Download as pdf
Download as pdf
You are on page 1of 146
Kamo no Chomei _Ricordi di un eremo a cura di Francesca Fraccaro Letteratura universale Marsilio Capolavoro della letteratura del romitaggio, Ricordi di un eremo (Hojoki, 1212) narra della vita in ritiro di Chomei, dopo aver preso i voti col nome di Ren’in. Sorta di ideale «autobiografia», queste pagine non si fermano ai ricordi personali dell’autore, ma riescono a sintetizzare la complessa temperie culturale del momento, fase di transizione dal periodo Heian, domi- nato dalla vecchia societa aristocratica, a quello Kamakura, contrassegnato dal potere dei militari. La realta di un’epoca di convivenza e scontro tra valori vecchi e nuovi (l'urbanita cortese del passato, le aspirazioni religiose destinate a caratterizzare la cultura medievale) trova infatti riflesso nelle contrastanti visioni del testo, in cui si esprime il senso della fine di un mondo attraverso la rappresentazione del declino della capitale Heian- ky6, e ancora il sogno di una via di scampo in seno alla natura intesa come un «altrove» non contaminato dalle miserie del presente, sia essa salvifica via d’accesso al Paradiso d’Occidente, o semplice rifugio contemplativo di uno spirito votato alle arti. Chiave d'accesso a ognuna di queste dimensioni, Ricordi di un eremo non ci permette solo di accostarci ad alcune coordinate essenziali alla comprensione culturale del medioevo nipponico, ma anche a una personalita letteraria che, profondamente affa- scinata dall’'ambiguita della psiche, partecipa alla lucida esplo- razione del proprio animo. Cortigiano nella prima parte della sua esistenza, eremita a partire dagli anni della maturita, Kamo no Chémei (1155-1216) @ un protagonista del periodo di grandi rivolgimenti culturali che, con il passaggio dall’epoca Heian (794-1185) a quella di Kamakura (1185-1333), segna anche l’'avvento del medioevo nipponico. Poeta e musicista di talento, prosatore di grande eleganza, Chomei riesce a cogliere nella sua opera alcuni aspetti fonda- mentali del nuovo clima culturale, sia quando discetta di poesia, sia quando descrive il drammatico momento di decadenza della societa in cui vive come in Ricordi di un eremo. Se una visione di matrice buddhista segna nel profondo le pagine dell’ultimo Chomeéi, altro filo conduttore della sua opera puo comunque considerarsi l'estetismo (suki), visto in un primo tempo come vocazione laica e presentato poi, non senza problemi, come forma di purificazione dell'animo e quindi di «devozione» genuinamente religiosa. L'intreccio fra estetismo e aspirazioni religiose da corpo a una figura di intellettuale, l'esteta-eremita, in cui riconoscere non solo la vicenda umano-letteraria dell’au- tore stesso, ma un modello di vita rivisitato innumerevoli volte nell'esperienza reale e letteraria del medioevo giapponese. FRANCESCA FRACCARO é laureata in lingua e letteratura giapponese presso l'Universita Ca’ Foscari di Venezia. Si occupa di lettera- tura giapponese classica e di poesia. E attualmente ricercatore presso la Facolta di lettere e filosofia dell’Universita degli studi di Firenze. Letteratura universale Marsilio MILLE GRU Collana di classici giapponesi diretta da Adriana Boscaro Kamo no Chomei Ricordi di un eremo (HOjoki) acura di Francesca Fraccaro Marsilio Kamo no Chomei #8 £= 89 Hojoki 77 aC Traduzione dal giapponese di Francesca Fraccaro © 1991 by Marsilio Editori® s.p.a. in Venezia Prima edizione digitale 2013 ISBN 978-88-317-3654-3 www.marsilioeditori.it ebook@marsilioeditori.it Ei Sequici su Facebook G Seguici su Twitter EX Iscriviti alla Newsletter Quest’opera é protetta dalla Legge sul diritto d'autore. E vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata. AVVERTENZE I sistema di trascrizione seguito é lo Hepburn, che si basa sul principio generale che le vocali siano pronunciate come in italiano e le consonanti come in inglese. In particolare si tengano presenti i se- guenti casi: ch = @un’affricata come Uitaliano «c» in cena g & sempre velare come italiano «g» in gara h ~— & sempre aspirata j é un‘affricata (quindi shdji va letto come fosse scritto shdgi) 5 é sorda come nell'italiano sasso sh @ una fricativa come l'italiano «sc» di scena u in su e in tsu é quasi muta e assordita w va pronunciata come una «u» molto rapida y @ consonantico e si pronuncia come italiano «i» di ieri Zz & dolce come nell’italiano rosa o smetto; 0 come in zona se ini- ziale o dopo «n» La lunga sulle vocali indica l'allungamento delle stesse, non il raddoppio. Tutti i termini giapponesi sono resi al maschile in italiano. Seguendo l'uso giapponese il cognome precede sempre il nome. Nel periodo trattato, inoltre, i personaggi erano noti soltanto con il nome: quindi Chémei per Kamo no Chémei, Yasutane per Yoshishige no Yasutane. Per non appesantire ulteriormente di note il testo e l'Introduzione, i termini e le persone citati hanno una loro voce nel Glossario. La traduzione é stata condotta sull'edizione curata da Yanase Kazuo, Hojoki, «Kadokawa bunko 2435», Tokyo, Kadokawa shoten, 1988. INTRODUZIONE Sia dunque che vogliamo servire Dio — nostra sola liberta e sola feli- cita, sia che vogliamo coltivare il nostro intelletto con le nobili scienze —l'impegno per eccellenza pili vicino a quello; sia che, meditando e scrivendo qualcosa, vogliamo lasciare memoria di noi ai posteri e ar- restare cosi la fuga dei giorni, prolungando il brevissimo tempo della vita, sia che ci siamo proposti di attendere a tutte queste cose insieme, fuggiamo, te ne prego, e trascorriamo in solitudine quel tanto che ci resta da vivere... Alzati, vieni, affrettati: lasciamo la citta ai mercanti, agli avvocati, ai prosseneti, agli usurai... agli imbroglioni, agli incantatori, agli adulteri, ai parassiti, ai fannulloni... Lasciali fare: non appartengono alla nostra tazza. Lascia che i ricchi contino i loro denari servendosi in questo dell'ausilio della matematica... Invero, le ricchezze che vorrebbero eterne se ne andranno. Tutto cid che li rende oggetto di ammira- zione al volgo, svanira in un momento. Vivono sotto il dominio della fortuna: quand’anche questa li avra risparmiati, non li risparmiera la morte. Francesco Petrarca, De vita solitaria I, FUGGIRE IL MONDO Il tema - la fugacita delle cose, la vanita di ogni ambizione mondana di fronte alla morte - é antico, come antico e uni- versale @ il suo contrappunto, il richiamo ad abbandonare ogni affannosa corsa al successo per dedicarsi in solitudine ai problemi dello spirito, siano questi costituiti dall’aspirazione alla salvezza eterna, dalla necessita di ritrovare se stessi, o semplicemente dal bisogno di procurarsi un po’ di pace e di tranquillita, lasciandosi alle spalle i veleni del grande centro urbano. Non occorre quindi stupirsi pili di tanto se il tema si ritrova, in sostanza lo stesso, in questi Ricordi di un eremo (Hojoki), scritti nel 1212 dal letterato-eremita Kamo no Cho- mei durante gli ultimi anni di un'esistenza sottratta all'illuso- rieta del mondo in cui era nato e di cui aveva fatto parte sino all’eta di cinquant’anni. Letteratura del romitaggio Diviso in due parti, la descrizione di cinque disastrosi eventi che segnarono la capitale Heiankyo tra il 1177 e il 1185 e il resoconto idealizzato della propria esperienza di vita in ritiro a Toyama sull’altura Hino, a sud della capitale; costruito insomma sulla classica contrapposizione citta/na- tura, la prima intesa come concentrato d’ogni attaccamento illusorio, di tutto cid ch'é destinato a perdersi; la seconda vista come unico riparo da tanta instabilita e, nel contempo, come tramite privilegiato alla comprensione del vero, lo Hojoki é considerato uno dei capolavori della cosiddetta «let- teratura del romitaggio» o inja bungaku, un genere presente in pratica lungo tutto l'arco della letteratura giapponese, ma caratterizzante in patticotere la produzione dei periodi Ka ~ Inja eae che si nasconde») é la pronuncia sinogiappo- nese del cinese yinzhe, termine con cui venivano indicati gli individui «celatisi» al consorzio civile per appartarsi a vivere in luoghi solitari sia per ragioni etiche di stampo confuciano (la protesta contro un governo corrotto): sia per motivazioni d'ordine edonistico come il vivere «secondo natura» propu- gnato dai neotaoisti. Occorre sottolineare subito che dietro Uappellativo inja si collocano diverse categorie di persone, quindi modi diversi di intendere e vivere l'abbandono del mondo. Lo spettro di tipologie di outsiders coperto dalla pa- rola é infatti piuttosto esteso, e va dalla purezza di «sant'uo- mini» alla trasgressivita di falliti, disoccupati, giocatori d'azzardo e persino «mafiosi» o yakuza? La «letteratura del romitaggio», tuttavia, viene in genere considerata territorio solo di un ristretto gruppo di individui accomunati da uno stesso rifiuto di fama e ricchezze terrene e da una medesima aspirazione alla salvezza buddhista, presente con gradi di intensita diversi. Siva dal fervore degli hijiri, «sant'uomini» consacratisi alla Legge al di fuori delle gerarchie ecclesia- stiche, all'ascetismo degli intonsha, «eremiti» votati alla contemplazione religiosa nella dura solitudine dei boschi, sino alla «fuga» incompleta dei tonseisha o «eremiti a meta» ostacolati, nel loro distacco dal mondo, dal permanere di at- taccamenti terreni quali ad esempio la passione per un’arte. Alcuni studiosi, come Sakurai Yoshiro, additano nel solo rigetto del mondo la base comune alle tre categorie sostenendo che, voltate le spalle ai beni del sistema, gli ap- partenenti alle ultime due (intonsha e tonseisha: non sempre ben distinguibili) potevano indirizzarsi verso diversi tipi di «liberazione», non necessariamente religiosa: la salvezza eterna nella beatitudine ultraterrena del Paradiso di Amida, come la pace e la tranquillita di un’esistenza protesa solo a li- berarsi dalle rigide maglie dell’ordinamento