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Il Napoletano Che Domò Gli Afghani
Il Napoletano Che Domò Gli Afghani
imprevedibili, anarchici, pericolosi individui, pronti a tagliare la gola per mezza rupia. Polverosa e
caotica all’interno, la città era, esattamente come oggi, assolutamente ingovernabile.
Un giorno, il geniale Ranjit Singh, il fondatore dell’impero sikh, pensò bene di nominare governatore
della turbolenta città Abu Tabela, e per gli abitanti di Peshawar fu come essere governati di colpo da un
Tamerlano, un Barbablù e un impalatore turco messi insieme. I ladri sparirono, i rapinatori furono
squartati, gettati dai minareti o impiccati agli alberi fuori le mura e i cittadini benestanti torturati perché
mollassero il gruzzolo grande o piccolo che fosse.
Centocinquant’anni dopo, per frenare i loro figli troppo vivaci, le madri di Peshawar e di altre città
pakistane minacciano ancora di chiamare Abu Tabela.
L’aspetto più incredibile di questa vicenda, che pure presenta più di un lato stupefacente, è che Abu
Tabela non è il nome di un crudele capo uzbeko o di un capobanda patano, ma la traslitterazione, più o
meno fedele, di Paolo Avitabile, napoletano, ex cannoniere borbonico, passato a Murat, ripassato ai
Borbone, assoldato dallo shah di Persia per far pagare le tasse ai kurdi e, infine, finito a Lahore, alla
corte di Ranjit Singh. Un napoletano che divenne una figura leggendaria anche per gli inglesi, i quali
sostenevano che gli afghani guardavano Avitabile con la paura e la reverenza con cui gli sciacalli
guardano la tigre.
Per raccontare una simile storia, ci voleva un narratore straordinario come Stefano Malatesta, sulle
tracce di Avitabile da anni. Ricostruendo la stupefacente vita dell’avventuriero napoletano, Malatesta ci
offre un ritratto incomparabile del nord dell’India quando era ancora in mano agli indiani: una terra
immensa, affascinante, percorsa da eserciti che si danno battaglia, guidati da ufficiali europei che
avevano combattuto a Waterloo, dove si parlano tutte le lingue, dove i maharaja sono ricoperti dei
gioielli più costosi del mondo, dove gli esploratori sono anche spie e il più grande viaggiatore del
secolo, Alexander Gardiner, è anche il più grande bugiardo. Dove gli inglesi sono ovunque, fingendo,
ancora per poco, di essere capitati lì per caso.
Stefano Malatesta scrive racconti di viaggio e articoli d’arte e di letteratura per «La Repubblica». Ha
pubblicato, sempre da Neri Pozza, Il cammello battriano (premio Comisso e premio «Albatros-
Palestrina») e Il cane che andava per mare e altri eccentrici siciliani (premio «Settembrini 2000»), Il
Grande Mare di Sabbia.
DELLO STESSO AUTORE
Il cammello battriano
Il cane che andava per mare e altri eccentrici siciliani
Il Grande Mare di Sabbia
La pescatrice del Platani
STEFANO MALATESTA
Il napoletano
che domò gli afghani
NERI POZZA EDITORE
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’O Malommo
1 Nel 1907 il signor Onofrio Avitabile residente a Santomenna, pronipote del generale Paolo Avitabile,
offre in dono al Museo di San Martino un quadro di grande formato (circa m 3,60 × 2,50) raffigurante
l’antenato, ma non descrive se il generale era a cavallo né indica l’autore del dipinto. La richiesta della
donazione resta senza esito. Nel 1925, invece, un altro donatore, Paolo Avitabile, dà al Museo di San
Martino un dipinto raffigurante il generale a figura quasi intera, di cm 105 × 78, che viene inventariato
con il numero 14448. Il dipinto, tuttavia, andato in mostra nel 1940, non è stato più rintracciato a
seguito degli eventi bellici posteriori. Resta nel Museo con lo stesso numero di inventario un dipinto di
piccole dimensioni (cm 31 × 25) di buona qualità che raffigura il generale ed è, forse, bozzetto del
dipinto disperso. Infine, nel 1940-41 una signora, Beatrice Avitabile, dona al Museo un altro dipinto
raffigurante l’avo, di cm 260 × 210 recante l’attribuzione a Carlo De Falco e inventariato con il numero
16306. Quest’ultima opera, purtroppo, si presenta gravemente danneggiata dal restauro effettuato nel
1941 all’atto dell’ingresso nel Museo.
È documentato dalle fonti un ritratto del generale Avitabile eseguito nel 1848 dal De Falco, noto
ritrattista della Corte Borbonica. [Nota a cura del Museo di San Martino.]
3.
«Ricordatevi di Chillianwala!»
Oltre a causare i magni effetti che sappiamo, studiati dalla Grande Storia, la
battaglia di Waterloo, avvenuta il 18 giugno del 1815 in una campagna
anonima e spoglia – il terreno scivoloso trasformato in fanghiglia dalla
pioggia che è sempre stata nemica della Francia (ricordate Agincourt?) – ha
creato altre e nuove situazioni che vengono catalogate con finta modestia
come piccola storia o anche microstoria. Dico finta modestia perché tutti gli
storici che si sono “divertiti” a scrivere testi su queste vicende pensavano in
realtà di fare cose molto più acute e significative, anche se circoscritte, dei
pittori di affreschi un tanto al metro. Nel caso in questione, uno degli effetti
collaterali della sconfitta di Waterloo è stato l’esilio forzoso, perché
minacciati o cacciati dai Borbone, o l’esodo volontario di numerosi ufficiali
troppo compromessi con il passato regime o troppo orgogliosi per piegarsi ai
vecchi-nuovi padroni o troppo disgustati da governanti che sembravano
mettere insieme le alterigie e le insulsaggini settecentesche con lo spirito
dell’arraffa-arraffa, se si può chiamare spirito questa laida propensione della
spaventosa borghesia francese del tempo di Balzac. È stata una diaspora che
ha preso una sola direzione, l’Oriente. I militari di ventura, come gli artisti,
hanno sempre avuto bisogno di una ricca committenza che ordinasse e
spendesse, altrimenti esisteva la concreta possibilità che i loro rispettivi
talenti deperissero per mancanza di solvente. E solo in Oriente c’erano ancora
quei capi politici, quei leader che avevano estremo bisogno del loro aiuto e,
nello stesso tempo, erano in grado di attirarli con stipendi impensabili in
Europa.
Questi ufficiali, perché di soldati semplici ce n’erano pochi, avevano
caratteristiche molto differenti dai militari mercenari del passato: i lanzi
imperiali e rinascimentali della battaglia di Pavia e del Sacco di Roma, gli
svizzeri che attaccavano con formazioni a porcospino, fatte di lunghe picche,
gli hannoveriani al servizio di Sua Maestà Britannica durante la guerra
d’indipendenza americana, tutti disgraziati che andavano a combattere fuori
della propria terra, come emigranti stagionali o anche a ferma lunga, senza
nessun altro scopo che il bottino, la razzia e il ritorno a casa con i dobloni
avvolti nei fazzoletti e nascosti dentro le brache. Naturalmente i nuovi
mercenari non erano arrivati fin qui per turismo, dovendo anche loro
guadagnarsi il pane, ma lo facevano in modo orgoglioso, spesso con
sentimento rivolto al passato, e ritenevano di aver diritto a un rispetto
proporzionato alla gloria inseguita e raggiunta e che nessuna Waterloo
avrebbe mai cancellato. Anche con gli stracci indosso, non avevano
rinunciato a quella secca alterigia, a un certo modo d’incedere e di porsi di
traverso al mondo, atteggiamenti che spesso venivano direttamente dal loro
maestro, da quello che avevano visto o saputo di lui adattandolo alla loro più
modesta personalità, con risultati a volte sconcertanti. Sto parlando in termini
del tutto generali: questo, ad esempio, non sarà il modello che copierà o con
cui entrerà in sintonia Avitabile, mezzo murattiano, mezzo borbonico, se mai,
e non napoleonide pieno.
Proprio a Waterloo avevano combattuto due ufficiali superiori, che
ritroveremo alla corte di Ranjit Singh già prima di Avitabile e che avranno la
funzione di aprirgli la strada. Si chiamavano Jean Baptiste Allard e Jean
Baptiste Ventura, un emiliano che si fregiava del titolo di conte di Mandi. Il
maharaja del Punjab sarà molto generoso verso i suoi ufficiali europei, di cui
si servì per ammodernare il suo esercito, e trattò sempre i ferenghi, gli
europei, con il dovuto tatto. Ma non si fidò mai completamente di loro, con la
sola eccezione di Allard che divenne il suo favorito, gli lasciò maggiore
libertà che agli altri e gli permise di andare in Francia, da dove ritornò carico
di corazze per cavalieri, carabine e pistole. Ventura, per il suo titolo di
nobiltà, per i suoi modi aristocratici, per l’abilità con cui risolse momenti
difficili, alla testa di battaglioni gurkha, gli straordinari soldati nepalesi, era
considerato il più eminente, anche il più rappresentativo del gruppo. Sembra
che tutt’e due, a turno, fossero incessantemente interrogati su Waterloo dal
maharaja, che non a caso era chiamato il Napoleone o il Leone del Punjab.
Loro ripetevano quello che grosso modo sapevano tutti. Come si fossero
ritrovati, insieme all’armata francese, in una posizione svantaggiosa rispetto
alla collina presidiata dalle giubbe rosse (se c’è un luogo che può essere
morne ma assolutamente non una plaine, come dice Hugo, questa è
Waterloo) e come avessero fatto i calcoli sul tempo necessario per arrivare a
tiro del nemico e quante probabilità esistevano realmente di cavarsela. Tra i
due, che allora non si conoscevano, il primo ad andare incontro agli inglesi
doveva essere stato sicuramente Ventura, veterano di Wagram e della
disastrosa campagna di Russia, che aveva sempre militato nella fanteria.
Perché alle undici di mattina, dopo aver aspettato inutilmente che il terreno si
rassodasse, senza troppa fantasia, l’imperatore decide di attaccare la parte
destra dello schieramento nemico, costituito dal caposaldo del castello di
Hougoumont, come mossa diversiva per sguarnire il centro del nemico, dove
ha in mente di lanciare l’attacco principale.
Hougoumont resisterà per ore diventando una battaglia nella battaglia e
l’azione si rivelerà una mossa sbagliata, con Wellington che ha spostato solo
pochi tra i suoi uomini. Ma Napoleone, rendendosi conto che non c’è tempo
per altri diversivi perché Blücher si sta avvicinando, all’una e trenta inizia
con l’artiglieria un fuoco di sbarramento e mezz’ora più tardi dà l’ordine di
muoversi in massa, convinto forse dalla resistenza del forte che il centro si sia
indebolito, mandando soccorsi mentre è rimasto quasi intatto. È una pura
manovra di forza, che mira allo sfondamento: sedicimila fantaccini guidati da
L’Erlon che avanzano lentamente e che in innumerevoli altre battaglie hanno
continuato ad avanzare, anche in un terreno insidioso come questo, fino a
vedere le schiene dei nemici che si ritiravano. L’inizio è discretamente
promettente e una dopo l’altra cadono due linee, ma il punto nevralgico, la
fattoria di Haye Sainte resiste. Improvvisamente arriva, veloce e inatteso, il
contrattacco della fanteria inglese guidata dal generale Pincton, seguito da
una carica di due brigate di cavalleria pesante, la Household al comando
dell’impetuoso Lord Uxbridge, e la Union Brigade di Ponsonby e per circa
due ore si combatte ferocemente, in un equilibrio precario. Ma lo
sfondamento non c’è stato e a questo punto Michel Ney, le brave des braves,
duca di Elchingen, principe della Moscova e maresciallo di Francia, al quale
incautamente Napoleone ha affidato il controllo tattico della battaglia,
interpreta alcuni movimenti sulla linea inglese come una ritirata e dà il fatale
ordine alla cavalleria di attaccare immediatamente, senza il supporto dei
cannoni e della fanteria. È l’ultima e una delle più impressionanti cariche
dell’epopea napoleonica: cinquemila tra corazzieri, carabinieri, dragoni,
lancieri, ussari, anche gli chasseurs à cheval, si lanciano in ondate che
dovrebbero risultare irresistibili e salgono su per la collina in uno sfolgorio di
divise e in uno scintillio di lame, convinti di travolgere qualsiasi ostacolo. Tra
i corazzieri, con il grado di capitano, un grado di fresca nomina attribuito da
Napoleone all’inizio dei Cento Giorni subito dopo lo sbarco dall’Elba, c’è
Allard, un provenzale (è nato a Saint-Tropez che in quegli anni doveva essere
un minuscolo paese tutto circondato da vigneti), piccolo e scuro di pelle,
notoriamente coraggioso. E chi non lo era, tra i cavalieri di Ney?
