiche “difensive” delle sue truppe, il luogotenente non doveva far
altro che rimanere a Palermo iperprotetta, permettendo senza troppo timore a
Garibaldi di vagare tra i monti dell’isola, lasciandolo sfiancare nelle marce
dirette non si sa dove. Si era capito che i picciotti siciliani, gente coraggiosa e
combattiva, avrebbero deciso da che parte buttarsi solo all’ultimo momento e
le camicie rosse facevano male a sperare in una sollevazione generale
dell’isola, che non ci sarebbe stata prima di una loro solida vittoria. E infatti
alla battaglia di Calatafimi solo meno di duecento ragazzi presero parte allo
scontro. Gli altri ottocento o mille rimasero a godersi lo spettacolo con le
braccia incrociate, fino al momento in cui i soldati borbonici cominciarono a
retrocedere e poi a scappare. Fu solo allora che si sentì una voce tonante
siciliana, che cercava di parlare in italiano: «Andiamo a rebaldare la
cabedale» e tutti i picciotti finalmente si mossero.
Castelcicala, povero vecchio, non sapeva assolutamente nulla né di
Garibaldi, quello vero, non il mitico brigante che terrorizzava la corte
borbonica, né della situazione siciliana (chi la conosceva, e fino a un certo
punto, era il capo della polizia Maniscalco che si guardava bene da rendere
altri partecipi dei suoi segreti). Nessuno gli aveva spiegato che i paesani su
per i monti si sarebbero inginocchiati davanti al passaggio del generale,
perché aveva l’aspetto di un santo o di un profeta e un tipo così, con i capelli
biondi lunghi sulle spalle, gli occhi castano chiaro e un poncho che ricadeva
sulla groppa del cavallo bianco, non lo avevano visto mai. Ma prima di dargli
un aiuto qualsiasi, volevano le prove che la scelta sarebbe stata giusta. In un
momento di lucidità, Castelcicala si convinse, purtroppo per lui e per il regno
borbonico, che doveva intervenire e subito. Era stato a Waterloo, come
abbiamo detto, e l’unica cosa che si ricordava di quella battaglia, o che aveva
sentito dire, era che Napoleone aveva perso per essere finito tra due fuochi,
gli inglesi e i tedeschi di Blücher. E, non so quanto consapevolmente, pensò
di sbarrare la strada al nemico ed eventualmente di attaccarlo, con un piano
“a tenaglia”, come scrivono gli strateghi dell’Oberkommado quando vogliono
dare il senso della trappola da cui non c’è scampo.
La prima morsa della tenaglia doveva arrivare dal mare. Dopo lo sbarco di
Garibaldi, il luogotenente aveva telegrafato al re chiedendo nuove truppe,
poste sotto il comando del generale Bonanno, da mandare a Marsala per
prendere Garibaldi alle spalle o comunque chiudere la possibilità di qualsiasi
ritirata da quella parte. Ma le navi che portavano questo nuovo contingente se
l’erano presa comoda e arrivarono davanti a Capo San Vito quando Garibaldi
stava già sulla via per Calatafimi. Così Bonanno preferì fare rotta su Palermo,
ad aumentare la già enorme guarnigione, e il famoso piano a tenaglia fallì
ancora prima d’incominciare anche se, non lontano da Marsala, si aggirava da
un paio di settimane una colonna agli ordini del generale Letizia, mandato a
perlustrare in avanscoperta prima dell’11 maggio. Non so se questo Letizia si
fosse reso conto che da qualche parte c’erano dei garibaldini perché, senza
preoccuparsi di passare per Marsala, prese la direzione del mare oltre il
monte Erice, verso il golfo di Castellammare, fuori dal quadro delle
operazioni. Sembra che la colpa di questa assoluta confusione non fosse solo
di Castelcicala, ma anche del comandante la piazza di Palermo, generale
Salzano, i cui ordini s’incrociavano e interferivano con i suoi. Così, di tre
contingenti inviati contro Garibaldi, uno era rientrato a Palermo, il secondo
recitava fuori scena e rimaneva soltanto un terzo, quello che nelle intenzioni
di Castelcicala doveva costituire l’altra morsa della inutilizzata tenaglia:
trasformato in colonna, venne affidato a quel fulmine di guerra che era Landi,
con l’incarico di andare incontro ai banditi garibaldeschi.
Per la verità Landi non si affrettava troppo perché gli ordini erano ambigui:
disperdere eventuali bande, ma non attaccare per primi un eventuale
contingente invasore, che i napoletani immaginavano in regolamentare divisa
piemontese. Le forze che gli avevano affidato erano quattro compagnie di
carabinieri a piedi, uno squadrone di cavalleria leggera e quattro pezzi di
artiglieria, rafforzate da un battaglione cacciatori, un’altra di carabinieri e un
battaglione della fanteria Abruzzi. Ma, per il modo come si svolse lo scontro,
a Calatafimi si trovarono di fronte i Mille insieme con duecento picciotti
portati dal barone di Sant’Anna contro poco più di duemila napoletani, in un
rapporto di uno a due. Landi avrebbe potuto schierare forze maggiori, ma non
aveva fatto in tempo per un equivoco di uno dei suoi migliori ufficiali, il
maggiore Sforza. Dall’alto del Pianto del Romano, Chiantu de Romano (il
vigneto di Romano), dove le forze borboniche si erano attestate, in ottima