sociale; tentativi di raggiungere un’elevazione spirituale tanto nella completa negazione di se stessi e di ogni attaccamento, quanto nella maniacale dedizione a un’‘arte che, seppur presentata come l'equivalente di pratiche religiose pili ortodosse, non pud fare a meno di ricordare l'edonistico andare «secondo natura» degli «eremiti» taoisti. Quest'ultimo tipo di approccio pud riuscire di particolare interesse nell’avvicinare una figura d'eremita per sua stessa ammissione ambigua qual é l'autore dello Hojoki, ma occorre ribadire che, anche se non l'unica, il buddhismo si rivela co- munque una componente imprescindibile nelle diverse espe- rienze di cui la letteratura del romitaggio ci rende partecipi. Lo Hajoki non fa eccezione, e, individuando nella categoria degli hijiri, in cui il fattore religioso senza dubbio predomina, Videale cui gli eremiti delle generazioni successive avrebbero guardato per compiere almeno il primo passo di allontana- mento dal mondo, é possibile tentare un primo inquadra- mento dell’opera*. Tenendo conto sia che nello Hosshinshd (Raccolta di aneddoti per risvegliare la mente, 1208-1216), completato da Chémei poco prima di morire, quello degli hijiri figura al posto d’onore tra gli esempi di vita da seguire, sia che, al- meno all'apparenza, l'eremita presentatoci nelle pagine dello Hojoki @ lui stesso uno hijiri, possiamo dire che il modello incarnato da questi «santi» e il suo affermarsi in parallelo alla diffusione degli insegnamenti della Terra Pura tra il x e il xl secolo, ci da senz’altro accesso ad alcune delle coordinate ideali da cui parte l'esperienza narrata da Chomei. Seppur assai meno solide dal punto di vista psicologico, le basi su cui l'eremita dello Hojoki edifica il proprio abituro nel ritiro di Toyama, risultano infatti essere quegli stessi principi che gli hijiri di secoli prima avevano posto a fondamento della propria esistenza: il «rigetto delle lordure terrene» e la «ri- cerca della Terra Pura». Sara quindi partendo da queste basi che si tentera di ricostruire la prospettiva in cui si inserisce la vicenda dello Hdjoki, o meglio, di definire le premesse da cui il protagonista fa derivare il proprio abbandono: quella visione del mondo articolata in termini di «lordura» (edo), «degenerazione» (mappo) e «impermanenza» (muja) che ci viene presentata nella prima parte del testo attraverso le immagini di una capitale in completo degrado e che ha le sue radici nelle particolari circostanze storico-culturali caratteriz- zanti il passaggio dal xi al xi secolo. Un mondo di lordure E lo stato di illusorieta e sofferenza in cui, secondo le dottrine buddhiste, versano tutti i non-illuminati. Una condizione considerata pressoché senza scampo una volta instauratosi il mappo, la «fase finale» o «degenerazione» cui la Legge (gli insegnamenti buddhisti) avrebbero dovuto approdare dopo un lunghissimo, progressivo declino, comin- ciato con la morte del Buddha storico. Dimenticate le tradizionali pratiche di fede nel dilagare del vizio, della depravazione, e di una conflittualita crescente dovuti alla generale ignoranza della Legge, salvarsi solo at- traverso i propri sforzi sarebbe stato oltremodo difficile: solo un aiuto «dall’alto» avrebbe potuto consentire la completa purificazione dal male. Le dottrine della Terra Pura presero appunto piede in Cina quando la necessita di quest'aiuto co- mincio a farsi sentire con le persecuzioni contro il buddhismo durante la dinastia Sui, evidente conferma, per alcuni fedeli, del fatto che il mappo era in effetti iniziato. Al centro di queste dottrine stava il voto di Amida di far rinascere nel suo Paradiso d’Occidente o Terra Pura chiunque avesse soltanto invocato con fede il suo nome. Anche nell'impossibilita di seguire i normali precetti, a causa della «degenerazione della Legge», sarebbe quindi bastato affidarsi alla compassione di Amida. Tutto quello che occorreva fare era credere, aspirare alla rinascita con cuore puro, e invocare il nome di Amida nella giaculatoria «Namu Amida Butsu» con sincerita asso- luta: null’altro. Tra i primi seguaci delle dottrine della Terra Pura in Giap- pone troviamo, a partire soprattutto dal Ix-x secolo, proprio gli Aijiri, un gruppo di «liminali» (come li definirebbe Victor Turner)®, che nel volontario abbandono delle strutture orto- dosse, cercd di opporre alla corruzione dilagante la pratica di una fede sincera, fondata su quella purezza interiore che sola avrebbe permesso di aspirare con tutta l'anima al Paradiso di Amida. Votati al rigetto da ogni preoccupazione per fama e ricchezze, all'impegno, sempre dissimulato, per il bene della gente comune, questi «sant’uomini» guardavano con disprezzo alle gerarchie ecclesiastiche, manifestazioni della falsa religiosita del mappd, e assumevano atteggiamenti di- chiaratamente antiintellettualistici visto che per salvarsi non c'era che mantenere fermo e profondo il proprio desiderio di rinascita nella Terra Pura. Dipinti dai posteri come eccentrici che ostentavano spesso colpe non commesse, nascondendo invece le opere di bene compiute, al fine di non cadere vittime della propria fama di «santi» e di conservare sempre un'immacolata purezza d’in- tenti, hijiri come Kiya (0 Koya) e Genshin si affermarono tra i protagonisti spirituali del x secolo, assurgendo presso le suc- cessive generazioni di fedeli a idealizzati esempi di un vero distacco dagli attaccamenti terreni, di un reale abbandono del mondo. Dando inoltre un contributo determinante allo sviluppo del culto amidista su suolo nipponico. Le figure di Kiya e Genshin vengono infatti subito alla mente come due dei maggiori responsabili della diffusione delle dottrine della Terra Pura. Il primo attraverso la pratica continua dell'invocazione del nome di Amida per le strade, allo scopo di insegnare alla gente questa via di salvezza; il secondo attraverso la compilazione dell’ Ojaydshi (Fonda- menti della rinascita nella Terra Pura, 985), l'opera in cui tali insegnamenti trovarono una prima esposizione sistematica, destinata ad avere grande importanza per la penetrazione dell'amidismo in un ambito in cui questa fede non aveva sino ad allora riscosso consensi: la societa di corte. Allinizio furono in pochi ad abbracciare la fede di Genshin, quei pochi che avevano motivi reali per considerare il mondo in cui vivevano un «mondo di lordure», e per desiderare una qualche liberazione dai suoi mali: i membri della piccola nobilta. Furono infatti loro i primi a essere rovinati quando, intorno al x sec., la progressiva privatizzazione dei fondi ter- rieri riportd nelle mani di poche grandi famiglie (i Fujiwara in testa) il potere pubblico, esautorando cosi le fila minori dei nobili-burocrati attraverso i quali l'autorita imperiale aveva esplicato il proprio governo durante il periodo Nara (vi sec.). Tagliati fuori da tutte le vere attivita di governo e dai benefici connessi, molti di loro vivevano spesso sull’orlo della miseria, sperando invano in incarichi in questa o quella pro- vincia che non sarebbero mai venuti. Fu su questo terreno, su un disgusto crescente nei confronti di un sistema corrotto, sulla visione di una vita senza prospettive, che le dottrine jodo poterono attecchire, permettendo alle vittime dei rivolgimenti in atto a partire dal x secolo di spiegarsi il de- grado delle istituzioni pubbliche e religiose con l'avvento del mappo, ma soprattutto offrendo loro un‘ancora di salvezza nella speranza di rinascita in quell’altra vita di beatitudine perfetta, uguale per tutti, promessa nel voto di Amida. Non manco cosi chi decise di seguire le orme degli hijiri sino in fondo, recidendo ogni legame con la societa e dedi- candosi con fervore alla ricerca della Terra Pura. Tra questi, una figura che avrebbe influenzato in diversi modi Chomei, il nobile Yoshishige no Yasutane (931 ca.-1002), autore di un’opera cui lo Hojoki deve moltissimo, il Chiteiki (Memorie di un ritiro sul lago, 982 ca.)". Gia con l'esperienza descritta nel Chiteiki, Yasutane aveva tentato una prima «fuga» dal mondo ispirandosi all'ideale dell'«eremita di mezzo» can- tato dal poeta cinese pill popolare in Giappone, Bai Juyi (772-846):: espletando cioé le proprie mansioni di dignitario minore a corte, durante il giorno, e dedicandosi poi, libero da impegni, agli studi prediletti e alla preghiera nella quiete del proprio ritiro. Ma non era bastato: il contrasto, enfatiz- zato nel Chiteiki—e ripreso pili tardi nello Hojoki — tra la vita in una capitale afflitta da miserie, ingiustizie, precarieta di fondo e l'aspirazione a una pace interiore staccata da tutto questo, si sarebbe acuito al punto di diventare una frattura. E, con la sua insistenza sulla necessita di un netto rifiuto delle cose terrene, la fede negli insegnamenti della Terra Pura avrebbe condotto Yasutane a escludere la corruzione del sistema non solo dall'ambito del privato, ma da tutta la propria vita, imprimendole una svolta in direzione religiosa che l'avrebbe addirittura portato a negare quegli ideali di matrice cinese (la passione per gli studi, l'amore per il pro- prio ritiro di «eremita di mezzo») che pure avevano avuto profonda influenza su di lui sino a quel momento. Quattro anni dopo la stesura del Chiteiki, Yasutane si decise infatti a un definitivo abbandono del mondo. Presi i voti e assunto il nome religioso di Jakushin si ritird a vivere in un primitivo capanno nell’area di Yokawa. Le sue «due vite», quella di «eremita di mezzo» descritta nel Chiteiki e quella di «santo» votato ad Amida avrebbero significato non poco per Chémei. Soprattutto il passaggio dall'una all'altra, la determinazione e l‘apparente serenita d'animo che lo caratterizzarono, sa- rebbero state in un certo senso il paradigma che egli avrebbe tentato di declinare tracciando, nello Hojé-ki, il proprio per- corso spirituale. | due secoli successivi alla stesura