I primi ad andare avanti sono proprio i corazzieri. Ma quando superano la
cresta, già scompaginati dai colpi dell’artiglieria, si trovano di fronte venti
quadrati, perfettamente allineati e profondi tre file per lato, con le giubbe
rosse della prima fila in ginocchio che sorreggono i fucili puntandoli verso
l’alto e formano un muro di baionette, mentre le altre due file sono in piedi, e
aprono il fuoco a breve distanza, con la sicurezza di colpire sempre il
bersaglio come in un plotone di esecuzione. Sconcertati, i cavalieri rallentano
per un momento la carica, poi la riprendono, tentando di forzare i quadrati
con la punta delle lance e delle sciabole, ma l’impeto se n’è andato, i quadrati
si dimostrano più resistenti e solidi di quanto gli stessi inglesi sospettassero, i
cavalieri continuano a galoppare a vuoto in una sorta di giro della morte che
si ritorce contro di loro. Molti cavalli, spaventati dal fuoco, dall’odore del
sangue e soprattutto dal muro di baionette, davanti ai quadrati hanno frenato
o si sono imbizzarriti. Ma anche gli inglesi sono stremati: stanno
combattendo dal mattino e qualche compagine dà segni di cedimento e Ney,
che questa volta ha visto giusto, dopo aver abbandonato il terzo o quarto
cavallo ucciso sotto i suoi piedi, corre dall’imperatore a supplicarlo di
mandare in soccorso la superba cavalleria della Guardia Imperiale, che tante
volte era stata usata per assestare il colpo di grazia. Ma Napoleone
inspiegabilmente si rifiuta, una decisione considerata uno degli errori più
gravi di tutta la sua incredibile carriera. Ci ripenserà, pochi minuti, forse una
mezz’ora dopo, ma oramai è troppo tardi perché le giubbe rosse si sono
riprese e hanno chiuso i varchi, incitate da Wellington, detto “Calm under
stress” e più tardi “The Iron Duke”, ma che io chiamerei Fortunello perché,
irrigidito sul cavallo, presente ovunque e molto visibile, è un sicuro bersaglio
e decine di pallottole lo sfiorano ma nessuna lo ferisce, mentre i suoi aiutanti
cadono uno dopo l’altro. Gli strateghi da tavolino dichiareranno che è stato
proprio il fallimento delle cariche della cavalleria a trascinare i francesi oltre
il punto di non ritorno verso la sconfitta, e il successivo, famosissimo assalto
della Guardia Imperiale è inutile e destinato a fallire perché il mago della
guerra oramai si trova esattamente nella situazione in cui lui stesso diceva di
non volere trovarsi mai: da qualche minuto intorno alla sua tenda stanno
esplodendo le granate lanciate dai cannoni di Blücher e Napoleone è
accerchiato.
Non sappiamo come Allard si comportò – tutti si batterono eroicamente,
dirà poi Napoleone che aveva la tendenza all’iperbole nei fatti di guerra – ma
era considerato di grande coraggio personale, secondo quanto riferisce il
barone Hugel, notevole viaggiatore che lo conobbe molto più tardi a Lahore,
e non abbiamo motivo di dubitare che fece bene la sua parte. Poche settimane
più tardi viene escluso dall’amnistia dei Borbone e costretto all’esilio, perché
i giudici militari della restaurazione lo ritengono troppo bonapartista per
essere recuperabile, così come la Santa Inquisizione in Spagna perseguitava i
marrani, gli ebrei e gli arabi convertiti, perché non credeva alla loro
conversione. È la fine della sua carriera continentale ed europea, iniziata in
Francia e proseguita in Spagna sotto la protezione di Giuseppe Bonaparte, ma
senza particolari privilegi e con molto impegno. Mentre i Borbone fanno
fucilare Ney nei giardini del Luxembourg, Allard s’imbarca con numerosi
altri ufficiali che non hanno avuto la grazia reale o che preferiscono correre
l’avventura piuttosto che rimanere a mezza paga in una Francia in cui non si
riconoscono. La destinazione è l’Egitto, che ha dimenticato di essere stato
invaso e depredato dalle armate francesi e ricorda solo che sono stati i
francesi a lanciare la mania dell’egittologia, accogliendoli con calore
nell’esercito. Da ora in poi, con l’eccezione delle parti finali su cui non
voglio anticipare nulla, le vicende di questo libro stanno andando verso
l’Oriente, all’inizio il vicino Oriente e poi sempre più lontano. E proprio in
questo Oriente più lontano si svolgerà una battaglia che sembra cosa ridicola
paragonare a Waterloo, tanto differenti sono le dimensioni. Ma dove due o tre
brigate inglesi vengono sconfitte e una annientata da truppe indiane (sikh)
che si sono servite di un’artiglieria creata da un italiano, e da ufficiali
napoleonici che avevano combattuto a Waterloo.
In Egitto Allard ci resterà solo qualche anno, per spostarsi in direzione del
migliore offerente, lo shah Abbas, in Persia, con il quale tuttavia l’accordo
non si conclude. E allora riparte come un vero emigrante, travestito da
mercante e accompagnato da Ventura, che ha incontrato e conosciuto per la
prima volta a Teheran. I due si dirigono verso l’Indo e l’area nordoccidentale
dell’India, raggiungendo Lahore al termine di un viaggio di sei mesi, che
deve essere stato molto avventuroso e imprevedibile, anche perché bisognava
essere benedetti da una certa fortuna per sfuggire alle implacabili bande di
tagliagole che infestavano i passi e le gole dell’Afghanistan. Duecento anni fa
la città era la capitale dell’impero sikh, che andava dal Kashmir, dal Ladakh e
dal Baltistan fino all’Afghanistan verso ovest e fino ai deserti del Rajastan e
il Sind verso sud. Un impero non immenso, se misurato con il metro delle
dimensioni asiatiche e certamente non paragonabile all’impero moghul,
ancora fastoso, ma in via di sgretolamento già a partire dall’inizio del
Settecento e suicidatosi nella battaglia di Panipal attraverso una incredibile
serie di tradimenti e inefficienze quando lo shah Nadir era potuto entrare in
una Delhi indifesa, massacrare, saccheggiare, stuprare e portarsi via il Trono
del Pavone. Il regno o l’impero dei sikh non ha mai avuto una simile
dimensione e un simile apparato, ma si dimostrerà il più forte, compatto e
bellicoso stato dell’India e il più formidabile ostacolo che gli inglesi abbiano
mai incontrato nella creazione dell’impero.
Quando andavo al liceo, nei libri di storia, che era una storia europea o una
storia del mondo che si svolgeva quasi tutta in Europa, ogni tanto si aprivano,
con parsimonia, delle finestrelle verso tutto quello che succedeva o era
successo in altri continenti. Gli argomenti erano i più svariati, perché non
importava il tema, ma la misura del testo, dichiaratamente esiguo. E si andava
dai tagliatori di teste del Borneo alle guerre zulù, dai mongoli che puzzavano
bestialmente e lasciavano imputridire la carne cruda sotto la sella dei loro
“instancabili” pony (così come i fachiri erano sempre “seminudi”, gli arabi
“fanatici”, i cinesi “indecifrabili” e i pellerossa “ultimi e in via di estinzione”)
ad Harun el Rashid che prendeva lo stesso spazio del Saladino, fino alla
minacciosa battaglia di Tsushima, dove uno “strabiliante” Giappone passato
dal Medioevo all’Era moderna in cinquant’anni, aveva annientato la flotta
russa con una eccelsa tattica dell’ammiraglio Togo e con una tecnologia
superiore. Una di queste finestrelle era dedicata sempre al Trono del Pavone,
con annessa indecifrabile foto in bianco e nero, accompagnata da una
didascalia che lo esaltava come il più prezioso trono che si fosse mai visto.
Quello che non si capiva bene – parlo degli studenti, ma mi riferisco anche
agli autori dei testi, perplessi come noi – era tutto quello che riguardava le
vicende preliminari alla formazione dell’impero inglese. Fino all’inizio
dell’Ottocento, mentre le varie etnie e nazioni indiane continuavano a
combattere tra loro, nessun inglese sensato, nemmeno quelli che avevano i
loro denari investiti nella East India Company, aveva mai pensato, neppure
lontanamente, alla possibilità di trasformare i fondaci e le stazioni
commerciali in qualcosa di diverso. Pochi decenni più tardi li ritroviamo
padroni della metà del globo terracqueo, dall’Honduras alla Somalia, dal
Canada all’Australia, dalle Seychelles a Singapore. In India la Compagnia da
quasi duecento anni era andata stipulando contratti di protettorato in quasi
tutti i luoghi dove vedeva possibilità di traffici, ma questo non aveva mai
significato voler fondare un impero. La vittoria su Napoleone, come ho detto
prima, doveva aver fatto girare la testa agli anglosassoni che cominciavano a
credere di essere un popolo eletto e di avere avuto in sorte un destino
manifesto che li poneva alla guida di un concerto di popoli. Ma come, in
concreto, fossero riusciti in una simile, incredibile impresa, facendo finta di
esserci stati trascinati – e in parte era vero – nessuno lo diceva. Sapevamo
solo che quelli che gli avevano dato più filo da torcere erano stati gli “infidi
afghani” e “i marziali sikh”, secondo quanto tentava di spiegare il professore
di storia.
Molti anni più tardi venni mandato dal giornale a coprire un avvenimento
che in India stava minacciando l’esistenza stessa del paese: la rivolta degli
estremisti sikh, guidati da un fanatico dal fisico di un quattrocentista a
ostacoli e dalla voce profonda e ispirata, che si chiamava Bindranwale. Il
sikhismo era un credo che aveva preso dall’induismo e dall’Islam, riuscendo
a non assomigliare né all’uno né all’altro e sviluppando caratteristiche proprie
e codici particolari, alcuni dei quali erano conosciuti anche in Europa, come
la proibizione di tagliarsi capelli e barba. Sottoposti per secoli a persecuzioni
– alcuni dei loro maggiori leader e profeti vennero torturati e uccisi – i sikh
avevano sviluppato così bene le forme di autodifesa che si erano ritrovati a
essere un popolo di atletici guerrieri, i migliori che potesse vantare l’India.
Con la spartizione avvenuta dopo la seconda guerra mondiale, la grande
maggioranza dei sikh aveva scelto l’India di Gandhi e i rapporti tra le
comunità erano sempre stati eccellenti. Nel paese i sikh non superano il due
per cento della popolazione, ma contano e contavano molto di più, e i più
brillanti generali dell’esercito sono spesso sikh, insieme con i più maestosi
portieri degli alberghi di lusso che aprono con grande dignità le portiere dei
taxi. E qualche americano crede che siano dei maharaja che hanno sbagliato
automobile.