posizione, il maggiore aveva intravisto sulla collina di fronte bande di
giovani malmessi, con camicie rosse al posto delle divise dell’esercito
piemontese (ma questi borbonici, che facevano la guerra in casa loro, non
avevano nessuno, nemmeno una spia, che gli raccontasse l’aspetto del
nemico che doveva decidere delle loro sorti?). Si trattasse comunque di
garibaldini mascherati o di picciotti malintenzionati e in libera uscita,
l’ufficiale borbonico fece scendere due compagnie in ordine sparso e quattro
a rincalzo, con l’intenzione di spazzarli via in pochi minuti. Quei giovanotti
erano i carabinieri genovesi, abbastanza noti per essere dei buoni tiratori a
distanza: vedendo i napoletani calare giù nella valle cominciarono a sparare e
quando Sforza si accorse che i suoi cadevano come birilli, fece subito marcia
indietro. Ma i garibaldini avevano già innestato nei fucili le baionette e
stavano iniziando il terribile attacco che li portò in cima alla collina e alla
vittoria più importante di tutta la spedizione e, per quanto modestissima come
dimensioni, di tutto il Risorgimento.
Chi s’intende un poco di cose militari sa che per un paio di secoli l’attacco
con la baionetta innestata alla canna del fucile è stato considerato sotto due
aspetti: come un modo estremamente efficace, ma estremamente pericoloso,
per aprirsi un varco nella prima linea nemica, capace di dare dei risultati
impensabili quando tutte le altre manovre erano fallite, ma anche molto, a
volte troppo, dispendioso in vite umane; e come una dimostrazione
dell’orgoglio, del coraggio, dell’audacia di una fanteria d’eccezione, che si
lanciava contro il nemico agitando davanti a sé questo pugnale inserito nella
canna del fucile e recuperava lo scontro corpo a corpo, dimenticandosi delle
mitragliatrici che la falciava. Più tardi Garibaldi attribuì il successo a
Calatafimi proprio all’uso delle baionette. I napoletani erano quasi il doppio
dei garibaldini, si trovavano in una posizione tatticamente superiore, attestati
in alto, avevano fucili che sparavano meglio e più in fretta, e resistettero
duramente, più duramente di quanto non avessero mai fatto gli austriaci in
Lombardia l’anno precedente. Ma avevano paura dei colpi di baionetta, anche
se le camicie rosse si erano trovate di fronte un pendio a terrazze, che
permetteva loro di riposarsi, al riparo dai colpi nemici, ma che spezzava la
carica. Mentre i Mille salivano più lentamente del previsto il colle, sopra il
suo cavallo bianco Garibaldi li incitava con la sciabola sguainata,
esponendosi al fuoco nemico in maniera eccessiva, tra la disperazione di
Bixio. Se veniva centrato da un cecchino, come era quasi inevitabile che
succedesse, la battaglia era finita. Invece l’eroe, anche lui fortunello quel
giorno come Wellington a Waterloo, era stato colpito solo da una pietra, sotto
l’ultimo gradone, quando quasi nessuno credeva più di farcela e questo gli
accese una delle ispirazioni più felici e fortunate in tutta la sua illustre
carriera di guerrigliero. Si mise a urlare che il nemico gettava le pietre perché
aveva finito le munizioni e ordinò un’ultima carica. I borbonici, quando
videro comparire i primi garibaldini che avevano superato il ciglio della
collina, e le lame delle baionette brillare al sole, cominciarono a scappare.
Le baionette avevano vinto. Ma tornando per un momento in quell’Oriente
che abbiamo appena lasciato, e per fare un esempio che sto aspettando da
diversi capitoli, legato a tutta la vicenda che ho raccontato fino a questo
momento, le baionette potevano anche fallire e malamente. Morto Ranjit
Singh e dopo una decina di anni di lotte per la successione che distrussero
l’impero, i sikh entrarono in guerra contro gli inglesi e alla fine vennero
sconfitti. Ma prima di cedere i territori del Punjab, riuscirono a infliggere alle
presuntuose truppe britanniche una sconfitta sempre minimizzata dei testi
ufficiali di Sua Maestà. Perché anche gli storici inglesi si erano resi conto che
le ragioni del disastro di Chillianwala, una località dell’India non lontana da
Lahore, stavano nell’atteggiamento di superiorità arrogante e razzista
mantenuto verso i sikh da qualche generale imbecille, che gli era costato
molto caro. Il 13 di gennaio del 1849, quattro brigate di fanteria, di cui
ognuna comprendeva due battaglioni di indiani e uno di britannici, avevano
avuto ordine di far assaggiare ai sikh «il gelo delle lame delle baionette».
L’ordine era stato dato dal generale Gough, un fanatico dell’arma bianca e un
nome rimasto nella storia militare delle fesserie, come quello di Lord Raglan,
che condusse a morire gli eleganti cavalleggeri della Light Brigade in una
vanagloriosa, inutile, suicida galoppata (conosciuta da noi come la carica dei
Seicento).
Chi stava dall’altra parte vide gli inglesi arrivare fino a millecinquecento
metri, perfettamente allineati. Si sentirono dei comandi urlati con una voce
