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Auditing and Assurance Services A Systematic Approach 10th Edition Messier Test Bank 1
Auditing and Assurance Services A Systematic Approach 10th Edition Messier Test Bank 1
Chapter 11
1. Product costs should be matched directly with specific transactions and are recognized upon
recognition of revenue.
True False
True False
True False
True False
5. The principal business objectives of the purchasing process are acquiring goods and services
and paying for those goods and services.
True False
11-1
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6. The accounts payable department is responsible for ensuring that all vendor invoices, cash
disbursements, and adjustments are recorded in the accounts payable records.
True False
7. After the controls are tested, the auditor sets the achieved level of control risk.
True False
8. Because of the low volume of purchase return transactions, the auditor normally does not test the
controls associated with these transactions.
True False
9. Analytical procedures can be used to examine the reasonableness of accounts payable and
accrued expenses.
True False
10. Accounts payable confirmations are used less frequently by auditors than accounts receivable
confirmations.
True False
12. Which of the following accounts is not affected by cash disbursement transactions?
A. Cash.
B. Accounts payable.
C. Purchase discounts.
D. Purchase returns.
11-2
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13. A debit memo
14. In assessing control risk for purchases, an auditor vouches a sample of entries in the voucher
register to the supporting documents. Which assertion would this test of controls most likely
support?
A. Completeness.
B. Occurrence.
C. Accuracy.
D. Classification.
17. The accounts payable department receives the purchase order form to accomplish all of the
following except to:
11-3
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18. Unrecorded liabilities are most likely to be found during the review of which of the following
documents?
A. Unpaid bills.
B. Shipping records.
C. Bills of lading.
D. Unmatched sales invoices.
19. To determine whether accounts payable are complete, an auditor performs a test to verify that all
merchandise received is recorded. The population of documents for this test consists of all
A. payment vouchers.
B. receiving reports.
C. purchase requisitions.
D. vendors' invoices.
A. voucher register.
B. purchases journal.
C. check register.
D. accounts payable subsidiary ledger.
21. An important primary purpose of the auditor's review of the entity's procurement system should
be to determine the effectiveness of the activities to protect against
22. An entity erroneously recorded a large purchase twice. Which of the following internal controls
would be most likely to detect this error in a timely and efficient manner?
11-4
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23. An auditor performs a test to determine whether all merchandise was received for which the entity
was billed. The population for this test consists of all
A. merchandise received.
B. vendors' invoices.
C. canceled checks.
D. receiving reports.
24. An auditor compares information on canceled checks with information contained in the cash
disbursements journal. The objective of this test is to determine that
25. Which of the following procedures would an auditor most likely perform in searching for
unrecorded payables?
A. Reconcile receiving reports with related cash payments made just prior to year-end.
B. Contrast the ratio of accounts payable to purchases with the prior year's ratio.
C. Vouch a sample of creditor balances to supporting invoices, receiving reports and purchase
orders.
D. Compare cash payments occurring after the balance sheet date with the accounts payable trial
balance.
26. Tests designed to detect purchases made before the end of the year that have been recorded in
the subsequent year most likely would provide assurance about management's assertion of
A. accuracy.
B. occurrence.
C. cutoff.
D. classification.
11-5
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sogniamo con quelli che credono una lingua romanza fosse parlata in
tutta l’Europa latina; fatto da nessun documento provato, e dalla ragione
smentito. Se latino non parlavano le provincie neppure ai tempi più
robusti dell’Impero, allorchè da Roma venivano e leggi e magistrati,
quanto meno dopochè furono inondate da popoli di vulgari differenti e
incolti?
Papa Gregorio V nel suo epitafio è lodato perchè
Usus francisca, vulgati et voce latina,
Instituit populos eloquio triplici.
Questa lingua vulgare in Italia tenea molta conformità col latino letterale:
talchè Gonzone, italiano del 960, dice che nel parlar latino gli era talvolta
d’impaccio l’abitudine della lingua vulgare, tanto a quella somigliante.
Pure que’ notaj o cronisti molte volte si tengono obbligati a spiegare la
parola latina con una più conosciuta, la quale si riscontra identica a
quella che oggi usiamo; a modo de’ vulgari italiani sono nominate alcune
località indicate in esse carte, o persone e mestieri; il vulgo poi
attribuendo, come è suo stile, soprannomi di beffa o di qualificazione, lo
facea con parole che diremmo italiane. Talvolta ancora lo storico mette
voci vulgari in bocca de’ suoi personaggi, o lasciasi per abitudine cascar
dalla penna idiotismi e frasi, quali usavano nel parlare casalingo, e che
ritraggono non meno dell’ignoranza dello scrittore, che del paese
ond’egli è. Tutte prove che già era distinto il linguaggio nuovo
dall’antico.