Ma questo Bindranwale era un terrorista, e dopo una serie lunghissima di
attentati si era andato a rifugiare nell’Harimandir Sahib, il Tempio d’Oro di
Amritsar, il sancta sanctorum della religione, sperando che le truppe indiane,
guidate quasi sempre da alti ufficiali sikh, non osassero profanare quei luoghi
così sacri. Invece Indira Gandhi aveva dato l’ordine di uccidere a tutti i costi
Bindranwale e io arrivai ad Amritsar due o tre giorni dopo l’attacco, perché
avevano bloccato tutti i giornalisti a New Delhi, in previsione del massacro.
Mi dissero poi che c’era stato un tentativo di sloggiare i terroristi asserragliati
nel Tempio d’Oro lanciando gas asfissianti o nervini, ma il vento contrario
aveva riportato indietro le esalazioni. Poi qualcuno aveva avuto la geniale
idea di aggirare l’anatema per chi calpesta l’erba sacra intorno al tempio che
si affaccia su un laghetto, facendo avanzare di corsa commandos col
giubbetto antiproiettile, ma senza scarpe, a piedi nudi, ed era stato come al
tiro a segno. A questo punto le truppe indiane incattivite, quasi ventimila
uomini perfettamente armati, sistemate a cerchio intorno all’area, avevano
stretto il nodo e non si poteva parlare di ribelli sopravvissuti. Chi non si era
arreso prima non aveva avuto nessuna possibilità di cavarsela. Oltre a fare un
giro turistico del Tempio d’Oro, a visitare il museo del sikhismo, che era un
museo delle torture che gli imperatori moghul e i musulmani avevano inflitto
ai credenti, ci mettemmo a chiacchierare con un paio di alti ufficiali che
sembravano ed erano più colti degli altri. E tutti ricordavano con nostalgia,
anche se risaliva a centocinquant’anni fa, il regno di Ranjit, considerato come
l’uomo politico più rilevante del secolo scorso in India. Quanto ad Avitabile,
nessuno lo conosceva, almeno sotto quel nome.
Negli archivi del Punjab, impressionanti per numero, precisione e qualità
d’informazioni, come se quelli che dovevano presentare i resoconti avessero
avuto dei registratori, è segnata parola per parola la commedia che si svolse
tra Allard e Ventura e il sospettosissimo maharaja. «Il maharaja si informa
graziosamente della loro salute, da dove vengono, dove vanno e che cosa
cercano», sto citando dalle informative. Loro rispondono che sono francesi,
che vengono da Rumi (Costantinopoli), Baghdad, Kandahar, Kabul,
Peshawar, Attock. Il maharaja chiede se sono versati nell’arte della guerra.
Gli ospiti rispondono che questo è il loro mestiere. Il maharaja allora chiede:
«Se vi affido la mia artiglieria e i miei battaglioni per invadere il Khorasan,
voi sarete in grado di conquistarlo?» Gli ospiti rispondono: «Sì, ma non nella
stagione calda, insopportabile per gli europei». Allora il maharaja chiede a
uno dei ferenghi di fargli vedere come si spara un cannone. E quello risponde
che non è un cannoniere, ma comanda ai cannonieri di sparare. Il maharaja
allora afferma che i sikh sono degli ottimi cavalieri, capaci di sparare venti
volte in due ore: i francesi sanno fare lo stesso? I due rispondono che quando
vanno a cavallo adoperano la pistola e la sciabola e quando smontano sono
capaci di sparare trecento volte in due ore. Nel pomeriggio il maharaja chiede
ai ferenghi di dirigere uno o due dei loro battaglioni. E i ferenghi rispondono:
«Quello che i vostri battaglioni hanno imparato hanno imparato, sono come
degli scialli che una volta tessuti in un certo modo non possono essere
ritessuti. Se sua altezza ci farà l’onore di affidarci parte del suo esercito, noi
cominceremo con i nostri metodi fin dall’inizio e fino al completamento. Poi
faremo una parata o una simulazione di attacco e solo allora, se sua altezza
sarà soddisfatto, potrà fissare i nostri onorari».
Sugli “onorari” la partita si fa serrata, fino quasi alla rottura. I francesi
chiedono degli ingaggi molto alti, pagabili giorno per giorno, perché quello è
un paese dove può succedere di tutto da un’ora all’altra. Ranjit gioca al
ribasso, cerca di informarsi quanto venivano pagati da Napoleone e muove
tutti i suoi agenti, che sono una quantità inverosimile e piazzati in tutti i posti
a tutti i livelli, per avere prove certe che non siano spie degli inglesi. E
finalmente a maggio, due mesi dopo il loro arrivo, Ranjit si convince che
Allard e Ventura sono veramente due ufficiali francesi che hanno combattuto
a Waterloo contro gli inglesi e che li odiano. «Il maharaja ha informato i due
ufficiali francesi», dice un’altra nota di archivio, «che il battaglione dello
sceicco Basowan, composto da sikh e da poorbiahs, con moschetti ad
acciarino, deve essere messo a loro disposizione». Questo è solo l’inizio
perché i due soldati di ventura, e soprattutto Allard, sono entrati se non nella
fiducia, nel buon volere del leader dei sikh e la manterranno sino alla sua
morte. Nel frattempo Ranjit è chiaramente molto eccitato dalla nuova e
competente amicizia e fa con loro piani grandiosi: «Il maharaja dice ai suoi
nuovi comandanti di truppe che bisogna prendere prima Peshawar, e poi
Kabul e Kandahar. I nuovi comandanti rispondono che il maharaja ha molti
sirdar (comandanti) e tutti devono essere usati nel modo più appropriato».
Nel 1822 Ranjit ha 42 anni, è uno dei più potenti uomini dell’India e ha
tutte le caratteristiche del grande leader di uomini, compresa la capacità di
manovrarli. È orbo di un occhio, eccessivamente astuto, un bevitore suicida
perché ogni giorno ingoia una quantità inverosimile di alcool, mescolato con
oppio, succo di carne e polvere di perle, alle quali si attribuivano poteri
afrodisiaci. Veste sobriamente, non è il genere del nababbo agghindato con
sete e scialli, con pietre preziose miste a patacche che oscurano il petto di
molti. Preferisce che a ostentare il lusso siano le guardie del corpo, molto
vanitose, sempre ipervestite con preziosi abiti e cariche di orecchini d’oro. Le
ambizioni del maharaja non riguardano le vesti ma la politica e se ha rifiutato
il titolo di imperatore è perché non vuole allarmare gli inglesi già abbastanza
preoccupati delle sue continue conquiste. Ma si tradisce quando viene
rappresentato nelle miniature con l’alone di luce intorno alla testa, simbolo
della gloria imperiale cantata dal grande poeta persiano Firdusi e
scrupolosamente presente nei ritratti degli imperatori moghul eseguiti dagli
artisti del XVII secolo. Ha molte passioni: per le donne che non riesce a
soddisfare perché è diventato impotente, per i cavalli, per le pietre preziose,
in particolare per quelle che erano appartenute agli imperatori moghul.
Riuscirà a impadronirsi del Koh-i-nur, la montagna di luce, il diamante più
famoso e all’epoca più grande del mondo, con uno di quei raggiri che a
livello politico lo avevano fatto diventare maharaja del Punjab. Ma non c’è
nulla che eguagli l’immensa cura che dedica alla costruzione di un nuovo, più
moderno esercito, perché è il primo a rendersi conto che le possibilità non
tanto di crescere ancora, quanto di sopravvivere sono legate a un’armata che
possa competere con eventuali nemici che si avvalgono di una disciplina e di
una tecnologia superiori.
Prima di lui l’esercito dei sikh era costituito da bande predatorie di
cavalieri: non avendo né la forza né la capacità di sostenere battaglie campali
o comunque di tipo frontale, i sikh si erano specializzati nella guerriglia,
razziando villaggi e assaltando carovane, e avevano già una fama di truppe
poco disciplinate ma coraggiose. Si muovevano sempre a cavallo,
disprezzando chi andava a piedi, sempre pronti allo scontro e carichi di armi.
Nei ritratti che stanno al museo Guimet di Parigi si vedono dei vanitosissimi,
sgargianti e atletici comandanti che portano una sciabola per mano, altre due
infilate nella cintura, un fucile ad acciarino attaccato dietro la schiena e tre o
quattro quoits legate al turbante, una sorta di anelli taglienti che nelle loro
mani diventavano micidiali armi da lancio. Solo i nobili, i proprietari terrieri
potevano portare o potevano permettersi le cotte di maglia di ferro e i caschi
in acciaio, mentre gli zeloti poveri, un po’ straccioni, dall’altra parte della
scala sociale, s’infilavano in testa un turbante a cono che li faceva
assomigliare a dei maghi merlini. I nobili o proprietari terrieri, i ghorchurras,
avevano un’etica militare severa e consapevole paragonabile a quella dei
cavalieri teutonici, più sensibile ancora per quanto riguardava il coraggio
personale e l’obbligatorietà di una nobile condotta in battaglia. Vestivano in
maniera splendida, come dei cavalieri medievali europei che fossero passati
attraverso i colori dell’India, indaco, rosso cupo, giallo buddista e le
meravigliose sete e le stoffe del Kashmir. Uno dei loro capi, il raja Suchet
Singh, aitante e sprezzante, era sembrato al barone Hugel uscire dalla
macchina del tempo, come provenisse da tempi remoti, quando il fato degli
imperi stava in bilico sulla punta delle lance.
Tutto l’insieme era molto pittoresco per gli europei in visita, ma non solo
con queste truppe si poteva conquistare un impero. La riforma partì proprio
dalla fanteria che mancava. Ranjit si rivolse ad altre etnie, indù, afghani,
dogras, musulmani del Punjab e infine gli implacabili gurkha nepalesi, che
non avevano i pregiudizi dei sikh. E affidò ad Allard l’addestramento di due
reggimenti di corazzieri che ai visitatori sembravano cavalcare con grande
sicurezza ed eleganza, almeno nelle parate. L’insieme delle truppe comandate
dagli europei aveva il nome di “Francese Campo” ed era composto, oltre che
dai due reggimenti di cavalleria di Allard, anche da quattro battaglioni di
fanteria di Ventura e da una batteria di ventiquattro cannoni. Era stata proprio
l’artiglieria, creata dal nulla, ad aver reso straordinariamente pericoloso il suo
esercito. Con pochi cannoni comprati o trafugati agli inglesi, era riuscito a
moltiplicarli e anche a migliorarli mettendo a lavorare nelle fonderie gli
abilissimi artigiani indiani che in poco tempo erano riusciti a realizzare un
vasto parco di cannoni di differente calibro, uso e gettata: c’erano cannoni
trasportati da cavalli per il pronto intervento, altri, più pesanti, d’assedio
venivano attaccati a otto paia di buoi. Quelli più leggeri venivano montati su
cammelli, e smontati rapidamente. Il solito ufficiale inglese, inviato a Lahore
a spiare con qualche scusa, nel 1838 riferiva ammirato che durante le
esercitazioni l’artiglieria sikh si era rivelata eccellente nei tiri lunghi a 800 e
1200 metri. E i cannonieri servivano i pezzi con rapidità e precisione.
Tuttavia l’ammodernamento non aveva significato l’abolizione totale
dell’antico modo di combattere caratteristico dei sikh, e i ghorchurras
continuavano a lanciarsi in incursioni temerarie. Ma ora erano appoggiati
dalla fanteria e dall’artiglieria.
