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International Financial Management Madura 10th Edition Test Bank
International Financial Management Madura 10th Edition Test Bank
Questa lettera, scorsa in fretta da Alfredo, aveva fatta in lui una penosa
impressione. La visita al cimitero in cui riposava sua madre, tutta la
giornata passata in mezzo a sì care e sacre memorie gli avevano temperato
l’animo a una dolce mitezza, a una tenera commozione di affetti, da cui il
ricordo, l’immagine, le parole della Zoe e l’idea degli avvenimenti ingrati e
delle terribili passioni che l’accompagnavano, bruscamente veniva a
staccarlo, quasi strappandogliene l’anima e il cuore. La voce dello spirito
materno gli aveva parlato di amore, di fede, di cielo: ecco quella della
sirena venirgli a susurrare di odio, di vendetta e d’inferno. Si chiuse nella
sua camera e proibì che persona viva osasse disturbarlo, e da solo dibattè
fra sè stesso il terribile quesito: o essere assassino o essere spergiuro.
Dopo una notte, la cui veglia angosciosa ciascuno può immaginarsi,
Alfredo ebbe la consolazione di ricevere la risposta alla sua lettera di
Ernesto Sangré. Non era molto lunga, ma era piena di amorevolezza;
compativa sinceramente alla sciagura capitata all’amico e in franche,
concise parole diceva quello che a senno dello scrivente era da farsi in tale
occasione, quello che egli farebbe se in tal caso si trovasse. Al principe,
sventuratamente, non si poteva domandare soddisfazione nessuna: la sua
qualità di regnante lo faceva irrisponsabile, quasi sacro, e nessuno che la
pensasse rettamente, avrebbe mai fatto carico all’oltraggiato di essersi
trattenuto innanzi al rispetto che si doveva alla Corona dell’oltraggiatore:
ma ad assistere a quell’offesa, a prendervi parte, ad assumersene la
risponsabilità e colle risa e anche con un atto positivo, c’erano stati i
cortigiani e cagnotti del duca, e a costoro il conte di Valneve pensava che
l’amico avrebbe dovuto rivolgersi, e a colui principalmente che aveva osato
mettergli una mano sulla spalla, e se non aveva ben presente chi quegli si
fosse, al principale di essi, e a tutti se occorreva. Doleva ad Ernesto di non
essere in grado di accorrere egli stesso a Parma per essere all’amico aiuto,
testimonio e compagno, ma la sua ferita inaspritasi, e la salute della madre
cui tanto aveva afflitta il colpo tremendo della morte del conte, lo
trattenevano a forza. Finiva pregandolo di tenerlo informato di tutto quello
che facesse e gli avvenisse, e ricordandogli la promessa data di venirlo a
visitare a Torino, promessa che lo sollecitava a mantenere, appena fosse
libero da quella malaugurata contrarietà.
La lettera del Sangré fu come un raggio di luce nelle tenebre in cui si
agitava l’anima di Alfredo.
— Ed io non ci ho pensato! — esclamò. — Io mi sono lasciato trascinare
piuttosto all’idea di farmi assassino... Ah era un’ignobile ispirazione... Oh
che avrebbero detto di me?...
E si coprì colle mani la faccia.
Gli pareva scorgere un vago profilo di fanciulla sul volto della quale si
esprimesse l’orrore dell’assassinio.
— Il consiglio d’Ernesto è l’unico accettabile, lo metterò in atto.
La mano del cortigiano che lo aveva spinto a terra, gli sembrava fosse stata
quella dell’Anviti; oh doveva esser quella. E d’altronde non era questi il
principale, il più insolente, il più prepotente dei seguaci del duca?
Determinò di indirizzarsi per primo a lui, e quella stessa mattina verso le
undici, vestitosi con una certa severa eleganza, Alfredo stava per uscire
affine di recarsi a cercare il colonnello e accostarlo in qualunque luogo si
fosse, per provocarlo nel più violento modo possibile, quando un suo
domestico venne ad annunziargli con aria esterefatta che in sala c’era il
direttore generale della Polizia il quale domandava di parlargli, e che
nell’anticamera e sotto il portone c’erano tre o quattro coppie di brutti musi
che puzzavano lontano un miglio di gendarmi e poliziotti travestiti.