Il domandare però quando la latina lingua nell’italiana si trasformò,
equivale al domandare in che giorno un fanciullo diventò giovane, e di
giovane adulto. E come voi oggi vi credete quel di jeri, e di giorno in
giorno, restando lo stesso, vi cambiaste pure di bambino in fanciullo, poi
in adolescente, in uomo, in vecchio; al modo stesso procede il travaglio
delle lingue. Ai pochi scienziati tornava comoda e gradita una lingua
comune, per cui mezzo partecipare i loro pensieri anche a quelli d’altra
favella; onde coltivarono il latino, negligendo i vulgari. I signori avranno
trattato degli affari in dialetti tedeschi; ma quando era da ridurli in
iscritto, ricorreano a cherici nostrali, che si servivano di quel gergo da
loro chiamato latino; gli strumenti stendevansi da notaj colle formole
antiche; in latino erano dettate leggi e convenzioni; nè verun grande
interesse spingeva a svolgere le lingue vulgari. Le prediche possiam
credere fossero capite dalla gente comune, come sono oggi quelle che,
per mezza Italia, si recitano in lingua tanto diversa dai dialetti: qualche
volta però il predicatore esponeva in latino, poi egli stesso o un altro
spiegava in vulgare. Nel 1189 consacrandosi Santa Maria delle Carceri,
Goffredo patriarca d’Aquileja predicò liberaliter et sapienter: Gherardo
vescovo di Padova spiegò al popolo maternaliter, cioè tradusse in
vulgare. Nel 1267 assolvendosi il Comune di Milano da censura incorsa
per avere aggravezzato beni d’ecclesiastici, vien letto l’atto in presenza
di molti congregati, primo literaliter et secundo vulgariter, diligenter, per
seriem de verbo ad verbum.
Fanciulleggiarono le lingue finchè scarse le comunicazioni e gli affari in
cui adoperarle; ma quando anche il popolo, redento dalla servitù feudale,
fu chiamato a discutere de’ proprj interessi, dovettero acquistare
estensione e raffinamento i dialetti, non volendo l’uomo ne’ consigli
parlare altrimenti che nell’usuale conversazione, nè potendo ciascuno
avere in pronto il notaro che esponesse i suoi sentimenti.
Non sorgono dunque le lingue nuove per arte e proposito, ma dietro
all’eufonia e all’analogia, secondo la logica naturale e quell’istinto
regolatore che così meraviglioso si manifesta ne’ fanciulli. Alla parte
poetica, educatrice di ciascun dialetto, si univa l’erudizione, cioè gli
elementi trasmessi dal mondo antico; e così le lingue moderne, poetiche
e popolari di natura, acquistarono coltura sull’esempio delle precedenti.
La separazione dei Comuni e dei feudi avea portato prodigiosa varietà di
dialetti: quando si fusero in piccoli Stati, e i piccoli in grandi, un dialetto
speciale fu tolto a raffinare di preferenza, e le nazioni acquistarono anche
quel che n’è distintivo primario, la lingua.
Ed anche in questa si rivela la condizione politica; e mentre la Francia
riducevasi a unità di dominio, e con questa veniva unità di linguaggio; da
noi, fra tanto sminuzzamento di Stati, altrettanto se n’ebbe dei parlari, e
più d’uno recò innanzi pretensioni di priorità o di coltura.
Un’opinione da scuola vorrebbe che prima in Sicilia siasi parlato
italiano. Se fosse, n’avrebbe rinfianco il nostro assunto sulla poca
influenza de’ Barbari: ma altro è parlare, altro scrivere; e immiseriscono
la quistione quelli che attribuiscono la formazione della lingua ad alcuni,
e fors’anche a tutti i letterati, mentre solo dal popolo essa riconosce vita
e sovranità. Forse che filosofi o poeti hanno l’intelligenza che inventa, e
la possanza che fa adottar le parole? al più, sanno dall’uso arguire le
leggi. Per ispiramento ghibellino, e per adulazione a Federico II e sua
corte si asserì che in questa siasi primamente sostituita nel poetare la
lingua italiana alla provenzale. Ma i pochi frammenti che ce n’avanzano,
non differiscono dal toscano che contemporaneamente si usava; e per
indurre col Perticari che il buon italiano si parlasse in quell’isola prima
che in Toscana, bisognerebbe non avessimo canzoni in dialetto siculo, a
gran pezza discosto dalla lingua usata dagli scrittori.