Gli inglesi, che hanno sempre avuto la tendenza a percepire le popolazioni
con cui entravano in contatto in termini di possibilità commerciali o militari,
apprezzavano enormemente il coraggio e le capacità guerresche dei sikh, che
dovevano vedere come una razza di guerrieri naturali. E le guerre anglo-sikh,
come le guerre anglo-afghane, rinforzarono i preconcetti. Così, quando la
Gran Bretagna si trovò a gestire un impero che copriva metà dell’orbe
terracqueo, in India cercò di favorire l’esprit de corps in modo talmente
eccessivo che, allo scoppio delle prima guerra mondiale, i sikh superavano il
35 per cento di tutta l’armata indiana chiamata alle armi. E i vecchi generali a
riposo ripetevano agli ufficiali nuovi arrivati ai tropici, incaricati di
controllare i sikh: «Ricordatevi di Chillianwala».
4.
Ancora prima che Allard e Ventura arrivassero a Lahore, Avitabile già era
riuscito a mettersi al servizio dello shah di Persia. Nel periodo peggiore della
sua vita, passando dallo Château d’If a un lazzaretto di Marsiglia, si era
ritrovato senza soldi, con prospettive di guadagno inesistenti, attorniato da
una folla di potenziali emigranti di mezza tacca dai quali cercava di tenersi
lontano. Tra le molte, inutili conoscenze, perché tutte troppo simili tra loro e
con gli stessi problemi, l’ex artigliere napoletano aveva fatto amicizia con un
ex capitano della Guardia Imperiale, un reparto ancora attorniato dal mito,
anche dopo Waterloo, quando nella campagna era echeggiato un grido mai
udito prima: La garde recule. Il capitano si chiamava Beraud ed era stato in
Persia, tornandone entusiasta. «Le sue abbaglianti descrizioni», dice il Cotton
nella sua biografia di Avitabile, «eccitarono talmente la fantasia del giovane
avventuriero, che egli stabilì di andare verso levante invece che verso ponente
per trovare una carriera e una fortuna».
Dopo avere tanto cercato l’indispensabile biografia di Cotton, non ho certo
l’animo non dico per criticarla, ma nemmeno per fare qualche rilievo che
possa danneggiare la sua credibilità. Mi sembra tuttavia che sulla Persia non
ne sapesse granché, perché lascia partire il suo eroe, senza avvisare i lettori
che può andarsi a cacciare in pasticci senza fine. Se rispettiamo la
separazione dei ruoli e delle funzioni tra autore e personaggi, Avitabile può
anche bere quello che gli racconta lo stangone con il colbacco, questo ex
ufficiale della Guardia che non ha saputo salvare il suo imperatore e che ha
problemi alla cervicale, dopo aver portato in testa per anni quel bidone
peloso. Mentre Cotton ha il dovere d’informare che sotto la dinastia dei
Qajar, in origine una tribù di seminomadi che nel 1794 aveva conquistato il
potere, sostituendosi ai Safavidi, l’autorità centrale del paese si era indebolita
ancora di più rispetto al passato, e ai gruppi tribali che da sempre
minacciavano una già fragilissima coesione – i kurdi, gli afghani, gli uzbeki, i
turcomanni – e all’impero ottomano che si era fatto esoso e prepotente in
maniera inversamente proporzionale alla sua decadenza come potere
mondiale, si erano aggiunte le nazioni europee, in particolare Russia e
Inghilterra, che stavano iniziando a baloccarsi con il Grande Gioco. Quando
Avitabile, che era passato per Costantinopoli in cerca di commendatizie,
arriva in Persia passando per Trebisonda, l’atmosfera politica è delle
peggiori, se c’è mai stato un momento in questo paese in cui se ne sono viste
di migliori. Lo shah regnante, un grassone di nome Fath Alì, abbastanza
degenerato per non smettere i suoi vizi, ma consapevole degli intrighi che
avrebbero seguito una sua morte improvvisa, aveva nominato a succedergli
uno dei figli, Abbas Mirza. La scelta era stata contestata dal maggiore,
Mohammed Alì Mirza, governatore di Kermanshah (Persia occidentale), che
aveva lasciato la corte pronunciando le abituali, nemmeno tanto oscure
minacce del legittimo diseredato.
La successione contestata aveva portato alla divisione del paese: l’erede
nominato rimaneva a Teheran, spalleggiato da un gruppetto di consiglieri e
militari inglesi, continuando a governare precariamente sulla maggior parte
del territorio. Mentre Mohammed Alì Mirza si era ritirato a Tabriz e tra i suoi
ufficiali c’erano numerosi francesi, e comunque non inglesi o antinglesi, ai
quali si andò ad aggiungere Avitabile. Anche per provare la validità di un
uomo di cui i militari francesi parlavano con un certo rispetto, sebbene lo
conoscessero pochissimo, all’ex artigliere dei Borbone furono affidati
incarichi minori di addestramento delle truppe. Poi, come per un’ispirazione,
al Mirza venne l’idea di mandare questo italiano affabile e di poche parole,
riservato e privo di millanteria e di vanità, a differenza dei francesi, a trattare
con gli intrattabili kurdi, per costringerli a combattere contro lo shah, opzione
che i tosti montanari non scartavano mai in linea di principio. Questo tuttavia
non era il compito primario di Avitabile. Il governatore si era convinto, come
saranno subito convinti numerosi altri dopo di lui, inglesi, persiani, indiani,
sikh, che il napoletano aveva una rara dote per risolvere le missioni
apparentemente impossibili. In questo caso fare pagare le tasse ai kurdi, che
non le avevano mai pagate da centinaia di anni, a memoria di generazioni.
Il rifiuto di farsi taglieggiare dal governo, diffuso in quasi tutti i paesi a
regime personale, nel Kurdistan persiano assumeva un aspetto che andava al
di là della più o meno grande esosità delle richieste. L’esercizio del potere
presupponeva certi diritti, tra i quali il più importante era quello di imporre le
tasse a tutti i sudditi che vivevano entro i confini del territorio controllato. Per
la stessa ragione i capi delle fazioni tribali o delle minoranze come i kurdi
non potevano permettere che i loro affiliati pagassero le tasse, altrimenti la
loro autorità e la capacità di mediare con il governo non avevano più senso. Il
risultato era che il principe ribelle era costretto a organizzare cene sontuose
per mostrare ai pezzenti di Tabriz di che sfarzo e di che lusso fosse capace –
un lato non minore del fare politica in Oriente. Poi succedeva che i soldati
non ricevevano la loro paga perché le casse dello stato risultavano vuote e
non era strano che i governanti fossero sempre in bilico tra l’omaggio
reverente dei congiunti e la pugnalata nel corridoio inferta dagli stessi. La
fama di Avitabile, the kind Avitabile come a volte lo chiameranno gli inglesi
senza un filo d’ironia, perché apprezzavano molto la sua gentilezza formale e
le buone maniere, è iniziata qui, nella splendida regione del nord-ovest della
Persia. Riuscì a fare quello che nessuno mai aveva fatto.
Non ci sono rimasti resoconti sulle sue missioni in un territorio così
difficile e ostile ai controlli, di qualsiasi tipo fossero, tuttavia non mi è
difficile immaginarlo mentre si muove per raggiungere i villaggi kurdi,
seguito da una poderosa scorta, attraverso un luogo straordinariamente carico
di magia: quella pianura ondulata che si estende intorno a una collina dai
pendii ripidi, un ex vulcano con il cratere invaso dalle acque di una sorgente,
come a Nervi, vicino a Roma. Quando raggiunsi la cima della collina,
chiamata Takht-é-Soleiman, il Trono di Salomone, un giugno di qualche
anno fa, dopo aver attraversato tutta la Persia settentrionale alla ricerca della
possente e meravigliosa architettura selgiuchide, non ho resistito e mi sono
immerso in quelle acque dove aveva nuotato – dicevano – Zoroastro. I
tentativi di far combaciare i miti alla realtà storica mi sono sempre sembrati,
più che ridicoli, non conseguenti alla stessa natura del mito e l’accanimento
degli accademici che scrivono tomi per dimostrare che qui Romolo faceva
merenda e laggiù Achille si allenava in palestra, assomiglia a una regressione
nell’infanzia. Non essendo dotati di qualità poetiche, non ce la fanno a volare
sopra le nubi, come facevano Robert Graves, Giorgio de Santillana e Hertha
von Dechend e restano a terra a incaponirsi su quei quattro sassi polverosi. A
me interessava unicamente la leggerezza del mito, la sua capacità di svegliare
la fantasia e, nuotando in quelle acque fredde e scure, ricordo che provai
come la sensazione di essere iniziato a un mistero, anche se non sapevo
assolutamente quale. E di partecipare a un altissimo privilegio, anche se
avevo letto che Zoroastro sarebbe nato da tutt’altra parte, nei territori più
aspri al confine con l’Afghanistan. Subito dopo, incontrammo un gruppo di
giovani kurdi, tra cui delle belle ragazze con il viso completamente scoperto e
con i vestiti coloratissimi, che ballavano e cantavano lungo la strada. Ci
mettemmo subito a ballare e a cantare con loro, trasformando questo incontro
in una piccola festa. Eravamo nelle loro terre e il senso di sollievo di uscire
da un paese meraviglioso per molte ragioni, ma in mano ai detestabili mullah
e di non vedere più quelle tetre, nere figure femminili ammantate dal chador,
fu fortissimo.
Non si può dire che per il periodo persiano della vita di Avitabile, che pure
è durato sei anni, Cotton abbia fatto delle ricerche approfondite. Dice solo
che «con un pugno d’uomini fu capace di ridurre le tribù ribelli della
frontiera, che a lungo avevano sfidato l’autorità dello shah. Per questi e altri
servigi ebbe in compenso il titolo di khan, il grado di colonnello e le
decorazioni dei Due Leoni e della Corona e del Leone e del Sole». Nei
diplomi che accompagnano questi ordini, Avitabile è chiamato «il fiore della
nobiltà italiana, pieno di valore e di magnanimità» e con un’espansività che
dovette sorprendere anche lui, qualificato come «Eletto della Cristianità». È
un riassunto troppo scarno per un tempo così lungo, e non cita nemmeno uno
di quei particolari che risollevano una pagina persa nella noia descrittiva. La
biografia tanto cercata mi stava deludendo, fortunatamente compensata da
The Adventurers che dovevo aver sfogliato, più che studiato, perché a
rileggerlo scoprivo che su Avitabile l’autore, Grey, non aveva pregiudizi, in
nessun senso. E ora metteva in chiaro che era stato qui «per la prima volta,
che Avitabile ha messo in pratica quel sistema misto di terrore, torture
inaudite, esecuzioni di massa, che applicato più tardi ai ruffiani di confine che
gravitavano intorno al Khyber Pass (che nei libri dell’Ottocento viene
chiamato Khaibar Pass) e a Peshawar, costrinsero i suoi amministrati a rigare
dritto. Questi metodi avevano tutta l’ammirazione dei sikh, che
disprezzavano la dubbia umanità di Ranjit Singh, un uomo senza scrupoli e
molto rude, ma che si fermava un attimo a pensare prima di dare la morte».
Secondo Grey il napoletano aveva perfettamente intuito la mentalità dei
“selvaggi” asiatici, che non solo dovevano essere governati attraverso la
coercizione e la paura, ma loro stessi si aspettavano un comportamento simile
da parte dei governanti e anzi lo giustificavano e lo apprezzavano. A
Peshawar il generale diventato governatore aveva sempre attorno a sé una
folta guardia del corpo che non lo lasciava mai un attimo, formata da parenti
di afghani e khyberiti fatti torturare e poi squartati o impiccati dal napoletano.