Il conte di Camporolle a tale annunzio impallidì un pochino; ma fatto il viso
più fermo che seppe e che potè, si affrettò a passare in sala, dove stava
aspettandolo il Pancrazi.
Questi aveva la faccia più buia del solito, e i suoi occhi affondati
mandavano sguardi che potevano dirsi di severità feroce.
— Signor conte, — cominciò senz’altro, — ella è accusata di congiurare
contro il trono e la vita del nostro Augusto Sovrano, S. A. R. il principe
Carlo III; ella è accusata di avere anzi giurato di colpire ella stessa il sacro
petto del serenissimo nostro Signor Duca, e di queste accuse si hanno le
prove. Io sono qui per arrestarla.
Alfredo ebbe un leggier balenìo negli occhi e un tremito quasi
impercettibile sulle labbra.
— Va bene, — rispose però con voce ferma. — Se Lei m’arresta, e io non
ho nessun mezzo di sottrarmene, cedo alla violenza e son pronto a seguirla.
Il Pancrazi stette un poco in silenzio facendo pesare sul giovane il suo
sguardo di piombo.
— Pensi bene, signor conte, — disse poi lentamente e facendo spiccare le
sillabe; — pensi che si tratta della sua vita!
Alfredo, completamente franco e sicuro, rispose con un superbo sorriso:
— Per quanto io ci pensi, non vedo che ciò possa mutare la condizione delle
cose.
— Vuol dire ch’Ella confessa? — esclamò vivamente il poliziotto.
— Scusi: — aggiunse con tutta freddezza il conte. — È un interrogatorio
che Lei mi vuol fare?
— Ebbene, sì signore... È mio diritto, e mio ufficio; e Lei deve rispondermi.
— No signore! — proruppe con una certa forza Alfredo. — Ella può farmi
tutte le interrogazioni che vuole: ma io non conosco forza nessuna che mi
possa obbligare a rispondere, e quindi Le dichiaro che non rispondo nulla.
Pancrazi fece un sorriso che si potrebbe dire di color giallo.
— Badi che quando sarà in carcere si troveranno pure delle maniere da farle
venir la voglia di rispondere.
— Ah sì? La tortura forse?... Ho udito che in questo felicissimo paese si usa
ancora talvolta un modo sì civile ed umano...
— Il contegno ch’Ella prende, — interruppe il direttore di Polizia, — mi
spiace e mi addolora. È il più funesto ch’Ella possa adottare per sè; mentre
io sono venuto qui colla speranza di poterla salvare.
— Ah! davvero?
— Sissignore; ed è appunto per ciò che ho voluto venire io stesso.
— Per suggerirmi il mezzo di salvarmi?
— Appunto.
— E questo mezzo sarebbe?
— Dimostrare un vero pentimento di quello ch’io non credo in Lei che un
istante di follia, una momentanea aberrazione.
— E come si fa a dimostrare questo pentimento?
— Rivelando tutto quanto Ella sa del brutto intrigo e di quelli che vi
prendono parte.
— Così poco! — esclamò Alfredo con un’ironia in cui fremeva l’ira,
mentre un rossore di vergogna per l’infame proposta fattagli saliva alle sue
guancie, fino alla fronte.
— Anzi, io renderei la cosa ancora più semplice. Ella non avrebbe che da
rispondere con tutta esattezza e verità alle domande che io le farei.
— Ella è davvero troppo buona.
— Noti che tanto e tanto, io sono informato già di tutto...
— Allora è inutile ch’io parli.
— È necessario per dimostrarci il suo emendamento.
— E in compenso di questo?...
— Ella starà pochi giorni in fortezza e poi, appurate vere tutte le sue
rivelazioni, sarà accompagnata dai gendarmi sino alla frontiera, e lasciata
andare al suo destino.
— E se non parlo?
— Oh allora!... — Si strinse nelle spalle e crollò il capo in modo molto
minaccioso.
— Ebbene, signore, non perdiamo il tempo più oltre, e mi conduca dove ha
da condurmi; chè io non ho nulla da dire.
— Come vuole!... Se ne pentirà... Intanto io devo qui fare un’accurata
perquisizione.
Finita questa, Alfredo in una carrozza chiusa fu menato in fortezza e
cacciato in una segreta.