Dante imperiale dice: «Perchè il seggio regale era in Sicilia, accadde che
tutto quello che i nostri precessori composero in vulgare si chiama
siciliano; il che ritenemmo ancora noi, e i nostri non lo potranno
mutare». Ebbene, noi sfidiamo a trovare che altri mai lo dicesse; e solo il
Petrarca per condiscendenza d’erudito scrive che il genere della lingua
poetica apud Siculos, ut fama est, non multis ante seculis renatum, brevi
per omnem Italiam ac longius manavit. Ove, del resto, s’intende di
poesia, non di lingua; e potrebb’essere che Federico, viste in Germania le
canzoni che i minnesingeri ripetevano per le Corti, volesse averne alla
sua in lingua italiana. Dante stesso, quando antepone i Siciliani, non
vuole intendere del loro parlare; anzi i parlari riprova tutti, e quel della
gente media di Sicilia non trova migliore degli altri: ma poichè colà
sedevano que’ da lui vantatissimi Federico e Manfredi, e accoglievano il
fiore di tutta Italia, al contrario de’ sordidi e illiberali principi del
restante paese, gli scrittori riuscivano in nulla diversi da ciò ch’è
lodevolissimo. Nè si creda (conchiude) che il siculo o il pugliese sia il
più bel vulgare d’Italia, giacchè quei che bene scrissero se ne
discostarono.
Dante pone che cose per rima vulgare in lingua d’oc, cioè in provenzale,
e in lingua di sì, cioè in italiano, non siensi dette se non cencinquant’anni
prima di lui, lo che riporterebbe al 1150; e lo rincalza il commento di
Benvenuto da Imola. Quanto al provenzale, egli è smentito da numerosi
documenti; dell’italiano nulla abbiamo di più certa antichità, tardi
sentendosi il bisogno di scriverlo, perchè già si possedeva il latino,
formato e nazionale. Una lingua che succede ad un’antica, difficilmente
sa sciogliersi dall’imitarla, anche dopo che, formata ed ingrandita, viene
assunta dagli scrittori. Così avvenne della nostra, ove nel Trecento si
riscontra ancora la fisionomia materna nel non restringere l’au in o, non
mutare la l in i avanti ad a b c f p, nè lo j in g, nè inserire la i avanti ad e.
È conforme alla natura dei vulghi che colla lingua a parola finita,
adoprata negli scritti, restasse la parlata a parola tronca. Oltre poi il
toscano, che fu elevato a lingua nazionale, io penso che anche gli altri
dialetti avessero già allora preso il carattere proprio che tennero dappoi, e
che traevano da fonti più lontane. Se il Lombardo pronunzia l’eu, l’u e
l’on e l’an, nasali a modo francese, e contrae l’au in o, forse è debito alle
immigrazioni de’ Galli, anteriori ai Romani; donde pure i tanti nomi di
località, affatto gallici o celti, e l’udirsi dal vulgo nostro voci proferite tal
quale si fa colle antiche galliche. Anche in altri dialetti si rinvengono
modi non adottati dagli scrittori, e che hanno riscontro con provenzali;
prova che sono anteriori alla separazione delle due lingue.