Questi gentiluomini avrebbero potuto ucciderlo in ogni momento, come è
successo in era contemporanea a Indira Gandhi. Invece non solo non
pensavano alla vendetta, ma salvarono il loro capo in più di una situazione
difficile. La stessa cosa accadde quando il reggimento sikh di Peshawar si
ammutinò e i tagliagole afghani, quelli perseguitati fino al giorno prima,
vennero convinti a passare dal ruolo dei fuorilegge a quello di chi fa
rispettare la legge. E guidati da Avitabile, in quello che è stato il suo colpo
d’ingegno più celebre e lodato, costrinsero i sikh a venire ai patti. In un passo
precedente Grey diceva che in Persia era talmente apprezzato che, quando
morì il suo datore di lavoro Mohammed Alì, così stolto da attaccare Baghdad
con tutti i nemici che già aveva all’interno del suo paese, Abbas Mirza lo
chiamò subito al suo servizio, proponendogli anche lui l’impresa impossibile:
far pagare le tasse ai kurdi.
Tutto sommato, fino a questo punto ne sappiamo ancora poco di Avitabile.
Ma la sua linea di condotta appare già definita, con caratteristiche che
chiamerei “alla corleonese” se mi è permesso un accostamento che può
sembrare troppo eccentrico o troppo remoto dal mondo indiano, ma che
invece dimostra come le leggi che governano i rapporti tra gli uomini sono
simili ovunque. I mafiosi corleonesi degli anni Ottanta che risultarono
vincenti su tutte le altre cosche della Sicilia misero sul campo una strategia
psicologica del terrore, accompagnata dalla inesorabilità e dalla ferocia delle
condanne. Non era una strategia del tutto nuova, ma Riina e amici la
portarono alle ultime e più spietate conseguenze. Chi si metteva contro era
condizionato già dall’inizio, perché i corleonesi erano talmente temuti che si
creava un clima a loro favorevole ancora prima di muoversi. Tra le storie che
ho sentito raccontare sul loro conto, a cominciare da quella del boia Pino
“Scarpuzzedda” che faceva a pezzi i prigionieri e poi li gettava nella famosa
vasca riempita di acido per dissolvere i corpi, a tutte le altre, una delle più
significative risale a molti anni fa, nel tempo in cui Totò Riina detto ’O Curto
e Provenzano erano due picciotti che lavoravano nell’azienda agricola di
Leggio detto Liggio, il più feroce uomo di mafia che ci sia mai stato e
capostipite dei corleonesi. I tre, il capo incontrastato, allora senza problemi di
salute, e i due suoi allievi preferiti, uccidevano a colpi di roncola il bestiame,
in una sorta di rito sacrificatorio in cui l’elemento principale era il sangue,
che schizzava da tutte le parti. E poi, con indosso ancora i vestiti macchiati,
portavano i quarti macellati così selvaggiamente al mercato di Palermo,
frequentato non da orsoline. Il loro arrivo con il camion da cui trabordavano i
quarti, le facce del terzetto, l’odore del sangue che si sentiva a distanza, tutto
faceva pensare a una messa in scena altamente teatrale, studiata per i loro
piani di dominio. Ma i lavoranti, gli scaricatori e i macellai provavano brividi
che erano reali.
Sembra che l’ex cannoniere dei Borbone riuscisse ad accontentare anche il
nuovo padrone. Ma a questo punto succede l’imprevisto assoluto, almeno
nella biografia: senza averci minimamente preparato, senza aver lasciato
cadere qualche avvertimento da raccogliere e da interpretare, il nostro Cotton
quasi di colpo ci mostra un lato della personalità di Avitabile che credevamo
inesistente. Il generale tiene nostalgia. Una mattina si sveglia e si mette a
pensare con struggimento a Chiaia, Marechiaro, Santa Lucia e aggiungiamoci
le pizzelle, il sartù, la pizza con la scarola, magari la cedrata – e bisognerebbe
informarsi da Fabrizio Mangoni, urbanista e storico dei dolci napoletani, se in
quel tempo erano già nati le sfogliatelle e il babà. E in poco tempo organizza
tutto per il ritorno.
Per la verità non sappiamo quale sia stata la vera ragione di una decisione
così imprevedibile. C’è il sospetto che la nostalgia sia solo un pretesto e che
il suo fiuto gli aveva suggerito di cambiare aria rapidamente. Ma se
veramente ’O Malommo teneva nostalgia, allora qui siamo in piena
sceneggiata napoletana, con chillu piezzo ’e merda che sarà pure quello che
sarà, ma tene ’o core scure scure perché pensa sempe a Napule, ca nun s’a
pò scurdà. Siamo a Santa Lucia luntana. E in effetti Avitabile ritorna a
Napoli, carico di doni per tutti e soprattutto per la corte e per la regina, alla
quale presenta un piccolo cofano d’oro che contiene il più fine degli scialli
kashmiri, probabilmente uno shah-tousc, la lana del re, tessuto con i peli del
rado vello di una capra antilope che si trova tra il Ladakh e il Tibet. Ma i doni
non servono a guarire dalla paralisi che immobilizzava una corte di vegliardi
destinata a sprofondare nelle sue meravigliose ville. E non si accorgono che
l’ex cannoniere, senza alcun dubbio un arrivista e della peggiore specie,
volgarissimo dietro le affettate urbanità, è proprio l’uomo che il destino ha
mandato loro per salvarli dalla catastrofe. Il generale, in apparenza, viene
accolto con tutti gli onori, anche qui gli viene messo al collo qualche nastro
con qualche insegna di ordine di San Gennaro o similia. Ma dopo due o tre
settimane si rende subito conto che quello che lui sperava, un incarico o
reincarico di prestigio a Napoli o altrove nel Sud dell’Italia, non trova
conferma nelle vaghe parole d’apprezzamento del sovrano e dei suoi ministri.
Se c’era uno stato in Italia che aveva bisogno dell’energia senza scrupoli di
Avitabile, delle sue conoscenze tecniche, della sua brutalità mascherata, di
qualcuno che sapesse respingere qualsivoglia attacco, di terra o di mare, da
parte di eserciti regolari e di guerriglieri, che fosse in grado di difendere
l’integrità dello stato sfruttando quelli che erano i suoi nemici, come farà a
Peshawar, questo era proprio lo stato napoletano. Ma il re e molti dei suoi
ministri non facevano onore alla fama di svelto intuito che si attribuisce,
insieme con innumerevoli altre qualità e difetti, ai napoletani, senza mai
considerarli per quelli che sono: simili a noi tutti. Inoltre erano troppo
provinciali e ignoranti per capire la possibilità che si offriva loro. Gli era
capitata una magnifica occasione e l’avevano mancata.
Nelle sue memorie il barone Carl von Hugel, che si diceva amico di
Metternich, e che fu uno dei grandi viaggiatori in Oriente nella prima metà
dell’Ottocento, per arrivare nel Kashmir aveva dovuto chiedere a Lahore
l’autorizzazione a Ranjit. Qui aveva incontrato Avitabile, che gli aveva
confessato di essere rimasto disgustato dell’ambiente napoletano e di essere
ritornato in Oriente, dove si era messo al servizio di un principe indipendente.
Il principe indipendente era naturalmente Ranjit. Cotton, che lesse ad
Agerola il diario tenuto dal generale, racconta che Avitabile aveva tra le sue
numerose, imprevedibili doti, che facevano di lui un essere inaffondabile e
pieno di risorse, quelle specifiche del magliaro (non usa la parola “magliaro”,
che gli era sconosciuta, ma il concetto è chiarissimo). Per pagarsi le spese del
lungo viaggio fino al Punjab in compagnia di Claude Auguste Court, un
tenente di fanteria reduce come quasi tutti dalle battaglie napoleoniche e un
ex allievo del Polytechnique (e futuro artefice dell’artiglieria sikh, seguendo
anche i consigli del suo amico napoletano), si portò dietro un bagaglio che
comprendeva, tra centinaia di cianfrusaglie, anche quadri e cartoline oscene,
carillon, orologi con musica, tabacchiere, che riuscì a vendere con notevole
profitto lungo la strada. Fu anche fortunato dall’essere stato preceduto, nelle
presentazioni al maharaja, da Allard e Ventura, che avevano faticato non
poco, come abbiamo visto, a superare le diffidenze del sospettosissimo
Ranjit. Nel 1826, quando Avitabile arriva a Kabul, allora parte dell’impero
dei sikh, non ha bisogno di farsi troppo avanti perché tutti conoscono le sue
gesta in Persia, riferite dai due francesi, e qualche mese più tardi a Lahore gli
viene subito affidata tutta l’artiglieria, con la sovrintendenza degli arsenali e
delle fonderie. Ma Ranjit, dopo averlo incontrato durante una di quelle
adunate di capi militari e di consiglieri che si tenevano nel cortile del suo
palazzo, ha la stessa intuizione del pretendente persiano e senza troppe
spiegazioni gli affida la provincia di Wazirabad. E qui abbiamo, da parte del
dottor Joseph Wolff, una delle prime testimonianze dirette dei suoi metodi.
Ex ebreo boemo e poliglotta, esperto teologo che trovava sempre difetti in
tutti i credi che di anno in anno cambiava come vestiti, Wolff aveva viaggiato
in lungo e in largo per ampliare la sua vasta scienza e per rendere ancora più
noiosi i racconti su tutto quello che non aveva ancora visto. Diceva anche di
avere l’abitudine di dire sempre la verità e in una regione come quella in cui
era finito, questo imperativo morale non si presentava come il miglior
metodo per vivere a lungo. Aveva conosciuto Avitabile ancora prima che
fosse nominato governatore di Peshawar, ma il ritratto che ne fa è ambientato
nella capitale dei patani, famosa da sempre per essere ingovernabile: «Aveva
migliorato la città per una notevole estensione. Egli teneva le vie pulite e
aveva un bel palazzo e una bella carrozza. (Cotton lo paragona
urbanisticamente al celebre barone Haussmann, che aveva cambiato il volto
di Parigi, distruggendo quasi tutta la parte medievale in funzione dei grandi
boulevard, dove sarebbe stato molto più difficile per il popolo in rivolta
formare barricate, come avevano fatto per un secolo). Egli era un uomo
assennato, allegro e pieno di buon umore. Egli disse una volta a Wolff
(l’autore parla in terza persona) che voleva mostrargli i suoi angeli custodi e
allora lo condusse nella camera da letto le cui pareti erano ricoperte di quadri
(osceni) di kunchnee o danzatrici. Egli e Wolff erano un giorno usciti a
passeggio trasportati da elefanti ed egli gli disse: “Ora vi mostrerò i segni
della civiltà che ho introdotto in questo paese”. Uscirono fuori le mura e
Wolff vide sei forche da cui penzolavano altrettanti malfattori… Benché
avesse ammassato una fortuna di cinquantamila sterline, il suo più vivo
desiderio era di tornare a Napoli. Diceva sempre: “Per amor di Dio, fatemi
partire da questo paese”».
Ranjit aveva conquistato Peshawar nel 1818, prima dell’arrivo dei
mercenari europei, quasi senza combattere perché il comandante afghano,
spaventato dalla furia con cui i sikh stavano devastando le province intorno,
era fuggito rapidamente senza preoccuparsi di lasciare intatti sugli spalti
quattordici grandi cannoni. E proprio per marcare la differenza con il
comportamento degli afghani e patani che avevano sempre saccheggiato le
città del Nord dell’India durante le loro periodiche incursioni, l’ordine del
maharaja, non si sa bene quanto rispettato, era stato quello di non toccare
cose e uomini. La proclamazione si era svolta facendo rullare i tamburi lungo
le strade e il giorno dopo Ranjit, con i suoi due fili di meravigliose perle che
portava annodate al collo e alla vita, in pace e in guerra, seduto sulla groppa
di un enorme elefante era andato in giro per il bazaar a dimostrare la propria
benevolenza. I patani avevano risposto nel tempo in modo non equivoco,
uccidendo una media di cento soldati sikh ogni anno, di solito pugnalandoli
mentre camminavano nel bazaar, per far capire al marahaja in quale conto
tenevano le sue proclamazioni. E la situazione era andata peggiorando fino a
quando non arrivò il napoletano.