Un bigliettino de’ soliti alla Zoe diceva mezz’ora dopo:
«Contegno più fermo di quel che credevo. L’ho veduto io solo e nessun
altro lo vedrà. Mi sembra capace di mantenere il segreto.»
Ed ecco da che cosa era stato motivato l’arresto del conte di Camporolle.
LX.
Matteo Arpione, di quella lettera della Zoe, ch’egli aveva osato leggere in
casa d’Alfredo, s’era spaventato moltissimo. Per lui, che conosceva oramai
i propositi del conte, non vi era dubbio più che il giuramento di cui si
faceva cenno dalla Zoe come pronunziato dal giovane, era contro il duca, e
troppo capiva egli pure che la scellerata donna perfidamente indicava ed
assegnava all’amante l’occasione e il momento propizio di adempirlo.
Anche il povero vecchio per ciò ebbe una notte pessima, in cui, invece di
scemare, il suo sgomento venne sempre crescendo, e con una febbrile
ansietà che gli toglieva affatto la freddezza della ragione e che non faceva
capo a nulla in cui potesse tranquillarsi, passò a rassegna tutti i mezzi
possibili ed impossibili che gli si presentassero da salvare Alfredo. Si recò
al palazzo di quest’ultimo e non fu ricevuto. Egli perdette proprio la testa.
Se si fosse impedito al duca di recarsi da quella donna all’ora stabilita!... sì
questo gli parve l’unico modo frattanto, e poi avrebb’egli pur trovato il
come far partire il giovane, farlo scacciare anche dalla Polizia fuor dello
Stato.
Ecco! appunto! questa era la più spiccia e sicura maniera. Anzi il meglio era
domandare addirittura simile compenso per le rivelazioni che avrebbe fatte
a salvare la vita del principe. Gli parve la più bella idea che avesse ancora
avuta, e si avviò verso la piazza dov’era la direzione di Polizia. Ma, — a un
tratto pensò, — avrebb’egli bastato il rivolgersi al direttore di Polizia?
Avrebbe questi avuta sufficiente autorità, si sarebbe creduto in facoltà di
consentire alla domanda che il piemontese gli avrebbe fatta? Non sarebbe
stato più spediente e più certo il dirigersi più in su? forse al duca
medesimo? Mentre fermo sulla piazza, Matteo rivolgeva seco stesso questi
pensieri, vide proprio allato, a due metri di distanza, un uomo che molti
riverivano umilmente con profonde scappellate. Lo riconobbe. Era sir
Tommaso W... il ministro che godeva della maggior fiducia del principe.
Parve all’Arpione che fosse proprio la Provvidenza che gliel’avesse
mandato fra i piedi, come quegli a cui doveva appunto rivolgersi: lo seguì; e
quando furono arrivati ambedue, l’un dietro l’altro, al palazzo, l’inglese e
l’usuraio, questi fece domandare a quel primo un’udienza, che l’altro subito
concedette.
Dopo il colloquio, che durò più di un’ora, avuto con Matteo, sir Tommaso
corse in furia dalla Zoe, a cui aveva promesso e giurato di comunicare ogni
cosa che riuscisse ad apprendere, prima di pigliare qualunque
determinazione. La avventuriera credette un momento che tutto fosse
perduto quando udì il ministro dirle che un tale era venuto a rivelargli
esservi il disegno di assassinare il duca, e in quel medesimo giorno, quando
egli si sarebbe recato da lei, come aveva annunziato di voler fare.
Destramente interrogando, ella apprese chi fosse il rivelatore, come questi
non avesse detto il nome di chi doveva eseguire il colpo, non avesse
accusata lei, avesse domandato solamente per premio di ottenere salva in
ogni modo una persona che forse sarebbe apparsa implicata nel complotto,
colla sola punizione della scacciata dallo Stato, si impedisse che il duca si
recasse al convegno, e si appurassero le cose della congiura visitando i
locali tenuti segretamente nella casa della levatrice Antonia, arrestando il
conte X che era uno dei capi.
La Zoe stette un momento stordita, senza saper come fare a rimediare alla
minacciata rovina. Ma non istette guari a trovare un mezzo.
— Ebbene, voi credete di saper molto, — ella disse, facendo un sogghigno;
— e io vi dico, mio caro, che so più di voi.
— Oh come?