del Chiteiki furono testimoni di un fenomeno considerato tra i caratteri distin- tivi del mappo, vale a dire 'emergere di una conflittualita crescente all'interno delle istituzioni e di vari gruppi sociali. L'affermarsi di centri diversi di potere? all'interno della corte; la crescente importanza economica e militare dei due potenti clan guerrieri dei Taira e dei Minamoto, dapprima nelle province, poi, a partire dai disordini dell’'era Hogen (1156-59), all’interno della corte stessa; l'ascesa politica dei Taira alle pit) alte cariche governative e la loro caduta a opera dei Minamoto, nel vasto conflitto Genpei (1180-85), furono le tappe principali di un processo di destabilizzazione che tra I'x1 e il x secolo sarebbe sfociato nel definitivo collasso del sistema amministrativo pubblico dei territori e nell’in- staurarsi di un nuovo assetto che, con l'avvento del governo militare di Kamakura, sanci la fine del primato dell'aristocra- zia di corte. Vi furono naturalmente delle vittime, come in ogni pro- cesso di ridistribuzione dei poteri, ma cio che nella seconda meta del xi secolo rese tali sviluppi pil impressionanti fu un crescendo di episodi luttuosi che apparve come la prova de- finitiva dell'affermarsi del mappo. La fine del periodo Heian fu infatti segnata da una serie di eventi negativi che ave- vano tutte le caratteristiche delle «cinque contaminazioni» attraverso le quali il mappé avrebbe dovuto manifestarsi, accompagnando al declino della Legge un inasprirsi degli odi e dell'ignoranza, l'insorgere di tumulti, epidemie e disastri naturali. Le ripetute calamita che, come mostra lo stesso Hojoki, inflissero, tra il 1177 e il 1182, perdite umane e materiali gravissime a tutto il popolo, ricchi e poveri senza distinzione, vennero appunto interpretate come chiari sintomi della «fine del mondo», mentre a definitiva certezza di questa realta giunse, subito dopo, il deflagrare dei conflitti di potere che coinvolsero nel seguito di queste disgrazie quasi tutto il Paese e si conclusero con la tragica caduta dei Taira. Con tali verita davanti agli occhi, divennero legioni quanti, sulla scia del primo sparuto gruppetto di fedeli guidati da Genshin, si raccolsero nella neonata scuola della Terra Pura, riponendo nella recitazione dell'invocazione ad Amida tutte le speranze di una liberazione totale dalle «lordure del mondo». Evanescenza Al di la di tale presa di coscienza e al di la dell'effettiva adesione alle dottrine amidiste che tale coscienza poté o meno comportare, i drammatici eventi a cavallo trai due secoli trovarono un’interpretazione generale in uno dei concetti-chiave del pensiero buddhista (non legato quindi in modo particolare agli insegnamenti della Terra Pura), quel principio di «impermanenza» (mujé) per il quale non esistono realta o essenze definiti, tutto si trasforma, passa, si perde nel continuo aggregarsi e disgregarsi degli elementi, ovvero nell'infinita attivita della mente universale del Buddha. In base a queste premesse, lo stesso mappo risultava alla fin fine solo uno degli aspetti dell’universale transitorieta delle cose, il declinare della Legge in una realta dove tutto é soggetto a mutamento, e quindi, in una certa prospettiva, a decadenza. Se il precipitare della situazione e il ritmo serrato degli avvenimenti erano da imputarsi al diffondersi degli odii dovuto all'inosservanza degli insegnamenti buddhisti, dietro a tutto questo, la realta base di ogni rivolgimento doveva essere considerato il mujo, reso percepibile, non certo causato dalla degenerazione della Legge. L’'aggravamento continuo delle condizioni generali indotto dal mappo, o se vogliamo, la durissima fase di transizione in atto, non aveva fatto che mettere a nudo una verita che i precedenti periodi di floridezza avevano in parte permesso di ignorare: la natura impermanente di quanto esiste. Facendo emergere alla superficie degli eventi la realta del mujo, dando concretezza a quello che, oltre a essere uno dei fondamenti del pensiero filosofico buddhista, era stato per tutto il periodo Heian solo un topos della poesia classica, usato nelle stilizzate descri- zioni della natura (il passare delle stagioni) e dei rapporti amorosi (la loro effimerita), il movimentato passaggio al pe- riodo Kamakura getto le basi per il suo affermarsi come uno dei cardini della visione del mondo medievale, avviandolo a diventare, seppure con accezioni diverse", uno dei leitmotiv di gran parte della produzione letteraria dell'intero periodo, non escluso lo Hojoki. A partire dal celebre passo iniziale dell'epopea dei Taira, lo Heike monogatari (Storia degli Heike), dove il mujé é posto a premessa del tragico destino della casata («Nell’eco di campana del tempio di Gion riverbera la transitorieta del tutto. Il trascolorare dei fiori del tek mostra ch’é nella natura delle cose che i grandi periscano...»), divenne infatti comune iscrivere le esperienze umane nellottica dell'impermanenza universale, articolandone la rappresentazione in termini atti a veicolarle come manifestazioni del mujo, sia attraverso le vecchie metafore contenute nei testi religiosi, sia attraverso tecniche espressive nuove, sperimentate con esiti altissimi da poeti come Fujiwara no Shunzei, Saigyo, Fujiwara no Teika. Nel primo caso, assunse un valore paradigmatico la famosa «lezione» in cui il saggio indiano Vimalakirti, nel sutra che porta il suo nome, mostrava alla gente di Vaisall la natura «vuota» ed effimera del nostro essere. Poiché essa fece vera- mente testo, anche per Chamei, vale la pena di citarne i passi essenziali: O virtuosi, il corpo umano é impermanente, non é forte né durevole; deperira ed & quindi instabile. Provoca inquietudine e sofferenze es- sendo | soggetto a ogni tipo di malattia. Virtuosi, tutti gli uomini saggi non fanno assegnamento su questo corpo che é simile ad una massa di schiuma, inafferrabile. E come una bolla e non dura a lungo. [...] E simile a un’illusione essendo il prodotto di pensieri distorti. E simile a un sogno essendo modellato dalle opinioni false. E come un’ombra ed é provocato dal karma. [...] E simile a una nube fluttuante che si pud disperdere in qualsiasi momento. E simile a un lampo perché non si trattiene il tempo di un pensiero. [...] E privo di un io perché @ simile al fuoco (che uccide se stesso). E transitorio come il vento. [...] E irreale perché la sua esistenza dipende dai quattro elementi. E vuoto, non essendovi né lio né il suo oggetto. [...] E impuro e pieno di sudiciume. E infedele e sebbene sia stato lavato, bagnato, vestito, e nutrito, infine deperira e morira. E una calamita, essendo soggetto ad ogni specie di malattia e sofferenza. E simile a un pozzo asciutto, poiché @ inseguito dalla morte. E instabile e morira”. Schiuma, bolla d'acqua, nube fluttuante, vento, sogno...: a queste che sono alcune tra le principali metafore buddhiste della transitorieta dell'esistenza umana, bastera aggiun- gere uno dei paragoni pill popolari per la brevita del vivere, Vimmagine della «sosta di una notte» (ichiya no yadori) nel cammino di un viandante, per avere un quadro, seppure sommario, del modo in cui si organizzava la percezione del reale nel periodo di transizione tra il xu e il xi secolo. A spin- gere gli animi in questa direzione contribui senz’altro il fatto che per la prima voka il mujo affiorava chiaro nelle condizioni di vita della capitale, facendo si che la citta divenisse il luogo per antonomasia di cid che é instabile, la sede di tutto cid che @ vuoto e destinato a perire, di cid che é corrotto e fonte di corruzione. Le pagine dello Hojoki sono piu che eloquenti in proposito. Qui basti dire che, oltre alle calamita naturali che esse de- scrivono, il degenerare della situazione politica e militare sul finire del secolo costrinse innumerevoli persone a guardare in faccia alla vera natura delle cose, prendendo cosi atto della caducita di ogni bene, della vanita di ogni attaccamento terreno. In quegli anni furono infatti moltissimi quanti, schiacciati dall’ascesa o travolti dalla caduta della casata, seguirono, seppure in modo pit silenzioso le sorti dei Taira. Le schiere dei perdenti, di quanti, come Yasutane un tempo, potevano ora rendersi conto della falsita dei beni che il mondo, cioé la capitale, sembrava offrire, si erano allargate a dismisura. Tra il xi e il xi secolo non esisteva quasi persona che, in una qualche ingiustizia subita, nella perdita di averi materiali o nella morte prematura di un congiunto, non fosse colpita da un senso di precarieta e di incertezza che non si potesse ricondurre alla percezione del mujo. Squassata da sciagure d’ogni genere, lacerata da intrighi e lotte di potere che rendevano pressoché impossibile farsi strada senza appoggi formidabili, la capitale perdeva cosi il suo fascino, cessando d’essere il luogo dal quale non era pos- sibile allontanarsi senza sentire nello stesso tempo di essersi abbassati, d’essere decaduti in qualche modo nella scala dei valori umani. Al contrario, l'unico modo per innalzarsi spiri- tualmente, per collocarsi in una sfera di superiore purezza, era adesso lasciare questo mondo e celarsi sull’esempio ideale lasciato dai «sant’uomini» del passato™. «ll mondo é tale che quelli visti ieri oggi non son piu; la casa che prosperava al mattino, a sera é decaduta. Una volta chiusi gli occhi per sempre a che serviranno i beni accumulati con vanto? Esser schiavi dei propri attaccamenti per un nulla, condannati alle Tre vie del male in eterno: che tristezza!»