Cotton dice che il racconto dell’arrivo di Avitabile a Peshawar glielo fece
il vecchissimo Vanacore, l’architetto del castello ad Agerola, che lo aveva
sentito direttamente dal generale: «Prima di muovermi verso Peshawar,
mandai avanti carri con un buon numero di pali di legno, che i miei uomini
piantarono in giro, intorno alle mura della città. Il popolo rise forte a questa
nuova pazzia del ferenghi e più forte ancora quando i miei uomini ritornarono
a deporre una corda sotto ogni palo. Fucili e sciabole, dicevano i patani
sottovoce, sono le armi per reggere una città, non mazze e funi. Ma quando
tutto fu in ordine un bel mattino si trovò che da quelle forche pendevano
cinquanta tra i peggiori soggetti di Peshawar e l’esposizione si rinnovò con
nuovi soggetti ogni giorno di mercato, finché ebbi tolto di mezzo briganti e
assassini. Successivamente fui costretto ad occuparmi dei bugiardi e degli
spioni. Il mio metodo era di tagliare loro la lingua e quando venne un santone
che proclamava che avrebbe fatto ricrescere la lingua a tutti, la feci tagliare
anche a lui. E così a Peshawar cominciò a regnare la pace».
Uno dei pochi a detestare il napoletano e i suoi metodi era Henry
Lawrence, che successe ad Avitabile quando i sikh si arresero agli inglesi.
Lawrence è stato il capostipite di quella élite del corpo coloniale,
immensamente energica, con una capacità di lavoro sovrumana, inattaccabile
dal caldo, dalle malattie, dai thugs, fortemente puritana, molto consapevole e
con un’aria di superiorità impossibile da nascondere, che di fatto creò e resse
l’impero inglese. Scrisse più volte che i metodi di Avitabile erano orribili e
inaccettabili e se qualcuno gli chiedeva di fare degli esempi, raccontava due
storie, tutt’e due vere. La prima riguardava una delle tecniche preferite dal
napoletano per sbarazzarsi dei condannati a morte: il famoso lancio dall’alto
del minareto della sua residenza, minareto privo di cuspide, che aveva fatto
abbattere per creare una piazzola, in modo da rendere più facile l’operazione.
Una volta due boia avevano gettato nel vuoto un poveretto, che per una
fortuna incredibile era finito contro una sporgenza immediatamente sotto la
piazzola e a questa si era aggrappato. Una volta di nuovo in piedi sul
cornicione e in una posizione dove non poteva essere raggiunto, si era messo
a gridare: «È Allah che non vuole farmi morire. Avitabile deve concedermi la
grazia». Terrorizzati per non aver eseguito la condanna e non osando saltare
sul cornicione anche loro, i boia avevano iniziato con il condannato una
conversazione di tipo beckettiano. «Allah ti ha salvato, ma Avitabile non
perdona», dicevano, e gli consigliavano di buttarsi di sotto prima dell’arrivo
del generale. La conversazione andò avanti per qualche tempo fino a quando
uno dei boia decise di andare a raccontare tutto al generale che stava nel suo
studio. Impassibile come sempre Avitabile fece venire carta e penna e firmò
una vistosa concessione di grazia. Poi la porse al boia dicendo: «Fategliela
vedere. Quando lo avrete di nuovo tra le mani, ributtatelo di sotto». I boia
eseguirono gli ordini.
Il secondo episodio è rimasto altrettanto famoso, e sempre con
connotazioni da teatro dell’assurdo. Lawrence l’aveva saputo da monsignor
Jacobi, arcivescovo cattolico di Lahore e “intimo”, secondo l’inglese, con il
governatore (in quell’intimo c’era tutto lo sprezzo del protestante fanatico
verso il degenerato prete cattolico). Uno dei principi della casa regnante di
Kabul era andato in visita ufficiale a Peshawar. Terminata la visita, la
delegazione era ripartita da un paio d’ore quando nel cortile del governatore
era riapparso uno degli uomini del seguito afghano per riprendere degli
oggetti che il suo signore e padrone aveva dimenticato. Ma appena entrato nel
cortile, non si sa bene se riconosciuto o preso per un altro, era stato subito
impiccato per essere entrato senza aver chiesto il permesso. Poi Avitabile
aveva mandato al principe il corpo del cortigiano, accompagnandolo con un
biglietto di scuse. Che sembrava un’ulteriore presa in giro, ma non lo era,
perché faceva parte essenziale della sua strategia. E la strategia era questa:
mai perdonare, in nessun caso, sotto nessun pretesto, a nessuno. Aveva anche
un motto, che diceva «per ogni crimine una testa» e il motto, tutti lo
sapevano, non aveva assolutamente nulla di metaforico. Avitabile
considerava la gente di montagna, lungo il confine con l’Afghanistan, come
della feccia che andava eliminata non importa con quale metodo. E per
raggiungere risultati migliori arrivò a stipulare con un khan locale un
contratto, con il quale il khan s’impegnava a presentargli annualmente
cinquanta teste di afridi, come prova della sua buona volontà a eseguire le
direttive di Ranjit, filtrate dal metodo di Avitabile. Dice Cotton che molti
anni più tardi il vecchio khan si divertiva a raccontare come avesse qualche
volta imbrogliato il napoletano, presentandogli le teste imbalsamate degli
anni precedenti o adoperando qualche altro trucco. Gli unici casi in cui
interveniva per salvare una vita, ma non da lui condannata, erano quando
qualche graziosa vedova, destinata a essere bruciata insieme con il defunto, si
rivolgeva a lui, cercando di impietosirlo. Naturalmente la sua destinazione,
una volta liberata, era l’harem già cospicuo del governatore.
Le alternative alle impiccagioni e ai voli dai minareti erano numerose,
anche se non così inventive come ci si sarebbe aspettati da un napoletano. Un
certo Mackinnon, un ironico funzionario scozzese, nauseato da tutta questa
carneficina, ha descritto l’area esterna alle mura di una città, che deve essere
già Peshawar, come il luogo più abominevole che avesse mai visto, dove
arrivavano tutti gli avvoltoi della provincia, attirati dalla quantità di carne
umana che penzolava dagli alberi e che mandava un fetore insopportabile. Gli
uccellacci non si azzuffavano nemmeno tra loro, perché ognuno aveva a
disposizione un lauto pasto, e si fermavano in questo atroce beccottare solo
per emettere rauchi, sinistri richiami, che secondo lo scozzese volevano dire:
«Lunga vita e prosperità al generale Avitabile». Era stato ripristinato uno dei
più feroci e crudeli metodi di uccidere che mente umana abbia mai inventato,
insieme con il palo che, infilato nell’ano, entrava nel corpo del condannato
cercando di non forare gli organi vitali, per allungare i tempi della tortura. Si
trattava di scuoiare la vittima da viva, partendo dalle piante dei piedi e
salendo per le gambe, le braccia, fino a quando il disgraziato non crepava, tra
atroci dolori.
Si dava per scontato nell’Oriente che per far pagare le tasse ai sudditi più
negligenti fosse ammesso l’uso di mezzi impropri, come la tortura. Ma da
allusioni e anche da dichiarazioni di quasi tutti quelli che lo hanno
conosciuto, appare chiaro che Avitabile non applicava il cavalletto e non
tagliava nasi e orecchie per la ragione di stato, ma per estorcere denaro a fini
personali. Aveva organizzato una casa-bottega nella sua residenza di
Gorkhatri, e durante i pranzi, possibilmente tra una portata e l’altra, si alzava
scusandosi – «ragioni di servizio» – e andava nella sala vicina dove
torturavano qualcuno. Poi, dopo qualche minuto, tornava alle pietanze. Una
bella, crudele scena di tenaglie roventi che strappavano carne umana gli
faceva l’effetto del sorbetto di limone, usato per digerire nelle interminabili
cene di una volta. La tortura più orribile, detta il “mazzo di asparagi”, era
collettiva come indica lo stesso soprannome, veniva applicata spesso e
vantava un’alta percentuale di risultati. Quattro, cinque, anche sei poveretti
erano legati insieme con una grossa corda, poi gli costruivano intorno un
muro che si faceva sempre più alto e più stretto, fino a quando i primi non
cominciavano a svenire e poi a morire. Con quel caldo che d’estate faceva a
Peshawar i corpi imputridivano subito e per chi resisteva e rimaneva dentro,
non doveva essere una villeggiatura. Ma Avitabile non si lasciava
commuovere e, se non pagavano, nessuno li andava a tirare fuori da quel
calvario. La differenza tra lui e il suo datore di lavoro Ranjit Singh, dice
Grey, era che il napoletano preferiva la forza diretta, la tortura, l’esecuzione
immediata e multipla, mentre il maharaja praticava meglio l’inganno, il
tradimento, la pugnalata alle spalle, la trappola e usava la forza solo se questi
altri metodi fallivano. Non fate caso a queste differenze di principio, perché i
due erano fatti per intendersi.
Cotton non nasconde nulla delle malefatte del generale, solamente in molti
casi non le considera tali o dice che si sono rese necessarie. E comunque la
spiegazione che dà delle cause non esce dal luogo comune della eccitabilità
italiana, del ribollire del sangue latino che induce agli estremi, che non
considera, che prima agisce e poi pensa. Solo dopo essere andato ad Agerola
e aver letto la sua corrispondenza con parenti e familiari, anche a lui la tesi
del sangre caliente non lo convince più e arriva a scoprire quello che tutti in
Italia sanno: «Il suo cuore batte poco», spiega, «fuorché per la sua casa e per
il suo denaro». Un secolo più tardi chiameranno questo comportamento di
molti meridionali italiani “familismo amorale”, una delle rare definizioni
sociologiche che non ha bisogno di altre spiegazioni. Così, dopo la nostalgia,
’O Malommo tiene pure il familismo amorale. E io che lo pensavo un tipo
così internazionale...
5.
Nel 1843 Avitable decise di andar via non solo da Peshawar, ma dall’India.
Era rimasto quasi vent’anni ai tropici, era diventato famoso, “tristemente”
famoso – avrebbe aggiunto Lawrence, l’inglese che lo sostituì nella città
ritornata quella di prima – riuscendo non solo ad ammassare una fortuna, ma
anche a mantenerla intatta e ad aumentarla per volontà e non per caso, mentre
quasi tutti gli altri europei avevano sperperato i loro guadagni imitando il
treno lussuoso di vita dei maharaja. Tra le numerose sue doti si era trovato
anche un’anima da ragioniere-finanziere ed era riuscito, dopo aver messo al
sicuro per anni nelle banche di Calcutta o di Bombay molto di quello che
guadagnava e tutto quello che estorceva, a investire nella Compagnia delle
Indie e comunque in Occidente. Quando lasciò la sua ultima residenza a
Lahore, gli indiani commentarono che nella magione non aveva lasciato
nulla: l’aveva spolpata, come gli avvoltoi con le carcasse dei suoi condannati.
Aveva capito da molti anni che l’impero sikh non avrebbe sopportato il
trauma della morte di Ranjit. Lo stato aveva appena messo le radici e senza
l’astuzia e la personalità del nano orbo, senza la sua straordinaria capacità di
dosare la distribuzione del potere in una società come quella indiana,
multietnica e con una forte tendenza a lasciarsi andare all’effetto centrifugo,
era abbastanza certo che le rivalità personali avrebbero agito da
moltiplicatore, mandando all’aria il nascente e ancora debole nazionalismo.