— Il nome di colui che oggi vorrebbe attentare alla vita del duca, non vi fu
detto: e io ve lo dico. È il conte di Camporolle, il quale vuole così vendicare
l’oltraggio ricevuto sere fa in teatro.
— Possibile!...
— Ve lo accerto.
— Allora facciamolo arrestare subito e riveliamo tutto al duca.
— Arrestare, sì, — interruppe con forza la donna: — rivelare no... Abbiamo
la fortuna per le chiome, ma guai se facciamo qualche atto inconsulto, per
cui la ci scappi! Bisogna che proviamo con documenti alla mano al duca
che l’abbiamo salvato davvero e che il pericolo era reale. Perciò l’arresto
del Camporolle non basta.
— Ma con quello del conte H...?
— Neppure, anzi faremo peggio. I congiurati posti in sull’avviso da
quell’arresto faranno sparire ogni traccia.
— Anche l’arresto del Camporolle darà loro l’allarme.
— No: perchè potremo eseguirlo alla chetichella, senza che si sappia,
almeno per quest’oggi. Il conte Alfredo fu malato più giorni, fu assente
tutto ieri, il non vederlo nemmen oggi non istupirà nessuno, e l’arresto
potremo farlo eseguire dal medesimo Pancrazi, che è accortissimo in ogni
cosa. E frattanto una di queste sere potremo far sorprendere i congiurati nel
loro covo.
— Ma però sarà buon partito distogliere il duca dal venir qui.
— Guardatevene bene. Sarebbe un farcelo nemico inutilmente. Tolto di
mezzo il Camporolle, di pericoli non ce n’è più nessuno: se al principe
contrastiamo nel suo desiderio di venire da me, o voi od io che lo facciamo,
non si ottiene che di fargli nascere mille sospetti.
— Lo faremo circondare di poliziotti travestiti.
— Ah questo sì... E di ciò s’incaricherà il Pancrazi. Anzi, caro sir W...,
facciamo una cosa: stabiliamo qui stesso in mia casa il nostro quartier
generale e agiamo insieme e d’accordo di qua... Vi piace? Non vi riesce di
troppo sacrificio l’essere mio prigioniero per quest’oggi?
E la sirena occhieggiava come sapeva far lei per mandare in tumulto la
ragione di un uomo.
— Ma voi mi regalate una giornata felice: — disse il ministro del duca.
— Allora, sentite: io scrivo al Pancrazi che venga qui subito: combiniamo
insieme quello che sia da farsi, gli diamo i nostri ordini e ne aspettiamo i
risultamenti per prendere poi, sempre insieme, quelle decisioni che
potranno occorrere.
Sir Tommaso acconsentì di buonissimo animo.
La Zoe passò nel suo camerino e scrisse in fretta a Pancrazi.
Dopo la sua conferenza con sir Tommaso W..., Matteo Arpione camminava
sollecito verso il palazzo abitato dal conte di Camporolle, quando allo
svoltare d’una cantonata si trovò faccia a faccia con un uomo che mandò
un’esclamazione vedendolo e lo fermò senz’altro mettendoglisi dinanzi.
— Giusto voi, zio! — disse quell’uomo. — Vado appunto cercando di voi
da tutte parti, e non sapevo più dove dar del capo per trovarvi, che ho già
corse tutte le locande e tutte le osterie dalle principali alle più misere senza
incontrar mai la menoma vostra traccia.
Quell’uomo, come il lettore avrà indovinato, era Pietro Carra.
Matteo gli si volse burbero così da non incoraggiarlo menomamente a
proseguire il colloquio.
— T’ho già detto e ridetto le mille volte che non voglio a nessun modo che
tu mi chiami zio.
— Va bene, — soggiunse rassegnatamente il Carra. — Non vi chiamerò più
che sor Matteo; e ora vi pregherò di darmi un quarto d’ora del vostro tempo
per dirvi cosa che mi preme molto e che è di molta importanza per me e per
la mia famiglia.
L’Arpione scosse con impazienza le spalle.
— Ora ho da fare, — rispose brusco, — e non posso darti nè un quarto
d’ora, nè mezzo e nè anche un minuto... Lasciami andare...
— No, — interruppe con insistenza supplicante, ma ferma, Pietro: —
bisogna assolutamente che m’ascoltiate. Vi dico che si tratta dell’avvenire
della mia famiglia.