*: cosi Chémei fa dire, in uno degli aneddoti dello Hosshinshi (i, 6), al «sant'uomo» dello Tsukushi meridionale, che, risve- gliatosi alla transitorieta delle cose, decide di abbandonare tutto per andare a vivere sul monte Koya. Che ognuno fosse indotto da un simile sentimento del mujo ad allontanarsi dal consorzio civile sarebbe dir troppo, ma per molti le leg- gendarie ed eccentriche figure di hijiri, come quella appena ricordata, divenivano modelli cui guardare con venerazione, pur nell'impossibilita di calcarne le orme sino in fondo. Non tutti avevano davvero qualcosa a cui rinunciare, ma piuttosto nulla da perdere, in una situazione dominata dall'incertezza e dalla precarieta; pochi potevano addurre a motivo del proprio distacco dal mondo la stessa ansia di purezza interiore dei piu famosi hijiri; ma anche se dedicarsi anima e corpo alla ricerca della Terra Pura risulto per parec- chi, Chomei compreso, una scommessa persa, l'esperienza di tali uomini venne comunque a rappresentare uno dei pit alti ideali di vita perseguibili nel momento in cui il vecchio mondo crollava. Per pill d’uno, quindi, l'indirizzare i propri passi sul cammino della Legge, ritirandosi a vivere in isolati capanni 0 intraprendendo lunghi e pericolosi pellegrinaggi religiosi, si pose come l'unica via d’uscita da una realta che, prima ancora d'essere con le sue vane illusioni l’imbocco alle Tre vie del male, aveva finito per diventare un inferno essa stessa. Risveglio Stando alle fonti rimasteci, la fuga dalla capitale fu all'inizio per Chomei solo un'impennata d’orgoglio di fronte all’ennesima frustrazione sociale subita, piuttosto che un autentico atto di fede. Tuttavia gli accadimenti «impensabili» da cui prende avvio la ricostruzione letteraria del suo ritiro hanno le stesse coordinate da cui avevano principiato le vite dei leggendari hijiri nel passato. Perché, a partire dalla similitudine iniziale tra il continuo formarsi e dissolversi delle bolle d'acqua nell'inarrestabile flusso del fiume, la caducita delle splendide dimore della capitale e la brevita della nostra permanenza in quella «effimera dimora ch’é il mondo», tutta la prima parte del testo mira a porci davanti agli occhi cinque vedute di Heian- ky6 da fissare come altrettante visioni di corruzione fisica e morale, cosi come queste verita si erano palesate a Chomei in cinque momenti di gravissimo degrado, collocabili tra il 1177 e il 1182: il grande incendio del terzo anno dell’era Angen (1177); 'uragano del quarto anno Jisho (1180); il tra- sferimento della capitale, per decreto di Taira no Kiyomori, a Fukugahara (stesso anno); la carestia e il terremoto dell’era Yowa (1180-82). Nella visione dei palazzi divorati dalle fiamme, delle case scoperchiate dal vento, delle magioni fatte a pezzi per poter essere convogliate lungo il fiume, dei templi ridotti in ma- cerie, delle dimore smembrate per farne legna da ardere, la citta scopre il suo vero volto, la sua condizione di instabilita perenne, mentre le sue superbe parvenze, dopo essersi ricomposte in tutta arroganza e falsa sicurezza a ogni scam- pato pericolo, tornano ogni volta allo sfacelo, nel flusso dei perpetui mutamenti indotti dalla corruttela degli uomini e dalla transitorieta del tutto. Su questo scenario, Chomei non manca di collocare brevi accenni alla situazione storica, ponendo, proprio al centro di una sequela di sciagure causate da forze naturali (fuoco, uragano, carestia/pestilenza e terremoto)"*, un evento deter- minato dall’'uomo, quale il cambio della capitale da Heiankyo a Fukugahara (1180) nella cui descrizione sono adombrati fatti come l'ascesa della casta guerriera e il declino dell’ari- stocrazia di corte, e lo strapotere raggiunto dai Taira in quegli stessi anni. Ma appunto, anche il momento storico di transizione —- colto nella lucida immagine delle due capitali, Heiankyo gia in completo abbandono, Fukugahara ancora in fieri - viene qui ricondotto al principio dell'impermanenza universale, visto che le due citta hanno la stessa inconsi- stenza delle bolle d'acqua citate in apertura. In chiusura, prendendo spunto dal Chiteiki, l‘attenzione di Chomei si sposta su quelle «lordure» che rendono il vivere cosi difficile, se @ vero, com’é vero, che causa diretta delle no- stre sofferenze non é la realta del mujé, ma l'ignoranza e le passioni che ci impediscono di vedere e accettare le cose per «quello che sono». Come un tempo lo hijiri Kiya si era soffer- mato al margine di una strada contemplando i mali della citta, senza riuscire a trattenere le lacrime alla vista delle falsita di cui sono schiavi gli uomini («c’e chi, ormai canuto, continua a correre di qua e di la; c’é chi, dimentico di quanto avra a pentirsene nella vita futura, fabbrica menzogne per il presente»)”, cosi Chémei osserva pensoso il modo in cui la capitale avvelena e contamina l'esistenza dei suoi abitanti: le paure e le umiliazioni provate davanti ai potenti, i pericoli dovuti all'ambiente, il desiderio di potere, ricchezze e affetti che recano affanni in questa vita, preparano alle sofferenze delle Tre vie del male in quella futura. Di fronte a un simile spettacolo, Kiya, gia illuminato, aveva deciso di restare, aiutando la gente a staccarsi dai desideri terreni; per Chomei, invece, cosi come era avvenuto quasi due secoli prima per Ya- sutane, scelta obbligata risulta «voltare le spalle al mondo» e tentare di seguire sino in fondo la via apertasi con la caduta di ogni illusione mondana e il risveglio alle verita di fede (hosshin): la ricerca di quella limpidezza di cuore, di quella pace interiore che sole avrebbero permesso di affidarsi ad Amida nell'attimo della morte. IL VOCAZIONI Ho abbandonato il mondo per addentrarmi nella profondita dei sentieri montani. Volevo meditare tranquillo la legge. Gy6éson” Altri mondi Per i seguaci delle dottrine della Terra Pura la salvezza stava in un aldila - il Paradiso d’Occidente — cui solo l’ab- bandono sincero ad Amida nell’attimo della morte avrebbe potuto condurre. Se la conquista della beatitudine non era concessa su questa terra, tuttavia, l'allontanamento dalla vita civile avrebbe dovuto almeno permettere di avvicinar- visi un poco, attraverso la comunione con un mondo da sempre avvertito come sacro: la natura. Il culto di particolari elementi del mondo naturale, alberi, cascate, rocce e so- prattutto montagne, visti come sedi delle divinita autoctone aveva avuto vita in Giappone sin dai tempi piu remoti, ed é anche in rapporto a esso che pil tardi fecero la loro comparsa (in seno a quella fusione tra shintoismo, taoismo e buddhismo esoterico che fu il movimento ascetico shu- gendo), i primi eremiti nipponici, o yamabushi («coloro che giacciono sui monti»)”. La credenza che alcune montagne, specie le pit inacces- sibili, fossero Luoghi-divinita, punti d'incontro tra il sacro e il profano, o «altri mondi» posti a passaggio da questa vita a quella dopo la morte, tra la terra e il paradiso+, stava alla base dei pellegrinaggi intrapresi dagli aderenti a questo mo- vimento per sottoporsi a durissime austerita che, nelle loro diverse valenze, avevano in comune lo scopo di instaurare un tramite con il divino. Con il diffondersi dell'amidismo le pratiche shugendo avevano finito per essere associate alla ricerca di quell’altro mondo ch’era appunto il Paradiso d'Oc- cidente, e montagne gia sacre agli yamabushi come il monte Koya o il monte Kumano, viste quali luoghi prossimi della Terra Pura, erano divenute meta di pellegrinaggio e luoghi di ritiro per molti hijiri e fedeli jodo. Ma, al di la della presunta vicinanza di questi luoghi particolari alla Terra Pura, il periodo di transizione dall’an- tichita al medioevo segno comunque la riproposizione in generale del mondo della natura come dimensione salvifica per eccellenza~. L'idea era che la natura costituisse di per sé un tramite privilegiato alla percezione del Buddha universale essendone manifestazione diretta o «corpo-simbolo» essa stessa e ai tempi di ChOmei era assai diffusa la coscienza che vivere a contatto con la natura, viaggiando o rifugiandosi in capanni solitari, fosse porsi nella condizione migliore per ap- prendere la Legge. Nel primitivo abituro dell’eremita, come sulle impervie strade praticate dai pellegrini, la vita era un ripetuto esporsi ai disagi e ai pericoli dell’'ambiente, quindi, attraverso l’espe- rienza diretta della fragilita del proprio essere, un continuo esporsi e sottomettersi all'avvertimento della «vera natura delle cose». Ma non solo le durezze del ritiro avrebbero do- vuto sostenere e guidare gli «eremiti» nella Via intrapresa: anche le bellezze del mondo naturale si offrivano loro come altrettanti «espedienti» o «mezzi opportuni» per meditare la Legge. Nello Hosshinshd (i, 9), ad esempio, si narra di come un povero boscaiolo, riposandosi con il figlio nel folto della fo- resta, si risvegliasse agli insegnamenti buddhisti guardando le foglie degli alberi portate via dal vento autunnale e di come, mostrandole al giovane, dicesse: Tu vedi come cadono le foglie di questi alberi? Se ci pensi con calma la nostra condizione non é affatto diversa. Per questo, non fai a tempo a vedere spuntare davanti ai tuoi occhi le giovani foglie a primavera che esse subito crescono e crescono e in estate sono in pieno rigoglio. Dall’ottavo mese, il loro verde gia ingiallisce e poi s'infiammano di rosso cupo. E adesso eccole cadere senza resistere a un leqgero soffio di vento. Cadute, incominceranno a marcire. Anche il mio corpo é cosi. Avere dieci anni, ad esempio, é stato esser come giovani foglie L..] Ora a pit di sessant’anni i miei capelli neri incanutiscono e la mia pelle va mutando a causa delle rughe. Come quando compaiono i colori dell’autunno. Non manca che la caduta al soffio della tempesta. E questo é solo questione di giorni. Passare i propri giorni ignari della fragilita del nostro corpo, affrontando pene indicibili sera e mattina, tirando avanti sempre di corsa, a pensarci, non va bene. Ilo a casa non torneré. Mi faré religioso e resteré qui a meditare sulla condizione di queste foglie d’albero, recitando in pace il nenbutsu. Il sermone del vecchio convince il figlio a prendere la me- desima risoluzione, nonostante il padre tenti di