Già le carte venete del secolo mutano g in z (verzene, zorzi); le
bolognesi ci offrono altare sanctæ Luziae, Cazzavillanus, Cazzanimicus,
Bonazunta, rivum Anzeli, Delai de la Bogna, Adam de Amizo, Mulus de
Bataja, Arderici de Mugnamigolo; sull’arco alzato dai Milanesi, quando
riedificarono la patria, eran nominati Settara, Mastegnianega, Prevede,
idiotismi odierni; Boso Tosabò è uno de’ cinque consoli di giustizia che
nel 1170 compilarono gli statuti di Milano; frà Buonvicino da Riva, che
scriveva nel secolo seguente, ha un dialogo fra la Madonna e un villano,
che comincia:
e anch’oggi i villani dicono chiloga per qua (hoc loco), e lumentà per
ricordare, rammentare. Altre voci dei dialetti serbano l’impronto delle
dominazioni e comunicazioni forestiere, greche a Ravenna, tedesche e
spagnuole in Lombardia, arabe e greche in Sicilia, levantine a Venezia,
francesi in Piemonte, mentre nei paesi de’ Volsci, Sabini, Vejenti, Falisci,
Sanniti, Marsi e di là dal Tevere, maggiori reliquie sopravivono di
romano rustico. Tant’era lontano che tutte le città italiche parlassero il
linguaggio stesso; fatto repugnante a natura quand’anche non restassero
prove del contrario, e non vedessimo Dante poco di poi riprovare
quattordici dialetti, cioè le voci troppo zotiche e troppo municipali, per
iscegliere le più acconce alla poesia. Ben merita considerazione che que’
primi scrittori (comunque il lor paese natìo parli trinciato, e squarti e
scortichi le parole; o sdruccioli sulle desinenze, o le strascichi, o adoperi
voci bazzesche e croje quale le lombarde già parevano a Dante, o
accumuli frasi sgraziate e villani costrutti), di qualunque parte fossero,
ingegnavansi, come oggi ancora si fa, d’accostarsi al dialetto toscano. La
quale norma generale, se non si fosse voluta disconoscere da coloro che
vennero a ragionar poi sopra ciò che già si praticava, avrebbe schivate
deh! quante sofisterie e discussioni, che empirono biblioteche intere per
fare avviluppato e controverso ciò che è chiaro e consentito col fatto.
Perocchè il linguaggio è come il diritto. Una logica naturale domina la
sua prima formazione, poi qualche alto ingegno ajuta il popolo nel
costituirlo; prende il cumulo informe degli elementi di esso, ne trae il
bello, e dà norme alla lingua e la fissa. In quell’alto ingegno il popolo
non vede un tirannico comando, bensì la fedele espressione del suo modo
di essere, pensare, sentire, quantunque nobilitato.
Ma mentre il nostro popolo conservò il titolo di toscana alla lingua, i
dotti la chiamarono dapprima vulgare, quasi non conveniente che a
vulgo; quando essi l’assunsero, vollero dirla cortigiana, come destinata a
blandire le Corti dei signorotti; vergognatine poi, la vollero dotta e
letterata, non osando rifondervi la popolare vitalità: di modo che la
lingua che, svoltasi prima ne’ paesi meno imbrattati da Barbari e retti a
Comune, potè ben presto divenire variata di melodie, dolce di cadenze,
ricchissima di passaggi, flessibile ad esporre concetti sublimi con Dante,
teneri con Petrarca, vivaci con Ariosto, civili con Machiavelli, ci tocca
sentir ancora discutere come nominarla, e quel ch’è più tristo, a quali
autorità conformarla.
CAPITOLO CI.
Italiani letterati. Primordj della poesia nostra fino a Dante.
Patre orbo
Gravi morbo
Sic sublato filio,
Unde doleret
Quod careret
Hæreditati gaudio,
Ditat prole
Quasi flore
Superna prævisio.
Parve la parte guelfa avesse confitto la ruota della fortuna al cadere degli
Svevi e al piantarsi Carlo d’Angiò nelle Due Sicilie (Cap. ). Questo
avea tributarj il bey di Tunisi e molte città del Piemonte, ligie quelle
della Romagna e della Lombardia; vicario della Toscana, governator di
Bologna, senatore di Roma, protettore degli Estensi e perciò della marca
Trevisana; arbitro de’ papi e del re di Francia suo nipote; da Baldovino
II, imperatore spodestato di Costantinopoli, si fa cedere i titoli sull’Acaja
e la Morea; il regno di Gerusalemme da Maria figlia di Boemondo IV
d’Antiochia; da Melisenda, il regno di Cipro; titoli vani, ai quali sperava
ottener realtà facendo dai papi scomunicare Michele Paleologo
imperatore bisantino, e allestendo grosse armi per isbalzarlo.
Nel Regno egli non mutò gran fatto della costituzione, conservando i
pesi e i freni che la robusta mano di Federico II e i bisogni della guerra
v’aveano introdotto; migliorò Napoli di edifizj, fra’ quali il Castel Nuovo
per assicurar l’accesso al mare, il duomo, Santa Maria la Nuova con
ampio monastero di frati Minori; San Lorenzo, eretto sul Palazzo del
Comune, da lui abbattuto; fece lastricare le vie interne; favorì
l’Università attribuendole un giustiziere proprio, e determinando i prezzi
degli oggetti di consumo per gli scolari, cui esentò dalle gabelle. Estese
l’usanza di far cavalieri in tutte le solennità, e con quest’onore si amicò
alcuni popolani grassi, come molti signori francesi col distribuir loro i
feudi sottratti ad amici degli Svevi. Soltanto gentiluomini, o notevoli per
ricchezza o per senno ammise nei seggi, ristretti ai cinque di Capuana,
Nido, Montagna, Porto, Portanuova; i quali gareggiarono a fabbricare nel
proprio quartiere palazzo e teatro; nominavano ciascuno cinque o sei
capitani annui, che potessero convocare i nobili per qualunque pubblico
affare; e gli Eletti, che governavano la città insieme coll’Eletto della
piazza del Popolo. I parlamenti, che si accoglievano or qua or là, allora
furono fissati a Napoli, e v’intervenivano la più parte de’ baroni, i
sindaci di tutto il regno, e i due ordini de’ nobili e della plebe; i prelati
soltanto in qualità di baroni.