imperiosa, fu vista sventolare al centro la Union Jack e improvvisamente i
mille uomini della prima brigata cominciarono a correre in mezzo alla
boscaglia, lanciati in un attacco con i fucili scarichi ma con le baionette
innestate. L’artiglieria sikh, voluta da Ranjit, i cui addetti erano stati
addestrati da Court e con i consigli di Avitabile, aspettò fino a quando le
giubbe rosse non furono entrate nella piena visibilità. Poi, a una distanza di
ottocento metri, le batterie cominciarono a sparare e i fantaccini presero a
saltare in aria, non singolarmente, ma in gruppo e in pochi secondi la metà
giaceva per terra, morta o ferita. Quelli che, feriti leggermente o illesi,
riuscirono stoicamente ad avanzare ancora, a cento metri vennero presi
d’infilata dai tiratori scelti: era come stare al tiro a segno. Ci furono altri
scontri con altri reparti e alla fine della giornata gli inglesi avevano quasi
duemilacinquecento uomini fuori combattimento.
All’epoca le giubbe rosse erano considerate, dopo Waterloo, la prima
fanteria del mondo. Forse era un giudizio esagerato, che teneva conto del
ruolo oramai egemone che aveva assunto il Regno Unito, non solo in Europa,
ma in tutto l’orbe terracqueo. Certamente costituivano un avversario
temibilissimo, destinato a conquistare l’impero più grande che si fosse mai
visto: se erano state fermate, e in quale sanguinosa maniera, assegnata la
parte di stupidità a chi se la meritava, voleva dire anche che i cannonieri sikh
erano stati addestrati superbamente da chi di artiglieria se ne intendeva e
sapeva come usarla. Se ad Avitabile fosse stato permesso di organizzare i
reparti come era stato fatto in India, i cannonieri napoletani sarebbero stati
meno svegli dei sikh a imparare la lezione? E i gloriosi Mille di Garibaldi,
milanesi, bergamaschi, genovesi, pavesi, intrepidi e guidati da un pazzo
(Bixio) e dalla più ammirevole figura della storia moderna, come Garibaldi è
stato definito da A.J. Percival Taylor, ma sempre mille, sarebbero stati in
grado di fare meglio di qualche reggimento di giubbe rosse?
Se dunque ci fosse stato Avitabile al posto di Landi e limitandoci alla
battaglia (con tutta probabilità avrebbe manovrato nei giorni precedenti,
anticipando le mosse di Garibaldi), un tecnico come lui, profondamente
convinto dell’importanza dell’artiglieria, si sarebbe portato dietro quanti più
cannoni possibile: Landi ne aveva quattro, di cui due non utilizzati, mentre
Avitabile avrebbe sistemato sulla cima pianeggiante del Pianto del Romano
almeno due batterie da sei cannoni, meglio se leggeri, così potevano essere
spostati celermente. Affiancate da due o tre file di tiratori scelti. E avrebbe
mandato lungo i fianchi della collina le truppe che Landi ha tenuto in riserva
durante tutto lo scontro, in modo da impedire ai garibaldini di aggirarlo o di
fare manovre avvolgenti (una precauzione tutta teorica: chi e cosa poteva
avvolgere, un gruppo di mille persone?). L’unica direzione percorribile
nell’attacco diventava la salita della parte centrale della collina, direzione che
per la verità i garibaldini, esausti dal caldo, stavano seguendo. Poi avrebbe
piazzato le batterie non sul ciglio della collina, come aveva fatto Landi, ma
notevolmente arretrate e libere in ogni visuale. E nello stesso tempo avrebbe
mandato qualche pattuglia di tiratori ad affacciarsi, ma senza troppo esporsi,
sulla vallata, per dare l’impressione di essere impegnato in prima linea, e per
obbligare le camicie rosse a non salire sul pianoro in ordine troppo sparso,
ma raccolte e in maggior numero possibile, in modo da rendere più grosso e
vistoso il bersaglio. Infine, sfoderata la sua sciabola orientale e infilatosi in
testa l’enorme casco di piume fuori ordinanza, si sarebbe sistemato accanto
alle batterie, in attesa. Affaticati, con le baionette tese, ma privi dell’appoggio
dei cannoni, superato l’ultimo gradone i Mille, trovandosi davanti il vuoto si
sarebbero mossi quasi per istinto ancora in avanti, entrando anche loro nella
piena visibilità, come gli inglesi a Chillianwala. A questo punto l’artiglieria
borbonica, azzerando gli alzi, avrebbe avuto davanti un bersaglio che era
impossibile mancare. E quelli che uscivano vivi dal fuoco concentrato delle
due batterie, sarebbero stati abbattuti dai tiratori scelti.
Non oso pensare quali trattamenti Avitabile avrebbe riservato a quelli che
considerava solo dei briganti. Per Bixio, non potendo impalarlo o gettarlo da
un minareto, avrebbe escogitato qualche ferocissimo metodo per farlo morire
tra le solite atroci agonie. Quanto a Garibaldi, se lo prendeva vivo, l’avrebbe
messo in un gabbione e portato in giro per le strade della Sicilia e delle
Calabrie, tra il ludibrio della plebaglia, per mostrare come finivano i nemici
del re. E adesso è l’ora di smettere con i “se” nella storia, e di inviare un
tacito ringraziamento a quella ragazza non bella, paffutella o grassoccia, che
sapeva condire così saporitamente l’agnello arrosto.
Bibliografia