dissuaderlo a causa della sua giovane eta. Costruitisi due piccoli capanni Uuno accanto all’altro, essi passano i loro giorni intonando il nenbutsu. Lepisodio si conclude riportando la notizia: «ll padre ha gia ottenuto la rinascita. Il figlio, vive ancora». Nella tranquilla e silenziosa percezione del momentaneo apparire dei pit: piccoli fenomeni, nella contemplazione della «solitaria ed effimera bellezza» degli eventi pit insignificanti — il fluttuare di una nube nel cielo, il cadere delle foglie autunnaii, il levarsi in volo d'un uccello, il picchiettio della pioggia al tramonto, l’alzarsi del vento — gli inja, «coloro che si nascondono», avrebbero potuto penetrare pit a fondo Uassoluto delle cose come sono, vuote, impermanenti, un nascere e morire perpetuo, 0, meglio, un infinito trascorrere, trasmutare l'una nell'altra, nella totalita delle manifestazioni della mente del Buddha cosmico concepito come il loro stesso essere. Non che questo genere d'esperienza fosse impossibile in circostanze diverse, ma la comunione che la precarieta e la «permeabilita»= di un fragile capanno di frasche avrebbero permesso di instaurare con ogni acca- dimento esterno avrebbero dovuto portare naturalmente all'accettazione del fatto che il mutamento caratterizzante tutte le cose non ammette eccezioni, che non vi sono confini 0 distinzioni reali, che non v'é «dualismo» alla fin fine, tra il proprio essere, i fenomeni percepiti e l‘assoluto immanente a entrambi. In campo letterario possiamo rilevare l'emergere di questa nuova tendenza nello spostamento d’enfasi dall'intrinseca bellezza dei motivi fondamentali della poesia nipponica, «la luna, la neve, i fiori di ciliegio», al mujé simboleggiato dai «fiori sparsi e foglie che cadono». Gia verso la meta del x sec., troviamo formulata per la prima volta la preghiera di poter contemplare i fiori primaverili e le foglie autunnali senza goderne la fragranza e i colori; di poter invece apprendere nella vista della rugiada del mattino o della luna serotina la transitorieta del mondo. La possibilita, qui appena adom- brata, di fondere nella contemplazione del mondo naturale prassi poetica e prassi religiosa, si sarebbe definita appieno due secoli piu tardi, nell’opera del famoso poeta-eremita Saigyo. Il messaggio, ricavabile dai suoi waka migliori, che per- cepire in ogni aspetto della natura l'assoluto e trasporre in poesia queste visioni illuminate non sono che le due facce di una stessa esperienza, avrebbe fatto di questa figura un altro punto di riferimento essenziale, accanto ai modelli incarnati da Vimalakirti e Yasutane, nella formazione dell'eremita dello Hojoki. Dedizione/Devozione All’'epoca di Chomeéi, la contraddizione tra pratica poetica e pratica religiosa aveva cessato d’essere sentita tale, nel riconoscimento, sulla scia di un famoso detto di Bai Juyi, che anche le «vane parole e frasi artificiose» usate da un poeta possono «mutarsi in un inno di lode a glorificazione delle dottrine del Buddha». In questo processo di equiparazione gioco un ruolo non insignificante la percezione che l'atteggiamento psicologico inerente al culto appassionato di un’arte (suki) fosse alla fin fine accomunabile a quello che caratterizzava diversi tipi di meditazione religiosa. La dedizione totale a un'arte poteva insomma benissimo essere interpretata come una forma di devozione alla Legge, valida quanto la recitazione del nen- butsu o la lettura di un sutra, se immergersi anima e corpo nella musica o nella poesia significava dimenticare del tutto se stessi e ogni altra cosa, quindi spogliarsi d’ogni desiderio di fama e profitto, e raggiungere quello stato di «limpidezza» interiore ch’é lo scopo medesimo della pratica della Via. «Per scuoter via ogni pensiero del mondo la dedizione a un‘arte é senz’altro un aiuto prezioso», osserva Chomei a conclusione di un episodio dello Hosshinshd (vi, 8), dopo averci mostrato il musico Tokimitsu abbandonarsi al canto nel pili completo oblio di se stesso e del mondo. Ancora, declamare poesie al posto delle devozioni usuali, come vediamo fare ogni giorno al monaco Hdnichi nell'aneddoto successivo (vi, 9) sara forse stato un tipo d’osservanza tra i pill inusitati, ma sarebbe erroneo presumere ch’essa non avesse per questo valore. Infatti: Suki [@ un atteggiamento che], volto a scansare le impurita del mondo mantenendo sempre limpida la mente, nel disgusto per la vita di societa, nel rifiuto di piangere sulla cattiva sorte, nella sensi- bilita allo sbocciare e cadere dei fiori, nel commuoversi al sorgere o tramontare della luna, conduce a uno stato in cui la verita relativa al ciclo della vita e della morte si manifestera spontanea e uno cessera di desiderare fama e fortuna. Davvero esso é porta d'accesso alla libera- zione e alla salvezza. Quale ci appare nella seconda parte dello Hdjoki, la figura del novizio Ren’in — il nome che Chomei assunse dopo aver «voltato le spalle al mondo» - potrebbe definirsi quella di un «poeta-eremita» (inton shijin): un esteta volto ad appro- fondire in senso religioso, sulla direttiva ideale gia tracciata dagli hijiri del passato, la propria vocazione di sempre alla vita spirituale. Nel ritiro di Toyama le componenti proprie di un poeta-eremita ci sono tutte: una «foglia d’abituro» in cui esperire immediata, momento per momento, la precarieta della propria «vita di rugiada»; i testi del sacro insegna- mento, che non sono solo il Sutra del Loto o gli estratti dell’Ojayéshu, ma anche il paesaggio circostante, «corpo- simbolo» del Buddha nella cui contemplazione é sempre possibile immergersi; le pratiche di fede, che non si limitano solo alla meditazione di un sutra o alla recitazione del nen- butsu, ma si allargano a comprendere anche la poesia e la musica, se suonare il koto o il biwa pud portare a un appro- fondimento del proprio legame con il mondo circostante, se fare poesia @ un atto equivalente alla «lettura» dei fenomeni naturali come la Legge stessa. Come il suo illustre predecessore Saigyo, pur senza rag- giungerne la profondita di visione, l'eremita Ren'in-Chomei contempla nei mutevoli aspetti del paesaggio l'imperma- nenza delle cose, trova nell’'ambiente circostante diversi spunti alla meditazione religiosa. | glicini in piena fioritura gli appaiono come le nubi purpuree su cui sperare di poter vedere un giorno giungere Amida ad accoglierlo; nel cuculo ravvisa chi gli fara da guida nel cammino dopo la morte; il frinire delle cicale viene sentito come un avvertimento sulla caducita di tutte le cose; la neve diventa un rimando alla grandezza delle nostre colpe come alla grandezza della compassione del Buddha, che tutto cancella con il suo perdono. Ogni aspetto della natura nei diversi momenti dell’anno si tramuta insomma in un’indicazione della Via da seguire, é esso stesso la Via, ma é significativo notare come la contemplazione del paesaggio risulti inscindibile da quella poetica: il modo in cui si articola la descrizione della vista che, aprendosi a ovest, si offre a Ren'in come veicolo della Legge ricalca infatti la tipica sequenza di un‘antologia poe- tica, con la successione dei temi «primavera, estate, autunno, inverno» svolti attraverso motivi codificati dalla tradizione come pertinenti a ognuno di essi. Anche nella pace solitaria del suo ritiro, ove potrebbe passare indisturbato il tempo immerso nell'osservanza dei precetti religiosi, l‘eremita di Toyama non rigetta dunque la propria «vocazione» estetica: al contrario, sembra farsene forte per avanzare sul piano di quella religiosa. Quando non riesce a concentrarsi sulla recitazione del nenbutsu o sulla lettura di un sitra la sua mente arriva comunque a liberarsi dalle illusioni terrene, se solo puo chiarire meglio a se stessa il senso del mujé componendo una poesia sul passaggio delle barche lungo il fiume. A Toyama, anche il farsi amici «la musica, la luna e i fiori di ciliegio», altro non vuol essere che uno strumento per recidere ogni legame con il mondo, per abbandonare ogni pensiero profano, se é vero che suki signi- fica, come abbiamo appreso da Chémei stesso, «scansare le impurita del mondo mantenendo sempre limpida la mente, nel disgusto per la vita di societa... nella sensibilita allo sbocciare e al cadere dei fiori, nel commuoversi al sorgere e tramontare della luna...». Nella quiete del suo abituro, il no- vizio Ren‘in attua, perseguendo come un'unica Via la propria vocazione artistica e quella religiosa, il proprio abbandono del mondo. La sua esistenza, fusione tra fervore artistico e fervore religioso, finisce per rappresentare un ideale in se stessa, l'ideale di un poeta-eremita, appunto, cosi come lo avrebbe descritto, due secoli e mezzo pil tardi, il maestro di «poesia a catena» Shinkei (1406-1475): E certo che i veri poeti sono [tra coloro che] amano solo una vita nascosta in un tranquillo ritiro e non si vedono alle solite sessioni... Al vero poeta non vien fama ne profitto [dalla sua arte]. Egli deve essere come ci viene presentato il laico Vimalakirti: «Anche se non ha tra le sue mani il testo, pure egli legge sempre il sdtra; dalla sua bocca non esce parola, pure egli recita tutte le scritture... Uomini come questi, reso limpido il riflesso della luna [ della Legge ] sullo specchio d’acqua del loro cuore, giocano tra i fiori della foresta della poesian~. Le coordinate necessarie a un corretto inquadramento dello Hajoki sembrano esserci tutte: il risveglio all'imper- manenza delle cose lungo la «prospettiva» amidista della degenerazione del mondo; la fuga e la ricerca della Terra Pura sulle orme lasciate dagli hijiri del passato; la comunione con la natura vissuta come apprendimento e sottomissione alla Legge; la Via praticata sia attraverso la preghiera sia attraverso la poesia, viste entrambe come identici strumenti di salvezza. Presentato come un moderno hijiri, ovvero, nell’ambivalenza mondano-religiosa