Ma la nobiltà antica prendeva in dispetto la nuova; le sventure della
dinastia caduta convertirono l’odio in compassione; il popolo fremeva ai
supplizj di coloro che non erano stati tanto vili da rinnegare gli antichi
benefattori. I baroni, che soleano retribuire soltanto un donativo ne’ casi
preveduti dal diritto feudale, cioè per invasione del paese, prigionia del
re, nozze della sua figliuola o sorella, e nell’ornar cavaliere lui o suo
figlio, erano stati sottomessi da Federico a gravezze regolari, mantenute
o aumentate da Manfredi pel bisogno della guerra; e se Carlo avea
promesso esoneraneli, si giovò del favore mostrato a Corradino per
mancare agli accordi.
Ragioni di popoli e ragioni della Chiesa aveva egli a rispettare, ed
entrambe violò. Alla santa Sede avea giurato abolire le esazioni arbitrarie
inventate dagli Svevi, e ripristinare le immunità come al tempo di
Guglielmo il Buono; poi, per ambizione ed avarizia e per soddisfare
l’esercito, introduceva sottigliezze fiscali, tasse sopra ogni minimo
consumo; e se non trovasse pubblicani, obbligava qualche ricco a
pigliarne l’appalto, come per forza dava in socida i beni del regio
dominio, stabilendo a sua discrezione il fitto; estendeva le bandite per la
caccia, ripristinava i servizj di corpo, di carri, di navi; arrogavasi ragioni
di acque: la prigione era spalancata per ogni ritardo, per ogni richiamo,
pur beato chi potesse fuggire, lasciando incolto il campo, deserta la casa,
che talora veniva diroccata. Pose in corso la moneta scadente del carlino,
minacciando chi la ricusasse di marchiarlo in fronte colla moneta stessa
rovente [186], e producendo scompigli nelle private contrattazioni. Che
diremo dei delitti di maestà, delle fiere procedure per sospetti, del
proibire che i figli de’ rei di Stato non potessero accasarsi senza licenza
del re? [187] Il quale pure o gli eredi di pingui feudi condannava al
celibato, o le ricche ereditiere maritava co’ suoi stranieri.
Ad esempio di lui soprusavano i ministri, smungeano denaro per ogni
occasione, rubavano, poi otteneano connivenza spartendo col re; sopra
gente avvezza alle franchigie normanne e alla cortesia sveva, si
comportavano con quella sbadata insolenza, per cui i Francesi in Italia
non seppero farsi amare se non quando non vi sono.
Più castigata fu la Sicilia quanto più dagli Svevi favorita; fraudata de’
privilegi, posta in dipendenza da Napoli, abbandonata a magistrati
violenti o avari, a giustizieri che angariavano le città e le coste; e col
pretesto della crociata, smunta con sempre più gravi imposizioni; dei
baroni, molti spogliati, molti ritiraronsi ne’ castelli montani. Tutti
dunque sospiravano un’occasione di svelenirsi, e se la promettevano
dallo sgomento che Carlo eccitava ne’ potentati. Le città del Piemonte,
messesi a signoria di lui, se ne riscossero, sollecitate da Guglielmo VI
marchese di Monferrato, e dai Genovesi che spesso nel Mediterraneo
sconfissero la flotta provenzale. Michele Paleologo, che aveva usurpato e
risanguato l’impero d’Oriente, vedeva con sospetto i preparativi di Carlo.
E i popoli, ridotti a non avere speranza che nella rivoluzione,
s’immaginano d’esservi ajutati da tutti i nemici del loro tiranno.