Anche per una tigre, come lo vedevano gli afghani e i patani, veniva il
momento di ritirarsi nel più profondo canneto della giungla a tirare le cuoia.
Avitabile, naturalmente, non solo non era il tipo di apprezzare le metafore,
ma aveva tutte le intenzioni di ricominciare una nuova vita in Italia, di
sposarsi con una bella “guagliona”, di avere dei figli, di rifarsi di tutti quegli
anni passati in un Oriente che oramai detestava e che lui aveva contribuito
più di molti altri a rendere detestabile. Se si voleva scordare di Peshawar, si
poteva essere sicuri che Peshawar non si sarebbe scordata di lui, di Abu
Tabela. Intanto, come primo passo, si era trasferito a Lahore, dove abitava a
Dudhka-Awa, che non era solo una magnifica residenza, vicino ai famosi
giardini moghul di Shalimar, ma anche il luogo d’incontro di cospiratori
vecchi e nuovi contro ogni regime. Quando uccisero il successore di Ranjit,
Avitabile si espresse con una terminologia che avrebbe potuto adoperare De
Gaulle: «Questa è diventata una nazione sans foi, sans loi e sans roi».
Tutti i capi sikh, anche di opposte fazioni, avevano tentato invano di farlo
rimanere, onorandolo con gli attributi e i titoli più altisonanti come Aminulla
Dowllah, Dilawar Jung Bahadur, Amanat Pena, Kerkaa ben Safa e sperando
ognuno di accaparrarselo. Non so assolutamente cosa questi titoli
significhino, comunque da quelle parti venivano molto considerati. Ma
Avitabile aveva deciso, e uno dei problemi della partenza ero lo scioglimento
dell’harem e di cosa fare delle numerose danzatrici, compagne, amanti,
prostitute che facevano parte del suo circo personale. Se la saranno
sicuramente cavata, almeno quelle più giovani e sembra che il napoletano sia
stato abbastanza generoso con loro. In uno dei suoi innumerevoli diari,
Lawrence (sempre, qui e altrove, il suo successore a Peshawar) ha raccontato
la vicenda di una bambina avuta da una bellissima ragazza patana, che aveva
tirato su come un principessa, immaginando forse di darla in moglie a
qualche nobile locale. Alla fine non era riuscito a trovare nulla di meglio di
uno dei suoi giovani cuochi: li fece sposare, regalando alla ragazza una ricca
dote che era così aumentata nei racconti del vicinato da richiamare
l’attenzione di un capobanda, mascherato da funzionario governativo, che
tolse tutto ai due ragazzi lasciandoli in miseria. Questo funzionario, per una
di quelle coincidenze di cui sono stanco di ricordare l’importanza e di
vederne la presenza, era quel pundit che Alexander Gardiner venne costretto
a torturare e a tagliargli naso e orecchie.
Negli addii il governatore generale, che stava anche lui a Simla, si
comportò con estrema freddezza: questo napoletano aveva fatto il lavoro
sporco per loro, e non c’era bisogno di stringere troppo le sue mani. Ma a
Calcutta, prima di imbarcarsi per Napoli, ci furono ricevimenti e
ringraziamenti, anche se molti, quelli che non lo conoscevano, lo guardavano
intensamente come per scoprire sul suo viso le atrocità di cui si diceva fosse
stato capace, creando un certo imbarazzo. E sembravano tutti sul punto di
chiedere qualche cosa, di fare domande probabilmente indiscrete, che poi non
facevano. A Napoli l’accoglienza fu buona, ma non trionfale. Re Bomba gli
regalò la solita tabacchiera con il suo profilo non edificante e Avitabile sparse
davanti al trono meravigliosi scialli, stoffe introvabili in Europa, rubini,
diamanti e due moretti (due ragazzini indiani, non due moretti di ceramica di
Bassano) che rimasero a corte per qualche tempo, finendo poi nel collegio dei
missionari cinesi di Capodimonte.
Il vero trionfo fu a Parigi e a Londra, dove Avitabile si era subito diretto,
dopo una breve ispezione ad Agerola. In Francia, alla rimozione di tutto
quello che aveva riguardato l’impero era seguita, inevitabile, l’ondata di
ritorno, molto più alta e imponente di quanto ci si aspettasse. E l’arrivo da
Sant’Elena della salma di Napoleone aveva riportato il paese,
emozionatissimo e quasi in lacrime, alle glorie immense, quando gli inglesi
non erano ancora così arroganti e la Francia il primo paese del mondo. E le
avventurose ed esotiche vite successive dei napoleonidi, come Allard,
raccontate dai protagonisti, si vendevano per le strade con il successo
editoriale che solo Parigi poteva dare, allora. Un ritratto in prosa del
napoletano apparve nel Livre des Célebrités Contemporaines, e il re Luigi
Filippo, oltre a due bei vasi di Sèvres, che nell’Ottocento non si negavano a
nessuno, gli infilò al bavero, insieme con i suoi compagnons de route, des
aventures et de bataille, i vecchi ragazzi Ventura, Allard e Court, il nastrino
di cavaliere della Légion d’Honneur.
A Londra non sapevano nulla o quasi delle torture, dei voli a petto
d’angelo dai minareti e del resto. Si ricordavano benissimo, invece, che
Avitabile si era dimostrato insostituibile nell’aiutare le truppe di Sua Maestà
nel momento più nero in Asia, dopo la ritirata da Kabul. Venne introdotto da
Palmerston e da quasi tutti gli eminenti vittoriani e ricevuto, come ho già
detto, dal duca che parlava solo con Dio. Ma il momento più alto arrivò con
un sontuoso banchetto all’East India House, come solo gli inglesi
dell’Ottocento sapevano preparare su giganteschi tavoli di mogano, con tutte
le argenterie lucidate a specchio, mentre qualche decina di camerieri
servivano del claret, del borgogna e, verso la fine, del porto e del marsala.
Gli invitati erano trecento, e nel momento conclusivo del banchetto cantarono
in coro and he is a jolly good fellow... Poi comparve in sala un maggiordomo
che portava sopra un cuscino di velluto rosso la Spada dell’Onore, pesante e
inutilizzabile, ma valutata trecento ghinee, perché era incrostata di pietre
preziose.
Rientrato dopo qualche mese a Napoli, cominciò a dare una strategia al suo
desiderio di riposo, deciso di godersela per il resto della sua vita. Si fece
costruire una villetta a Portici, o forse la comprò, e un edificio molto più
grande tra Castellammare e Gragnano, una mansion, un po’ palazzo un po’
villa, a imitazione – dice Grey – di Dugald Dalgetty, il primo e il più famoso
dei “nabab” anglo-indiani che dopo una vita avventurosa si ritirarono nelle
campagne inglesi diventate opulente con le ricchezze dei traffici con
l’Oriente. Questo Dalgetty, che aveva anche una residenza vicino a Napoli,
morto nel 1820 a settantacinque anni, era partito come marinaio ed era
riuscito a diventare generale presso le armate moghul, dopo aver accumulato
una inverosimile fortuna. La villa di Castellammare doveva essere simile a
quella del nabab e riempita anche di oggetti che il generale si era portato
dietro dai tempi dell’Iran, con pavimenti a mosaico. E a mosaico si era fatto
fare anche un ritratto a grandezza naturale, al centro del pavimento del
salotto, dove appariva in tutto il suo splendore di generale in alta uniforme, a
cavallo di un bianco purosangue arabo. Si può facilmente immaginare che un
tipo con la fama di Avitabile, con il suo seguito esotico, quale continuo,
allarmato pettegolezzo suscitasse. E quasi subito si cominciò a mormorare
che Avitabile teneva nascosto un harem con tutte le sue donne, che visitava
notte e giorno e dove si facevano orge “orientali”. Anche se non si capiva
bene con chi e tra chi questi festini si svolgessero, l’aggettivo orientale faceva
supporre il massimo della licenziosità e rispetto all’indignazione delle
beghine e del vescovo, c’erano molti che avrebbero voluto essere al posto del
generale.
In questi casi di scontro tra il potere religioso e qualsiasi altro potere, che
non coinvolga chi sta attualmente al comando, quando si teme che la decenza
e il buon costume, definizioni ipocrite quante altre mai, siano in pericolo, in
Italia ha sempre vinto il potere religioso. Così Avitabile, costretto ad
allontanarsi da Napoli anche su sollecitazione della corte, alla fine scelse di
installarsi definitivamente nel paese dov’era nato e che doveva trovare meno
affascinante della costa. Altrimenti fin dall’inizio avrebbe cominciato a
costruire qui quell’ibrido tra un castello e una fortezza, che cominciò invece
con ritardo e che abitava in parte, perché non era finito, quando morì. Nel
frattempo si era sposato.
La descrizione che Cotton ci ha lasciato della moglie si risolve in una
negazione. Non era una bellezza. Grey aggiunge qualche notizia in più, e
parla di una giovane pienotta – o grassottella – contadina di diciannove anni,
figlia di un fratello. La ricchezza del generale era qualcosa di talmente
spropositato rispetto alla povertà della campagna napoletana che non ci si
poteva permettere che uscisse dai confini della famiglia. Così venne
sacrificata una ragazza che era già fidanzata e che dunque fin dall’inizio
aveva dei motivi di rancore verso il futuro marito. In questo matrimonio di
convenienza la manovra, che aveva bisogno della dispensa del vescovo,
doveva essere stata condotta dal padre della martire, che come gli altri
Avitabile non era ricco, ma qualche risparmio lo doveva avere, il genere di
persona che ha come motto “i soldi non bastano mai”. Non si hanno notizie di
preliminari, di incontri tra i due, e non si sa assolutamente nulla di quello che
ne pensava il diretto interessato, il generale Paolo Avitabile, già
ultracinquantenne, ma ancora in ottima salute. In quei suoi ultimi giorni lui
sembrava interessato quasi unicamente a finire il suo castello con vista e
andava spesso a passarci la notte, anche se il riscaldamento non esisteva, i
camini nemmeno e bisognava accendere un braciere con il carbone. Uno dei
modi migliori per un decesso indolore.
Infatti si tentò di far passare la sua morte per asfissia e i medici ben pagati
arrivarono a certificare le cause naturali. Ma tutti in paese sapevano che era
stato avvelenato dalla moglie, con l’aiuto dell’amante, un bel giovanotto
meridionale, leguleio o persino avvocato, che non si era opposto al
matrimonio, perché anche lui seguiva il rigido codice d’onore de “i soldi non
bastano mai”. Sembra che vaghi sospetti della tresca avessero raggiunto le
orecchie del generale che si era espresso laconicamente: «Se li trovo insieme,
li abbatto a fucilate come piccioni». Le sue ultime ore sono così raccontate da
Cotton che aveva parlato con un testimone importante, Gennaro Lauretano, il
farmacista locale: «La sera precedente aveva partecipato a una cena della
settimana pasquale, occasione in cui si mangia quasi sempre dell’agnello
arrostito (ma non si capisce se in famiglia o presso amici). Il mattino
successivo doveva svegliarsi presto, alle cinque, per andare a Napoli con un
suo uomo di fiducia Gennaro Lauretano, il farmacista di Agerola. Voleva fare
autenticare la sua firma da un notaio, in modo che Lauretano potesse
riscuotere e fare altre operazioni finanziarie a suo nome. Ma alle sei ancora
nessuno lo aveva visto e il farmacista, preoccupato, andò al castello, dove il
generale dormiva in uno dei due piani previsti. Non c’era in giro una candela
accesa e quando entrò nella stanza da letto del generale, trovò che era invasa
da un fumo che mandava un acre puzzo e che proveniva da un grosso
braciere posto in un angolo. Avitabile rantolava disteso ancora sul letto. “Mi
hanno avvelenato”, riuscì a mormorare. “Salvami e ti farò vedere chi è
Avitabile”».