della vocazione seguita, come un «doppio» del laico-illuminato indiano Vimalakirti (modello cui fa esplicito riferimento non solo il titolo, ma anche il finale dell'opera) 0, ancora, come «controfigura» di una delle personificazioni dello stesso ideale, il «poeta-ere- mita» Saigy6, il ritratto che emerge dalle ultime pagine dello Hojoki potrebbe dirsi compiuto, se non fosse per il breve paragrafo di chiusura in cui, con una serrata autoaccusa, il «sant’'uomo» raffigurato nella seconda parte viene rimesso in discussione come mera «apparenza». Dopo aver descritto le semplici gioie del suo piccolo capanno e la pace interiore raggiunta in questa umile «foglia» di rifugio, Chomei ribalta infatti tutte le afferma- zioni precedenti con una sorta di «autoanalisi» conclusiva, scaturita dalla seguente considerazione: «L'essenza di quanto Buddha ha voluto insegnarci é che non dobbiamo avere nes- sun attaccamento. Anche l'affetto che ho per questo abituro @ quindi una colpa e anche il mio amore per questa vita di tranquilla solitudine diventera un ostacolo alla salvezza...». Meditando sulla profondita della propria fede l'autore la scopre falsa e quindi si chiede: perché vivere, perché narrare la propria esistenza a Toyama se essa non é che una simula- zione, nell'insopprimibile permanere di attaccamenti terreni (si tratti pure dell’affetto per un umile ritiro di frasche), se, nonostante l'aspetto esteriore, il cuore del «sant’uomo» cui si atteggia é «impuro»? Per vergogna della propria poverta? O perché la mente, lungi dall'aver trovato limpidezza nel suo distacco dal mondo, é pit che mai oscurata dalla pazzia? Linterrogativo non trova risposta e, dopo un’ambigua recita- zione del nenbutsu, Chomei tace. Apposta a questo silenzio, la firma: «lo sramana Ren'in nel ritiro di Toyama». Se dobbiamo prendere tale chiusa come una confessione diretta e sincera, allora la figura di «santo eremita» - pili pre- cisamente di «esteta-eremita» — di cui abbiamo appena finito di fare conoscenza scompare o, almeno, cessa di esistere quale autore dello Hdjoki. Resta solo la finzione dentro lo Ho- joki. 'uomo che lontano dal mondo contempla rispecchiate in cid che lo circonda e in se stesso le verita della Legge, Uuomo «che ha reso limpido il riflesso della luna nello spec- chio d’acqua del suo cuore», non @ insomma il personaggio storico Chomei-Ren’‘in, ma una creatura fittizia, un superbo gioco coni fiori della «foresta della poesia», quale é appunto la descrizione del ritiro di Toyama. L’autore, l’individuo che troviamo al di la, dietro questa fabbricazione, rimane quello che Chomei é sempre stato e che continua a essere anche vestiti i panni del devoto Ren’in: un raffinato uomo di lettere, erede della tradizione cortese e, in quanto tale, il rappresen- tante di una élite votata al conseguimento di una superiore idealita di vita conosciuta come furya™. Il. BEATITUDINI Che Chomei fosse stato in gioventt uno squisito cultore dei «giochi» letterari e musicali contemplati da questo modello di vita come attivita distintive del perfetto «corte- giano», possiamo ricavarlo, tra l'altro, dai ricordi contenuti nel Mumyosho. Ricondurre a tale modello, e alle immagini di eleganza e di splendore ch’esso evoca, anche la solitaria esistenza dell’eremita di Toyama, tuttavia, potrebbe sem- brare pill che azzardato, se pure l'antico regime non avesse coltivato, all'interno delle idealita furyd, un suo sogno di distacco dal mondo nella letteratura fiorita intorno alle «peregrinazioni dei personaggi di nobile rango», a partire soprattutto da opere come l'Ise monogatari (Racconti di Ise) o il Genji monogatari (Storia di Genji). Il mito dell’allontanamento dalla capitale come esperienza privilegiata nella formazione del vero gentiluomo, non solo quale perfetto padrone delle forme esteriori, ma come in- dividuo capace di sentimenti eletti, si era infatti consolidato nell’epoca precedente grazie a queste due opere, attraverso gli episodi relativi all'esilio di Ariwara no Narihira e del prin- cipe Genji. In entrambi i testi, tale rovescio di fortuna finisce per segnare in positivo i protagonisti, interiorizzandone Veleganza e la raffinatezza in quella percezione sofferta e delicata delle cose (conosciuta come mono no aware) resa in modo incomparabile nelle descrizioni elegiache del pae- saggio che nel Genji monogatari fanno celebre l'episodio di Suma. Visto con gli occhi di un uomo provato dalla cattiva sorte, l'autunno al villaggio dell’esilio di Genji acquista infatti un‘aura di commossa mestizia, una profondita lirica che van ben oltre il pittoricismo manierato, ancorché squisito, degli scenari naturali tratteggiati secondo gli usuali canoni firyi, sostituendo alla brillantezza dei motivi usuali (come il «broccato» delle rosse foglie d'acero) la desolata malinconia del soffio del vento, del suono dei marosi, di note appena accennate al koto: toccanti riflessi d'uno stato d’animo che la prostrazione interiore ha reso sensibile all’estremo. Nella cor- nice di Suma, gli stessi oggetti di culto dell’estetismo furyd, la vista della luna nella notte canonica del quindicesimo giorno dell’ottavo mese, ad esempio, acquistano uno splen- dore tutto particolare, trasfigurati come sono dalla nostalgia struggente del protagonista, avvolti nell'alone dei ricordi e delle emozioni, velati da una trama di reminiscenze letterarie che impartiscono dignita alla visione. Nobilitata in tal modo, l'idea del bando dalla capitale come tramite privilegiato alla conquista di un distacco dalla volgarita che non fosse solo raffinata eleganza, ma poesia, avrebbe prodotto tra le fila degli aristocratici pill impegnati nelle attivita letterarie di corte numerosi aspiranti esuli, come testimoniano i vari aneddoti rimastici sul desiderio formulato dal Consigliere di Mezzo Minamoto no Akimoto di poter guardare, senza colpa, la luna con occhi d'esiliato®. Di poterla contemplare, vale a dire, con l'acuta sensibilita di una persona che incentri i suoi pensieri su delle assenze, vivendo di ricordi, attese, desideri o sogni comunque pervasi dalla malinconica coscienza (retaggio delle traversie patite) della fragile bellezza di tutte le cose: trasformando un aristocra- tico culto delle forme in una superiore profondita di spirito. Cosi, nella formazione degli inja medievali occorrera tener conto, accanto all’esemplarita delle vite eremitiche dei «santi» hijiri, anche dell'impatto di figure di nobili esiliati come Genji e Ariwara no Narihira, mentre, accanto all'im- mersione in una natura vista come «corpo-simbolo» del Buddha vissuta dai primi, bisognera ricordare il pur profondo e squisito sentimento del patetico che i secondi coltivavano nella stessa. E pur vero che questo vagheggiamento cor- tese di un’esistenza «nascosta» e «malinconica», vissuta in sperduti villaggi lontani dal mondo, all'insegna del sogno e dell’attesa, della commossa contemplazione delle bellezze naturali (la luna, i fiori di ciliegio)*, rimase per lungo tempo solo un mito, una specie di Arcadia cui si poteva affettare di voler appartenere nel gioco-finzione della poesia, senza per questo cercarla davvero nella vita reale. Quando pero, tra il xu e il xm secolo, Uinstabilita politica, il deteriorarsi della situazione economica, il sopravvento dei militari, i disordini e le guerre misero in ginocchio l'aristocrazia di Heiankyo, quando, con il degenerare delle cose nella «capitale splen- dente» divenne per molti troppo difficile dedicarsi a fare della propria vita un’arte e di un’arte la propria vita, l'unica scappatoia possibile per pil di un appartenente a questo mondo fu proprio quella di «autoesiliarsi», con finalita cui non doveva essere estranea l'idea di un aristocratico ritiro dal mondo ricalcato almeno in parte sul modello di Suma, anche se per comodita alla risoluzione venne spesso data la coper- tura di una chiamata religiosa=. Radicalizzare il «romitaggio a meta» come aveva fatto a suo tempo il nobile Yasutane poté insomma significare per alcuni solo la ricerca di nuovi spazi ove perseguire ideali antichi: non una vera tensione verso l'aldila beatifico del Paradiso di Amida. In queste cir- costanze, la tonsura fu solo il mezzo con cui affrancarsi dalle difficolta del secolo, mascherando con una consacrazione alla Legge la tranquilla coltivazione di un'esistenza firyd, in tutti i sensi del termine, sino a comprendere, nel culto appas- sionato di ogni sfera (ri)creativa, l'edonistica rivendicazione di una liberta individuale che si richiamava vicino a uno degli originali significati di questa parola in Cina*, come si ricava da quest’elogio dell’ozio di Yoshida Kenko: Cosa avranno mai nella testa coloro che pensano male dell’ozio? Bello é proprio starsene soli, senza distrazioni di sorta. Se ci si con- forma al mondo, l'animo si smarrisce con facilita, attratto dalla «pol- vere» che c’é al di fuori, se si sta con la gente, le parole si adeguano a cid che la gente desidera sentire, non a cid che si ha dentro. Prenden- dosi gioco degli altri, discutendo con gli altri, ora si odia, ora si é felici: un susseguirsi continuo di «alti e bassi». Pensieri confusi si accavallano senza posa, il calcolo delle perdite e dei guadagni non cessa un solo istante. Per lo smarrimento si é come ubriachi e in quest'ebbrezza si creano sogni illusori. Correre e affrettarsi come incoscienti, dimentichi di sé: son tutti cosi, gli uomini. Anche senza conoscere ancora la vera Via, si pu ben dire che recidere ogni legame e mettersi tranquilli, non affannarsi dando pace al cuore, e, pur per poco, una beatitudine. (Tsu- rezuregusa, LXxv) Come si vede, il rifiuto di vivere asservito a famae guadagno é lo stesso degli hijiri: diversa @ la «beatitudine» inseguita, che, come ci dice Kenké, non é la beatitudine conquistabile incamminandosi sulla Via, ma una fuga che si ferma semplicemente all’«abbandono» delle