La leggenda, che sbizzarrì sui fatti di quel tempo, racconta come
radunasse in sè i dolori, le passioni, gli anatemi della sua patria Giovanni
da Prócida, nobile medico salernitano, che, privato de’ suoi beni come
creatura degli Svevi [188], con odio infaticabile girò per tutta Europa
cercando nemici agli Angioini: aggiunge ch’egli avesse raccolto il
guanto che Corradino gettò dal patibolo, e recatolo a Pietro III re
d’Aragona, il quale, per la moglie Costanza, figliuola di Manfredi e
cugina di quello, poteva (dicono essi) pretendere alla successione di lui.
Fatti incerti: ma potrebbe darsi che Pietro adoprasse alle sue aspirazioni
questo Procida, il quale era stato medico di Federico II e cancelliere di
Manfredi, poi dei primi a fare omaggio a Carlo d’Angiò, e che forse
s’indettava coi baroni siciliani, non per redimersi in libertà, ma per
mutare padrone. Al re d’Aragona, signore di piccolo Stato, ma di valore
ed ambizion grande e voglioso di vendicare il suocero, non potea che
piacere un tale acquisto; ma Corradino avrebbe mai pensato a trasmettere
la sua eredità al genero di colui che glie l’aveva usurpata? Il fatto sta che,
«come vuolsi a buona guerra, l’Aragonese erasi preparato con amistà,
denari, segreto» (M ); e concertatosi coll’imperatore di
Costantinopoli, dava voce di voler sbarcare contro i Mori d’Africa; e a
chi tentava succhiellarne di più, rispondeva: — Tanto mi preme questo
segreto, che se la mia destra il sapesse, la mozzerei colla sinistra».
Il prendere la Sicilia era tutt’altro che facile, dove erano quarantadue
castelli regj, pronte alla chiamata le truppe feudali, disposti grossi
armamenti per l’impresa di Levante. Il popolo poi, men tosto che al re
d’Aragona, volgea gli sguardi al pontefice, come quello che poteva da
Carlo ripetere le liberali convenzioni giurate. Clemente IV l’aveva
ammonito più volte con norme, che beato il re e i popoli se le avessero
osservate: — Chiama i baroni, i prelati, i migliori delle città, esponi ad
essi i bisogni tuoi, e col loro assenso determina i sussidj. Di questi poi e
de’ diritti tuoi sta contento; del resto lascia liberi i sudditi: ordina col tuo
parlamento in quali casi tu possa richiedere la colletta ai vassalli e ai
baroni» [189]. Gregorio X, che per ismania della crociata voleva la pace,
blandiva l’antico campione della Chiesa, ed erasi limitato a doglianze
mansuete e inesaudite; non che secondare le ambizioni di Carlo
sull’impero greco, sudò anzi a riconciliare quella Chiesa colla latina; e
rimase tradizione popolare che Carlo avvelenasse san Tommaso
d’Aquino mentre andava al concilio ecumenico di Lione, ove lo temeva
avverso a’ suoi divisamenti [190].
I tre pontificati brevissimi (1276-77) che succedettero (Innocenzo V,
Adriano V, Giovanni XXI) nulla innovarono; ma Nicola III degli Orsini,
uomo altero e volente la liberazione d’Italia forse per ingrandirne la
propria famiglia, adoperò con senno e cuore per rimetter pace, e mandò
Latino cardinale d’Ostia a sedare le maledette parti. A Firenze, ove si
combattevano Adimari e Donati, Tosinghi e Pazzi, dopo datosi attorno
per quattro mesi, il cardinale raccolse tutti davanti a Santa Maria
Novella, messa a fiori e gale, e indusse a darsi il bacio della pace, bruciar
le sentenze ottenute, restituire i beni e unirsi con matrimonj; insieme
rimpatriò i Ghibellini esigliati.
Più ammalignavano le nimicizie in Bologna. Quivi Imelda de’
Lambertazzi avendo accolto in casa Bonifazio della nemica famiglia de’
Geremei, i fratelli di essa lo colpirono d’un pugnale avvelenato. La
fanciulla credè salvarlo col succhiarne la ferita, ma contrasse ella pure il
veleno, e morì coll’amante. La pietà pei due infelici esacerbò gli odj, si
pugnò in città e fuori per sessanta giorni, infine i Geremei prevalsi
cacciarono ben dodicimila cittadini. Questi, rifuggiti a Faenza e Forlì,
menarono lunghe ostilità, finchè esso cardinale Latino riuscì a farli
ripristinare nella patria e negli onori, abolendo le società popolari, tizzoni
di discordia, e sulla piazza solennemente parata, davanti a molti vescovi,