Qualche tempo fa mi sono lasciato andare a una battuta di quelle che ti inseguono, fino a quando non
si stampano dietro la schiena, in maniera indelebile, come un marchio di identificazione da mostrare in
ogni circostanza. La battuta era: «Non sono un vero viaggiatore, mi sento piuttosto un bibliotecario in
trasferta», per spiegare che quando viaggio mi piace prepararmi, leggere tutto quello che posso trovare
su usi e costumi di un certo numero di paesi, e non presentarmi solo con le maracas, davanti alla
dogana. Da allora la prima domanda di qualsivoglia intervista comincia sempre dai libri: «Tutte queste
letture non rischiano di appesantire ecc.» Oppure: «È vero che viaggia sempre al seguito di un baule di
libri?». Mi corre l’obbligo, quindi, di non disattendere le aspettative di alcuni gentili amici e di fornire
una pregiata, anche se ristretta bibliografia. Perché c’è sempre qualcuno che pensa che certi personaggi
non possono che essere inventati.

Della biografia su Paolo Avitabile di Cotton ampiamente citata nel libro esiste una traduzione
italiana di G. de Giorgio e prefazione (inutile) di Vittorio Spinazzola, stampata a Napoli nel 1907 da
Angelo Trani. Il miglior testo su Avitabile e su tutti quei personaggi che arrivarono nel Punjab tra la
fine del Settecento e la seconda metà dell’Ottocento, rimane tuttavia Adventurers of Northern India di
C. Grey (Lahore, 1929). Sempre utili, ma da prendere con una certa cautela, sono le testimonianze di
viaggiatori e visitatori europei, come la Correspondance di Victor Jacquemont (Paris, 1869); Travels
and Adventures di Joseph Wolff; Travels in Kashmir and the Punjab di G.T. de Vigne e numerosi altri
ancora. Alcuni sanno cogliere il personaggio o l’atmosfera del momento, e gli schizzi vanno benissimo,
ma pochi conoscono i retroscena delle vicende indiane e perciò si sbagliano spesso. Fondamentale è
When Men and Mountains Meet di John Keay che racconta la storia delle esplorazioni dell’Himalaya
occidentale nei primi decenni dell’Ottocento, e Avitabile compare due o tre volte.