costrizioni sociali, per «mettersi tranquilli... dando pace al cuore», dispo- nendosi a contemplare con sensibilita le cose della vita. «Si soffre andando secondo corrente, contro corrente si fa la figura dei pazzi. Dove, in qual modo sara possibile, pur per poco, offrire ricovero al nostro corpo, affrancare l’animo, anche un solo istante?» Sono le parole con cui Chomei si congeda dal mondo, introducendoci alla gioie del «tranquillo ritiro» di Toyama. Gioie che, ce ne accorgiamo mettendoci a rileggere le pagine che descrivono la vita del «sant'uomo» Ren’in, consi- stono anch’esse in un’assenza di smanie e di affanni, in uno stare quieti e liberi da afflizioni, che rassomigliano molto all'edonistico «mettersi tranquilli» di Kenk6. Cosi com’é un atteggiamento tipicamente firyd l'‘abbandono di Chémei/ Ren'in ai piaceri della musica quand’é stanco di recitare il nenbutsu, un abbandono che serve solo a «nutrire» la sua sensibilita, non a «illimpidire» la mente da pensieri profani. Ma é la descrizione dei dintorni di Toyama, forse, il punto in cui l'ascendenza furyu di quest’eremita prende il sopravvento sul modello religioso. Se togliamo infatti l'iniziale lettura «spirituale» degli elementi paesaggistici nei diversi momenti dell’anno, gli scenari presentati si possono benissimo collo- care in linea con la malinconica visione del luogo d’esilio, a Suma, nel Genji monogatari. Uultima sequenza di immagini, almeno, zeppa d’allusioni e di reminiscenze classiche com’é, spingerebbe a un’interpre- tazione in questo senso: senza riuscire a rispecchiarsi fermo nel «corpo-simbolo» della Legge, lo sguardo interiore di Cho- mei/Ren’‘in recede piano verso altre «profondita», fissandosi infine sul ricordo di quel mondo a suo modo trascendente ch’era stata l'elezione furyu: non a caso esso coglie la luna lungo la medesima prospettiva di Bai Juyi e di Genji in esilio, compagni invisibili d'una dimensione ideale che il passo certo evoca e cui Chomei, emulo in questo del Consigliere di Mezzo Akimoto, mostra di voler ricondurre la stessa esperienza di Toyama, quando conclude: «Cosi i paesaggi e le atmosfere di questa montagna sollecitano senza fine i miei pensieri e ancor piu potrebbero offrire a chi avesse la profondita di spirito, la vastita di sapere [ch'io non posseggo]». A chi fosse capace di incarnare appieno — potremmo aggiungere — la su- periore sensibilita degli eletti rappresentanti della tradizione cortese. A questo punto parrebbe infine di poter riassumere il senso dell’esperienza descritta nello Hojoki reinquadrando la figura del suo protagonista in un alter ego dell'esteta Akimoto, e cancellando il precedente ritratto di Chomei «sant'uomo», «poeta-eremita» identificabile con personaggi il cui agire, all'apparenza mondano, é invece pura prassi religiosa: Chomei come «doppio» di Saigyd, insomma, o del laico-illuminato Vimalakirti. | conti, pero, sembrano non tornare ancora, non solo alla luce dell’ambiguo silenzio finale (interpretabile, per alcuni, come segno d’illuminazione)=, ma soprattutto se si tiene conto che quanto viene narrato in queste pagine poggia, assai pit! che sulla memoria di fatti reali, sulla rivisitazione di determinate «vicende» letterarie (il Vimalakirti nirdesa sutra, il Chiteiki, la poesia di Saigyd, classici come il Genji monogatari) attraverso le quali, tutte, Uautore di volta in volta si rappresenta. Loperazione piu giusta da compiere, allora, sembra non la sostituzione, ma l'affiancamento di un'immagine (Chémei- Vimalakirti) all’'altra (Ch6mei-Akimoto), assumendo il silenzio di chiusura, non come la sconfessione dell'uno o dell’altro dei diversi percorsi spirituali delineabili attraverso la fitta trama di rimandi letterari di cui é intessuto lo Hajoki, ma come Uaffermazione d'ognuno. Nella finzione costruita da Chomei, il seguace di Vimalakirti, l'emulo di Saigyo, hanno ragione d’essere tanto quanto l'erede della tradizione furya: se non come ritratti del personaggio storico, come immagini delle sue aspirazioni, ideali progetti di vita in cui l'autore mostra di volersi rispecchiare, pur riconoscendo alla fine l'inutilita dei propri sforzi. Il problema che si incontra davanti a questo esteta ed eremita a meta (suki no tonseisha) sta tutto nel fatto che, al contrario di altri protagonisti della letteratura medievale egli vive i termini della propria condizione, l'estetismo (suki) e la religiosita eremitica (tonsei), non come una sintesi, ma come una contrapposizione di valori tra loro inconciliabili, a dispetto di ogni tentativo teorico di identificare una idealita con l'altra. Nell'introduzione alla sua ultima fatica, lo Hos- shinshd, il medesimo dualismo riaffiora, irrisolto, nel giudizio morale che Chomei da di se stesso: «Nel sondare il mio cuore vedo che, se esso non s’allontana dal bene, pure, non si stacca dal male. E come l'erba che si piega docile al soffio del vento, @ come l'immagine della luna che non riesce a riflet- tersi calma su di uno specchio ondoso». Dietro queste parole, al di la della posizione etica cui si riferiscono, si intravede Voscillare di uno spirito tra due diversi richiami: la vecchia squisitezza cortese e la nuova religiosita medievale. Diviso tra queste due culture, non solo da un punto di vista anagrafico, ma psicologico, Chémei dimostra di comprendere bene di non poter possedere la fede assoluta necessaria alla rinascita nel Paradiso di Amida. Tutto quel che gli é con- cesso, nella finzione dello H6jdki, é contemplare di lontano il sogno di mondi spirituali di cui non entrera mai a far parte a pieno titolo. Consolazione fuggevole é vero, ma beatitudine anch’essa e, a suo modo, affrancamento dalle «lordure del mondo». FRANCESCA FRACCARO + Nei Dialoghi (Lunyu, vi, 13) Confucio aveva scritto: «Non entrare in uno stato che segue strade pericolose, non restare in uno in cui il popolo si sia ribellato. Quando la Via prevale sotto il Cielo allora mostrati, quando non prevale, allora celati». 2 Cfr. Ishida Yoshisada, Inja no bungaku — Kumon suru bi, «Hanawa shin- sho 17», Toky6, Hanawa shobé, 1969, pp. 18-22. 2 Sakurai Yoshiré, Nihon no inja, «Hanawa shinsho 29», Toky6, Hanawa shobé, 1969, pp. 150-153. 4 Ibidem. Cioé gli intonsha e i tonseisha, sino a Yoshida Kenké (1282 ca-1352), autore dell’altro capolavoro della letteratura del romitaggio, lo Tsurezuregusa (Momenti d'ozio, 1331 ca.). = Si pensava al degenerare della Legge in tre fasi: shobé (Vera Legge), 26b6 (Legge apparente), mappo (Legge finale/degenerata). Durante la prima gli insegnamenti del Buddha sarebbero stati diffusi e praticati, durante la seconda si sarebbe continuato ad ascoltare la parola del Buddha senza praticarla, mentre nella terza e ultima fase i comandamenti sareb- bero caduti nell'oblio, i monaci avrebbero trascurato i precetti e sarebbe insorta una forte conflittualita. La durata delle prime due fasi essendo di- versa a seconda delle teorie, la terza, il mappd, avrebbe dovuto subentrare alternativamente nel 552 d.C. a nel 1052 d.C. Sugli sviluppi delle teorie concernenti il mappé in Giappone si veda l'approfondito saggio di Michele Marra, The Development of Mappo Thought in Japan — |, in «Japanese Jour- nal of Religious Studies», xv, 1, March 1988, pp. 25-54. ®V. Turner, The Ritual Process — Structure and Antistructure, Chicago, Al- dine Publishing Company, 1969; in particolare il cap. 1v, pp. 140-155. 2 opera, esemplata su due composizioni in prosa del poeta Tang, Bai Juyi, il Caotanji (Memorie d'un ritiro dal tetto di paglia) e il Jishangpian (Sul mio lago), @ contenuta nell’antologia letteraria Honché monzui (Florilegio del nostro paese, 1058-64). In Kaifus6, Bunka shdreishi, Honché monzui, a cura di Kojima Noriyuki, «Nihon koten bungaku taikei 69», Tokyo, lwanami shoten, 1964, pp. 417-419. 2 In una poesia Bai Juyi aveva scritto: «ll grande eremita vive a corte e in citta; il piccolo eremita in una macchia sulle colline. La macchia sulle colline é troppo solitaria, corte e citta son troppo turbolente. Meglio di tutto é leremita di mezzo, l'eremita nella carica nominale di segretario» (Boshi changqingshi, 52.17a., cit. in Li Chi, The Changing Concept of the Recluse in Chinese Literature, in «Harvard Journal of Asiatic Studies», xxiv, 1962, p. 243). 2 Nel 1086, l'imperatore Shirakawa (1053-1119), lasciando il trono, istitui l'Ufficio dell'imperatore abdicatario (in no tsukasa), con il quale intendeva riappropriarsi del potere sottratto agli imperatori dai Fujiwara, reali amministratori del Paese attraverso il sistema delle reggenze. “| disordini Hégen scoppiarono a causa di un dissidio tra l'imperatore in carica, Goshirakawa, e quello in ritiro, Sutoku. Per difendere i propri interessi le rispettive parti si affidarono all'aiuto militare dei potenti clan delle province, i Taira (guidati da Kiyomori, 1118-1181), a fianco di Go- shirakawa, e i Minamoto (guidati da Tameyoshi), a sostegno di Sutoku. | disordini terminarono con la sconfitta di Sutoku, che venne esiliato, ma non fu questo il risultato pil importante. Di fatto, il conflitto segnd il de- finitivo passaggio del potere dalle mani degli aristocratici a quelle militari, cui gia nel secolo precedente era stato delegato il controllo delle province. Il contrasto tra i due imperatori fu solo l’occasione che permise ai militari di estendere il proprio dominio all'interno della capitale stessa, esautorando cosi l'aristocrazia di corte. In particolare, i disordini Hagen (1156) e Heiji del 1160 (dovuti, quest’ultimi, a un fallito tentativo da parte dei Minamoto di eliminare Taira no Kiyomori), segnarono linizio dell'ascesa politica del clan dei Taira, guidato da Kiyomori, che avrebbe ricoperto le pits alte cariche go- vernative a corte e sarebbe riuscito anche a mettere un nipotino sul trono, limperatore Antoku (1178-1185). Il conflitto Genpei scoppid a segquito della durissima repressione di una congiura di palazzo guidata dal figlio di Goshirakawa contro Kiyomori. Prima di soccombere fu fatto appello ai membri del clan dei Minamoto nelle province orientali, che presero le armi alla testa di Yoritomo (1147-1199) e Yoshinaka (1154-1184, eliminato per dei sospetti da Yoritomo durante il conflitto). La guerra parti dalle province orientali del Kanto per poi estendersi al Giappone occidentale e si concluse presso le basi navali dei Taira, sul Mare Interno, con la battaglia di Dan- noura, in cui peri anche il nipote di Kiyomori, l'imperatore bambino Antoku. + |shida Yoshisada (op. cit., pp. 57-64) sottolinea che il termine mujé ha due significati: a) transitorieta, caducita, evanescenza; b) illusione, sogno, apparenza (nella filosofia buddhista «a» e «b» sono una stessa cosa perché tutto viene considerato un prodotto illusorio dell'infinita, quindi mutevole e transitoria, attivita della mente universale del Buddha). Durante la prima fase del medioevo (tutto il periodo Kamakura) sarebbe stata privilegiata la prima accezione, mentre a partire dal periodo Nanbokuché (1336-1392) V'accento sarebbe caduto invece sul secondo significato. 