Rimase in vita fino alle due del pomeriggio, continuando a ripetere che lo
avevano avvelenato. Quando morì nella stanza c’era il prete, il farmacista e
nessun altro. La moglie era rimasta a Castellammare, gli operai a casa per le
vacanze di Pasqua e il servo, che aveva preparato la cena, era fuggito.
Qualcuno disse di averlo visto mentre faceva involti con le cose più preziose
del castello, che poi aveva trasportato non si sa dove. A leggere le cronache
locali, sembra che si sia fatto di tutto per non trovare il colpevole: il servo, il
più probabile indiziato, venne brevemente interrogato senza accusarlo di
nulla e anche due operai furono arrestati per pochi giorni e poi liberati. Non
ci fu una vera e propria inchiesta e i medici che dovevano fare l’autopsia, per
conservare il corpo qualche giorno di più, lo riempirono di arsenico e
l’autopsia a quel punto non sarebbe servita a scoprire le cause della morte. Al
funerale i paesani si accorsero che i parenti, in particolare i “cugini” del
generale erano diventati molto più numerosi. Tutti speravano di avere anche
una minima parte dell’immenso tesoro che si favoleggiava, ma l’eredità si
trasformò quasi subito in una gigantesca lite e l’oro che per anni Avitabile
aveva estorto con le torture a chiunque gli fosse capitato tra le mani, finì per
la maggior parte nelle tasche degli avvocati.
Qualche tempo fa mi sono lasciato andare a una battuta di quelle che ti inseguono, fino a quando non
si stampano dietro la schiena, in maniera indelebile, come un marchio di identificazione da mostrare in
ogni circostanza. La battuta era: «Non sono un vero viaggiatore, mi sento piuttosto un bibliotecario in
trasferta», per spiegare che quando viaggio mi piace prepararmi, leggere tutto quello che posso trovare
su usi e costumi di un certo numero di paesi, e non presentarmi solo con le maracas, davanti alla
dogana. Da allora la prima domanda di qualsivoglia intervista comincia sempre dai libri: «Tutte queste
letture non rischiano di appesantire ecc.» Oppure: «È vero che viaggia sempre al seguito di un baule di
libri?». Mi corre l’obbligo, quindi, di non disattendere le aspettative di alcuni gentili amici e di fornire
una pregiata, anche se ristretta bibliografia. Perché c’è sempre qualcuno che pensa che certi personaggi
non possono che essere inventati.
Della biografia su Paolo Avitabile di Cotton ampiamente citata nel libro esiste una traduzione
italiana di G. de Giorgio e prefazione (inutile) di Vittorio Spinazzola, stampata a Napoli nel 1907 da
Angelo Trani. Il miglior testo su Avitabile e su tutti quei personaggi che arrivarono nel Punjab tra la
fine del Settecento e la seconda metà dell’Ottocento, rimane tuttavia Adventurers of Northern India di
C. Grey (Lahore, 1929). Sempre utili, ma da prendere con una certa cautela, sono le testimonianze di
viaggiatori e visitatori europei, come la Correspondance di Victor Jacquemont (Paris, 1869); Travels
and Adventures di Joseph Wolff; Travels in Kashmir and the Punjab di G.T. de Vigne e numerosi altri
ancora. Alcuni sanno cogliere il personaggio o l’atmosfera del momento, e gli schizzi vanno benissimo,
ma pochi conoscono i retroscena delle vicende indiane e perciò si sbagliano spesso. Fondamentale è
When Men and Mountains Meet di John Keay che racconta la storia delle esplorazioni dell’Himalaya
occidentale nei primi decenni dell’Ottocento, e Avitabile compare due o tre volte.
La Storia del reame di Napoli di Pietro Colletta è stata ristampata da Grimaldi e C. Editori, mentre
un classico di don Benedetto (Croce), La rivoluzione napoletana del ’99 si trova facilmente
nell’edizione Bibliopolis. Sempre molto divertente, circostanziata e documentata è la Storia dei
Borbone di Napoli di Harold Acton, fierissimo e brillante reazionario (Aldo Martello Editore, Napoli,
1968). Una gran lettura è il famoso Corricolo di Alexandre Dumas, ripubblicato da Colonnese. Per
Napoleone e Waterloo ognuno scelga i libri che vuole. Ma non si può non leggere Anatomia della
battaglia, di John Keegan.
Il catalogo della mostra tenuta a Londra nel 1999 al Victoria and Albert Museum sulla cultura e sulla
storia dei sikh è splendido (e riporta, fra l’altro, la celebre fotografia in tartan di Alexander Gardiner).
Discreta, anche se vecchia di oltre 150 anni è A History of the Sikhs di J.D. Cunningham (London,
1849) e la stessa cosa si può dire di un’altra vetusta pubblicazione, Sikhs and Afghans – prima e dopo la
morte di Ranjit Singh – di Shahamat Ali (London, 1849). Fatta piuttosto bene è la biografia di Ranjit di
Khushwant Singh (George Allen, 1962). Molto accademica è l’India della New Cambridge History,
con sottotitolo The Sikhs of the Punjab di J.S. Grewal. Per sapere qualcosa sulla battaglia di
Chillianwala, provate a cercare su Internet una ricostruzione del maggiore pachistano Agha Humayun
Amin.
Anche Settling the Frontier, un testo sulla Peshawar Valley dal 1500 al 1900, di Robert Nichols
(Karachi, 2001) è accademico e poco appassionante. Se volete qualcosa che sappia di kaki e di
classicità coloniale, andate alla ricerca de The First Afghan War di Henry Durand (London, 1879), uno
dei prototipi vittoriani dell’eroe, sebbene uno o due grandini più sotto l’inarrivabile Gordon.
Sull’India è obbligatorio leggere il vecchio, ma ancora magnifico The Lion River di Jean Fairley
(Bookclub Edition, 1975). Molto buona anche la Storia dell’India di John Keay, tradotta in italiano
dalla Newton e Compton. Seguono Storia dell’India di Michelguglielmo Torri (Laterza, 2000) e
History of India di Percival Spear, in due volumetti della Penguin. Indispensabile per tutto quello che
riguarda l’impero britannico e scritto in maniera splendida è il trittico di James, oggi signora Morris (ha
cambiato sesso), pubblicato dalla Penguin.
Sui kurdi esiste una Modern History di David McDowall (New York, 1996).
Su Garibaldi vi prego di rileggere quel capolavoro assoluto che è Garibaldi and the Thousand di
G.M. Trevelyan. Per i dati e la disposizione sul campo a Calatafimi è indispensabile il volumone
Einaudi di Piero Pieri sulla Storia militare del Risorgimento.
«Sparate» sta dicendo il generale Paolo Avitabile agli artiglieri sikh, in questo
disegno che sembra una caricatura. Nella prima metà dell’Ottocento in India, in
una località chiamata Chillianwala, gli inglesi che andarono all’attacco delle
postazioni dei sikh solo con le baionette, in un gesto di «bravado», furono fatti a
pezzi nella più grande sconfitta subita dall’impero britannico nelle colonie.
Terminata a Waterloo l’epopea napoleonica, con il grido mai udito prima: «La
guarde recule», furono numerosi gli ufficiali bonapartisti costretti a emigrare in
attesa di tempi migliori o che lasciarono volontariamente l’Europa, dirigendosi
verso Oriente, dove le loro capacità venivano molto apprezzate. Uno dei primi e
dei più noti tra loro si chiamava Jean Baptiste Allard e aveva combattuto tra i
corazzieri. Qui lo vediamo en famille, naturalmente indiana, in un momento di
riposo. È stato Allard il primo a essere assunto da Ranjit Singh, il creatore
dell’impero dei sikh, insieme con Jean Baptiste Ventura, un aristocratico italiano
naturalizzato francese, e ad aprire la strada per Lahore ad Avitabile. Da notare i
preziosi scialli di pashmina con cui si avvolgono le donne sikh. Sullo sfondo la
villa-palazzo del franco-italiano, circondata da giardini stile moghul.
All’inizio della sua carriera di fondatore di un impero, Ranjit Singh disponeva di
un parco artiglieria ridotto e antiquato. Ma in pochi anni, facendosi regalare due o
tre cannoni dagli inglesi, chiamando nelle fonderie i migliori artigiani dell’India e
servendosi dei consigli degli ufficiali europei, riuscì a produrre cannoni di bronzo
come questi, che sparavano con letale precisione, come si accorsero le truppe
britanniche.
Ranjit Singh, il maharaja del Punjab, si faceva ritrarre solo di profilo perché aveva
perso un occhio. Erano almeno una cinquantina gli ufficiali europei che Ranjit
assunse in funzione di comando, ma anche come addestratori del suo esercito.
Aveva capito con molto anticipo sugli altri leader indiani che il vero pericolo
veniva non dalle guerre interne ma dagli inglesi. E un esercito efficiente faceva la
differenza tra l’indipendenza e l’essere colonizzati. Morì ancora relativamente
giovane nel 1839, probabilmente per l’abuso dell’alcool che beveva in dosi
inimmaginabili, mescolato a droghe e perle vere schiacciate e polverizzate.
Insieme a lui vennero cremate quattro mogli e sette ragazze schiave.
Ranjit Singh ritratto mentre tiene un durbar, una riunione in cui si prendevano le
decisioni politiche più importanti, insieme con i parenti e i capi dell’esercito.
Avitabile, Allard e Ventura di solito partecipavano ai durbar, senza avere il diritto
di sedersi. Qui l’acconciatura del maharaja del Punjab è particolarmente ricca, con
le abituali collane di perle con cui amava avvolgersi anche quando andava in
guerra. Altrimenti vestiva in maniera sobria. Era un ottimo conoscitore di caratteri
e fu lui a nominare Avitabile governatore di Peshawar.
Henry Lawrence è stato il capostipite di quella élite del corpo coloniale britannico
immensamente energica, inattaccabile da malanni di qualsiasi genere, fortemente
puritana che ha creato e retto di fatto l’impero inglese. È stato il primo successore
britannico di Avitabile a Peshawar – “residenti” venivano chiamati, con molta più
ipocrisia che understatement – e anche il più acceso critico dei metodi brutali di
Avitabile.
Si capisce subito, guardando l’alto funzionario inglese seduto sulla poltrona con
l’aria tranquilla del padrone di casa, chi ha vinto e chi ha perso nella trattativa tra
inglesi e sikh sul futuro del Punjab. Ranjit è morto da sette anni e l’impero da lui
fondato si sta sgretolando.
Tra le cinque o sei grandi città dell’India, oggi Lahore è probabilmente la meno
importante. Ma la sua conquista da parte di Ranjit Singh nei primi anni
dell’Ottocento fece di questo capoguerriglia il leader incontrastato del Punjab. Il
maharaja la riorganizzò amministrativamente, ma sono stati i moghul a farne una
capitale, insieme ad Agra e Delhi, costruendo le mura, le fortificazioni, le porte
monumentali, le moschee, i famosi giardini.
Sulla tomba di questo straordinario personaggio che è stato Alexander Gardiner
bisognerebbe mettere una scritta simile a quella che stava ai piedi di un kouros
(statua arcaica greca) dalla provenienza e dall’autenticità incerte, sistemato in una
sala del Paul Getty Museum di Malibù, e che diceva: «VII secolo a.C. o XX
secolo». Di Gardiner si potrebbe dire: «Il più grande viaggiatore dell’Asia nel XIX
secolo o il più grande bugiardo. O tutt’e due le cose». La piuma che attraversa il
turbante scozzese è di airone e sta a significare che Gardiner, detto “fucile
mitragliatore” e per molti anni a capo di una banda di tagliagole afghani, aveva
combattuto sotto le insegne di Ranjit. Almeno questa attività è certificata.