La Storia del reame di Napoli di Pietro Colletta è stata ristampata da Grimaldi e C. Editori, mentre
un classico di don Benedetto (Croce), La rivoluzione napoletana del ’99 si trova facilmente
nell’edizione Bibliopolis. Sempre molto divertente, circostanziata e documentata è la Storia dei
Borbone di Napoli di Harold Acton, fierissimo e brillante reazionario (Aldo Martello Editore, Napoli,
1968). Una gran lettura è il famoso Corricolo di Alexandre Dumas, ripubblicato da Colonnese. Per
Napoleone e Waterloo ognuno scelga i libri che vuole. Ma non si può non leggere Anatomia della
battaglia, di John Keegan.

Il catalogo della mostra tenuta a Londra nel 1999 al Victoria and Albert Museum sulla cultura e sulla
storia dei sikh è splendido (e riporta, fra l’altro, la celebre fotografia in tartan di Alexander Gardiner).
Discreta, anche se vecchia di oltre 150 anni è A History of the Sikhs di J.D. Cunningham (London,
1849) e la stessa cosa si può dire di un’altra vetusta pubblicazione, Sikhs and Afghans – prima e dopo la
morte di Ranjit Singh – di Shahamat Ali (London, 1849). Fatta piuttosto bene è la biografia di Ranjit di
Khushwant Singh (George Allen, 1962). Molto accademica è l’India della New Cambridge History,
con sottotitolo The Sikhs of the Punjab di J.S. Grewal. Per sapere qualcosa sulla battaglia di
Chillianwala, provate a cercare su Internet una ricostruzione del maggiore pachistano Agha Humayun
Amin.

Anche Settling the Frontier, un testo sulla Peshawar Valley dal 1500 al 1900, di Robert Nichols
(Karachi, 2001) è accademico e poco appassionante. Se volete qualcosa che sappia di kaki e di
classicità coloniale, andate alla ricerca de The First Afghan War di Henry Durand (London, 1879), uno
dei prototipi vittoriani dell’eroe, sebbene uno o due grandini più sotto l’inarrivabile Gordon.

Sull’India è obbligatorio leggere il vecchio, ma ancora magnifico The Lion River di Jean Fairley
(Bookclub Edition, 1975). Molto buona anche la Storia dell’India di John Keay, tradotta in italiano
dalla Newton e Compton. Seguono Storia dell’India di Michelguglielmo Torri (Laterza, 2000) e
History of India di Percival Spear, in due volumetti della Penguin. Indispensabile per tutto quello che
riguarda l’impero britannico e scritto in maniera splendida è il trittico di James, oggi signora Morris (ha
cambiato sesso), pubblicato dalla Penguin.

Sui kurdi esiste una Modern History di David McDowall (New York, 1996).