2 Vimalakirti nirdesa siitra (giapp. Yuimagyé). Dalla traduzione italiana dell’edizione curata da Charles Luk, Roma, Ubaldini, 1982, p. 28. Il corsivo é mio. 3 il dettato, espresso nel Makashikan (cin. Mohezhiguan; La grande dottrina della cessazione e contemplazione, compilato dal monaco Zhi Yi, 538-597) elevato a motto degli hijiri nelle fonti medievali. + Per le Tre vie del male vedi nota 71 al testo. + Cioé edo, mappé e mujé. + Questi quattro eventi simboleggerebbero, secondo alcuni, il continuo aggregarsi e disgregarsi dei quattro grandi elementi (terra, acqua, fuoco, vento) alla base di tut i fenomeni, quindi l'inconsistenza o cirrealta» di tutto cid che crediamo avere una sostanza e che é invece soltanto tran- sitoria combinazione di componenti diverse. Cosi strutturata, la visione del mujé presentata nella prima parte dello Hojoki sarebbe esemplata sul famoso discorso di Vimalakirti citato alle pp. 20-21, che definisce appunto il corpo «irreale perché la sua esistenza dipende dai quattro elementin. (Cfr. Imanari Genshé, Ren‘in Hdjoki no ron, in «Bungaku», xu/2, 1974, p. 122). 4 episodio («il sant'uomo Kiya deplora lo stato tumultuoso del mondo») é contenuto in una raccolta d'aneddoti di poco posteriore allo Hosshinshi, il Kankyo no tomo (Compagno di vita solitaria, 1222). Contrazione del termine hotsu bodaishin (sansc. bodhicittotpddana), ossia «risveglio della mente illuminata», hosshin pud indicare diversi stati mentali, dal primo avvertimento o «chiamata» delle verita religiose, all'illu- minazione completa. Qui la parola é stata usata nel primo significato. Yo wo somuki / fukaki yamaji e / irinikeri / shizuka ni nori wo / omoitoku tote, Gydson, Gyéson daisdjoshu (Raccolta di poesie dell’alto prelato Gyo- son, 1057-1135), in Katsuranomiyahon sésho, Téky6, Yotokusha, 1949-55, vol. Iv, p. 62. ~Scopo del movimento, fondato da quello che appare un «santonez, pitt che un «santo» (hijiri), il mitico En no Gydja o En no Ozuno (vissuto intorno all'vin sec. d.C.), era il conseguimento di esperienze mistiche attraverso la pratica del buddhismo magico. | seguaci dello shugend6 consideravano le montagne manifestazioni del divino, e al centro delle loro pratiche stavano pellegrinaggi (mineiri) nei punti piu: inaccessibili di queste al fine di entrare in comunione con la divinita dei monti. Altri scopi erano il controllo degli spiriti delle montagne e la ricerca dell'immortalita. = Per l'argomento si veda Hori Ichiré, Mountains and their Importance for the Idea of the Other World in Japanese Folk Religion, in «History of Reli- gions», vi/1, August 1966, pp. 8-11. Anche Herbert E. Plutschow, Japanese Travel Diaries of the Middle Ages, tesi di dottorato, umi, 1973, pp. 121-122. 2 Per quanto segue mi rifaccio a William R. LaFleur, Saigy6 and the Buda- hist Value of Nature, in «History of Religions», xm/2, Nov. 1973, pp. 93-128; xil/3, Feb. 1974, pp. 227-248. = Data l'identita ontologica postulata dal buddhismo mahdydna tra l'assoluto e il mondo fenamenico, gli elementi del mondo naturale non solo rappresentano il Buddha universale (Tathagata; giapp. Nyorai), ma lo sono essi stessi. ll concetto di corpo-simbolo o corpo-samaya fu discusso in Giappone dal fondatore della scuola shingon, Kikai (o K6b6 Daishi, 774-835). In particolare, egli scriveva nel suo Sokushin jobutsugi (Raggiun- gere l'illuminazione in questo stesso corpo): «Nel buddhismo essoterico, i quattro grandi elementi [terra, acqua, fuoco e vento] sono considerati come esseri non-senzienti, ma nel buddhismo esoterico essi sono conside- rati come il corpo-samaya del Buddha. | quattro grandi elementi non sano indipendenti dalla mente. Esistono delle differenze tra mente e materia, ma nella loro natura essenziale esse sono la stessa cosa. La materia non e nient’altro che la mente; la mente non é null'altro che materia. Esse sono interrelate, senza ostruzione» (corsivo mio); citato in W. R. LaFleur, Saigyo and..., cit., p. 99. 4 HOben (sansc. upaya), ossia i diversi metodi usati da Buddha e bod- hisativa nella diffusione della Legge, in risposta alle diverse necessita e capacita di comprensione degli uomini. Dato che l'Assoluto non pud essere spiegato concettualmente, il buddhismo mahdyana permette il ricorso a forme, segni, miti provvisori come «metodi opportuni» o «stratagemmin che, se non spiegano la realta ineffabile dell’assoluto, servono tuttavia a dirigere la mente delle persone non illuminate verso le verita altrimenti inattingibili della Legge. 4 'espressione é di LaFleur, Saigy6 and..., cit., p. 241. Nel diario di viaggio del monaco Z6ki, un «eremita a meta» ante litteram. Il passo é citato in Jacqueline Pigeot, Michiyuki-bun. Poétique de litinéraire dans la littérature du Japon ancien, Paris, Maisonneuve et Larose, 1982, p. 316. = La frase suona: «Possano gli scritti mondani della mia presente incar- nazione, tutte le mie vane parole e frasi artificiose mutarsi in un inno di lode a glorificazione delle dottrine del Buddha, per gli anni e anni a venire e siano essi causa dell'eterna propagazione della Legge» (corsivo mio). «Xian- Shanshi Baishi Luozong jiji» in Baishi wenji, Lxxui. \l passo divenne popolare in Giappone attraverso la traduzione nello Wakanréeisha. 2 In origine, il termine suki (derivato dal verbo suku / konomu = amare, piacere) indicava solo passione di carattere amoroso, ovvero una partico- lare propensione per le avventure galanti. In un secondo tempo (a partire dal x sec.), sarebbe passato a denotare un amore incondizionato per la poesia, diventando sinonimo di «mania, ossessione, fissazione», quindi di un atteggiamento giudicato in definitiva eccentrico e poco decoraso dalla maggioranza dei cortigiani Heian, che consideravano la poesia solo un raffinato passatempo (di uno dei primi sukimono, il nobile religioso Nain, vissuto nel x secolo, le fonti successive parlano infatti con aria di scherno). Solo all'epoca di Chomei il termine avrebbe assunto connotazioni positive, indicando un‘assoluta devozione alla disciplina poetica accomunabile alla serieta di pratiche religiose. = Da Sasamegoto (Cose sussurrate, 1463 ca.), in Rengaron Haironshi, a cura di Kido Saiz e Imoto Noichi, «Nihon koten bungaku taikei 66», Tokyo, lwanami shoten, 1961, p. 192. % Per fiiryd (termine dalle molteplici accezioni) si intende qui una sfera ideale dell’essere, simboleggiata dai raffinati piaceri della musica, della poesia, del vino e delle avventure galanti. Sinonimo di «eleganza», «de- coro», «urbanita», «cortesia» (nell’vii secolo i caratteri di faryd si potevano anche leggere miyabi, che vuol dire appunto «urbanita, cortesia»), faryd delimita il superiore mondo delle squisite «maniere» (un altro dei suoi significati) ed elaborate «forme» (in questo caso il senso indica anche gli oggetti prodotti secondo quest’estetica: poesie come conversazioni brillanti, costumi, suppellettili) coltivate dall’aristocrazia Heian. Derivato dal cinese fengliu, l'ideale dimensione di liberta e purezza di spirito per- seguita dai romiti neotaoisti delle Sei Dinastie (220-589 d.C.) attraverso la fuga dalla prigionia degli ordinamenti confuciani e l'abbandono alla propria «natura» o inclinazioni, lontano dagli intrighi della grande citta, quest'ideale giunse in Giappone intorno all'vii secolo, e si affermd in se- guito (ix-x sec.) all'interno dell’aristocrazia Heian grazie all'impatto di figure come il poeta Bai Juyi (772-846) che, attuando le sue «fughe» dal mondo solo come temporanee evasioni, coltissime ricreazioni dalla sfera degli impegni mondani, pud considerarsi il tramite tra il carattere libertario e fortemente individualista fengliu (nell'accezione neotacista) e l'edonismo estetizzante della sfera furyd, come componente dominante della cultura Heian. + Sitratta dei famosissimi capitoli «Azuma kudari» (Il viaggio verso le province orientali, sez. ix) nell'/se monogatari e «Suma» (dal nome del luogo d’esilio) nel Genji monogatari. = || capitolo viene gia presentato come una delle pii alte espressioni letterarie dello aware in uno dei primi testi della critica letteraria giappo- nese, l‘anonimo Mumydézoshi (Quaderno senza titolo, inizi del xi secolo). 4 Vepisodio, assai popolare, é riportato in numerosi testi, tra i quali il Fukuroz6shi (Quaderni rilegati, scritto intorno al 1156 da Fujiwara no Kiyosuke), lo Tsurezurequsa (sez. v) e lo stesso Hosshinshd («Della scelta religiosa e della vita in ritiro del Consigliere di Mezzo Akimoto», in Hosshin- sha, op. cit., v, 8, p. 221). 1 E il sogno espresso, questa volta da una donna, l'autrice del Sarashina nikki (Diario di Sarashina, 1059 ca.), desiderosa di rivivere la solitaria esi- stenza dell'infelice eroina del Genji monogatari, Ukifune.

You might also like