Su Garibaldi vi prego di rileggere quel capolavoro assoluto che è Garibaldi and the Thousand di
G.M. Trevelyan. Per i dati e la disposizione sul campo a Calatafimi è indispensabile il volumone
Einaudi di Piero Pieri sulla Storia militare del Risorgimento.
«Sparate» sta dicendo il generale Paolo Avitabile agli artiglieri sikh, in questo
disegno che sembra una caricatura. Nella prima metà dell’Ottocento in India, in
una località chiamata Chillianwala, gli inglesi che andarono all’attacco delle
postazioni dei sikh solo con le baionette, in un gesto di «bravado», furono fatti a
pezzi nella più grande sconfitta subita dall’impero britannico nelle colonie.

Terminata a Waterloo l’epopea napoleonica, con il grido mai udito prima: «La
guarde recule», furono numerosi gli ufficiali bonapartisti costretti a emigrare in
attesa di tempi migliori o che lasciarono volontariamente l’Europa, dirigendosi
verso Oriente, dove le loro capacità venivano molto apprezzate. Uno dei primi e
dei più noti tra loro si chiamava Jean Baptiste Allard e aveva combattuto tra i
corazzieri. Qui lo vediamo en famille, naturalmente indiana, in un momento di
riposo. È stato Allard il primo a essere assunto da Ranjit Singh, il creatore
dell’impero dei sikh, insieme con Jean Baptiste Ventura, un aristocratico italiano
naturalizzato francese, e ad aprire la strada per Lahore ad Avitabile. Da notare i
preziosi scialli di pashmina con cui si avvolgono le donne sikh. Sullo sfondo la
villa-palazzo del franco-italiano, circondata da giardini stile moghul.
All’inizio della sua carriera di fondatore di un impero, Ranjit Singh disponeva di
un parco artiglieria ridotto e antiquato. Ma in pochi anni, facendosi regalare due o
tre cannoni dagli inglesi, chiamando nelle fonderie i migliori artigiani dell’India e
servendosi dei consigli degli ufficiali europei, riuscì a produrre cannoni di bronzo
come questi, che sparavano con letale precisione, come si accorsero le truppe
britanniche.
Ranjit Singh, il maharaja del Punjab, si faceva ritrarre solo di profilo perché aveva
perso un occhio. Erano almeno una cinquantina gli ufficiali europei che Ranjit
assunse in funzione di comando, ma anche come addestratori del suo esercito.
Aveva capito con molto anticipo sugli altri leader indiani che il vero pericolo
veniva non dalle guerre interne ma dagli inglesi. E un esercito efficiente faceva la
differenza tra l’indipendenza e l’essere colonizzati. Morì ancora relativamente
giovane nel 1839, probabilmente per l’abuso dell’alcool che beveva in dosi
inimmaginabili, mescolato a droghe e perle vere schiacciate e polverizzate.
Insieme a lui vennero cremate quattro mogli e sette ragazze schiave.
Ranjit Singh ritratto mentre tiene un durbar, una riunione in cui si prendevano le
decisioni politiche più importanti, insieme con i parenti e i capi dell’esercito.
Avitabile, Allard e Ventura di solito partecipavano ai durbar, senza avere il diritto
di sedersi. Qui l’acconciatura del maharaja del Punjab è particolarmente ricca, con
le abituali collane di perle con cui amava avvolgersi anche quando andava in
guerra. Altrimenti vestiva in maniera sobria. Era un ottimo conoscitore di caratteri
e fu lui a nominare Avitabile governatore di Peshawar.

Ancora oggi, dopo centocinquant’anni, il nome del generale pronunciato


all’afghana, Abu Tabela, è capace di far prendere uno spavento agli abitanti di
Peshawar. Nessuno lo ha mai superato, né prima né dopo, nell’escogitare le sevizie
più tremende per chi non voleva pagare le tasse o per i disturbatori (Il generale
Paolo Avitabile, olio, Museo Nazionale di San Martino, Napoli, su concessione del
Ministero dei Beni Culturali Ambientali di Napoli).
Una miniatura del Tempio d’Oro, il sancta santorum della religione sikh, ad
Amritsar. Negli anni ’80 venne occupato come ultimo rifugio da un gruppo di
terroristi, che avevano commesso stragi in tutta l’India, guidato da un atletico
fanatico, Bindranwale. Dopo alcuni tentativi, andati falliti di mediazione, Indira
Gandhi, la figlia di Nehru, diede ordine di portare un attacco che agli occhi dei
sikh costituiva un sacrilegio inaudito. Qualche tempo più tardi Indira venne
assassinata da una sua guardia del corpo, un sikh, che voleva vendicare questo
affronto al Tempio d’Oro.
Ritratti sikh dipinti su avorio.
I nobili e i proprietari terrieri sikh, i ghorchurras, seguivano un’etica militare
severa e consapevole. Si muovevano sempre a cavallo e disprezzavano chi andava
a piedi, erano vanitosissimi e coraggiosi, e avevano la preoccupante tendenza a
combattere a singolar tenzone. Uno dei loro capi, Sucher Singh, aitante e
sprezzante, dava l’impressione agli europei di appartenere a un mondo antico,
quando il fato degli imperi si reggeva sulla punta delle lance. Diventato il Punjab
parte dell’impero inglese, i coloniali europei, ammirati dal loro ésprit de corps, lo
favorirono in modo talmente eccessivo che nella prima guerra mondiale i sikh
superavano il 35 per cento dell’armata indiana.
Gli zeloti poveri dei sikh, chiamati Akali, s’infilavano in testa una specie di cono
che li faceva assomigliare a tanti maghi merlini. Il cono aveva la funzione di
rastrelliera per micidiali oggetti di ferro rotanti e affilati, i quoit, che venivano
lanciati con grande destrezza.
Fedelissimo di Ranjit Singh, Gulab Singh non fu altrettanto leale verso i suoi
successori. Si vendette agli inglesi e in cambio ottenne di governare nelle due
regioni di Jammu e del Kashmir. La guache è una delle più belle del periodo e ci
dà un ritratto di un maharaja in tutto lo splendore delle sete e dei monili. C’è anche
in questo caso un tentativo di interpretazione psicologica di un uomo che ha tradito
il proprio paese.
La vanità delle due bodyguards, ricoperte da capo a piedi di veli, sete, pashmine,
shah-tusc, non deve ingannare. Questi guerrieri amavano l’ostentazione e lo
struscio a cavallo, ma con la stessa rapidità di un commando erano pronti a
combattere non importa chi.

Henry Lawrence è stato il capostipite di quella élite del corpo coloniale britannico
immensamente energica, inattaccabile da malanni di qualsiasi genere, fortemente
puritana che ha creato e retto di fatto l’impero inglese. È stato il primo successore
britannico di Avitabile a Peshawar – “residenti” venivano chiamati, con molta più
ipocrisia che understatement – e anche il più acceso critico dei metodi brutali di
Avitabile.

Si capisce subito, guardando l’alto funzionario inglese seduto sulla poltrona con
l’aria tranquilla del padrone di casa, chi ha vinto e chi ha perso nella trattativa tra
inglesi e sikh sul futuro del Punjab. Ranjit è morto da sette anni e l’impero da lui
fondato si sta sgretolando.
Tra le cinque o sei grandi città dell’India, oggi Lahore è probabilmente la meno
importante. Ma la sua conquista da parte di Ranjit Singh nei primi anni
dell’Ottocento fece di questo capoguerriglia il leader incontrastato del Punjab. Il
maharaja la riorganizzò amministrativamente, ma sono stati i moghul a farne una
capitale, insieme ad Agra e Delhi, costruendo le mura, le fortificazioni, le porte
monumentali, le moschee, i famosi giardini.
Sulla tomba di questo straordinario personaggio che è stato Alexander Gardiner
bisognerebbe mettere una scritta simile a quella che stava ai piedi di un kouros
(statua arcaica greca) dalla provenienza e dall’autenticità incerte, sistemato in una
sala del Paul Getty Museum di Malibù, e che diceva: «VII secolo a.C. o XX
secolo». Di Gardiner si potrebbe dire: «Il più grande viaggiatore dell’Asia nel XIX
secolo o il più grande bugiardo. O tutt’e due le cose». La piuma che attraversa il
turbante scozzese è di airone e sta a significare che Gardiner, detto “fucile
mitragliatore” e per molti anni a capo di una banda di tagliagole afghani, aveva
combattuto sotto le insegne di Ranjit. Almeno questa attività è certificata.

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