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ANTROPOLOGIA APPLICATA

PREFAZIONE
La storia dell'antropologia applicata come indirizzo disciplinare lanciata negli anni 20 in
Africa si evoluta legandosi al colonialismo come strumento per consolidare l'autorit
coloniale, possiamo considerare gli amministratori e missionari come precursori di ci che
sarebbe successivamente diventata antropologia applicata e questa antropologia si occupava
in principio di tecnologia considerata come studio scienti ico del genere umano, e di
etnogra ia la sistematica raccolta di costumi e pratiche. L'antropologia applicata si pu
considerare come un insieme di pratiche e strategie inalizzate ad ottenere una conoscenza
dettagliata delle culture non occidentali. Ha lo scopo di esercitare nel periodo che va dal 1920
al 1960 un controllo ef icacemente politico ed economico sui popoli colonizzati. E’ poi
recentemente emerso un nuovo indirizzo: antropologia dello sviluppo.

INTRODUZIONE
Il termine antropologia applicata si riferisce all'uso di concetti e metodi antropologici per
ottenere scopi speci ici generalmente fuori dal contesto accademico, il nucleo di questa
disciplina consiste in ricerche commissionate da organizzazioni pubbliche o private inalizzate
al conseguimento di risultati pratici congruenti con gli interessi dei committenti. Dapprima
collaborazione tra gli amministratori coloniali e i governi centrali e le popolazioni indigene
per poi arrivare, in tempi recenti, al concetto di cooperazione internazionale e aiuto
umanitario. Tuttavia le attuali de inizioni della disciplina hanno le loro radici nella
antropologia sociale britannica degli anni 30-40 e dai contributi degli autori di scuola
funzionalista. Hanno inaugurato la disciplina come lo studio del cambiamento sociale
(l'antropologia coloniale pu essere ritenuta la premessa per comprendere l'antropologia
applicata contemporanea). Vi uno stretto legame tra la nascita dell'antropologia applicata e
la fondazione nel 1926 dell' international istitute of african languages diretto da L. Lugard che
promuoveva lo sviluppo di relazioni tra Conoscenza scienti ica e azione sociale. Studiare i
contatti e I mutamenti culturali operava a favore di una composizione di interessi tra le
amministrazioni coloniali e le popolazioni indigene, al ine di fornire la conoscenza esatta. Per
determinare le zucche? relazioni tra le istituzioni della societ africana E i sistemi di governo,
prima della fondazione dell 'IAI i governi non avevano utilizzato antropologi ma
amministratori o missionari. Gli Anni Venti furono decisivi per l'inaugurazione della
antropologia applicata allo studio dei fenomeni di cambiamento: B Malinowski fu il maggiore
antropologo del tempo. Nel 1922 il suo testo “Argonauti del Paci ico Occidentale” divenne un
manifesto per la nuova antropologia fondata sul lavoro sul campo. E’ riconosciuto come il
fondatore dell'antropologia applicata, avendo coniato l'espressione “antropologia pratica” cio
lo studio del nativo che sta cambiando. Introdusse ai funzionari coloniali i metodi
dell’etnogra ia, sensibilizzando gli antropologi all’interesse pratico superando la prospettiva
evoluzionistica e portando ad analizzare le societ nel loro funzionamento nel presente sotto
l'impatto della civilt occidentale. La rivista Africa fu fondata per costituire un forum di
discussione tra antropologi e amministratori intorno alle possibilit e limiti della antropologia
applicata. L'antropologia applicata nasce si sviluppa in concomitanza con l'espandersi
dell'interesse europeo per gli altri popoli ed di matrice funzionalista, ha un rapporto stretto
con il pragmatismo inglese fondato sulla cooptazione e sulla conoscenza preliminare dei
sistemi indigeni. L'approccio funzionalista ha come modelli di riferimento del sistema
coloniale inglese dual mandate e l' indirect rule teorizzati da Lugard. l'antropologia applicata
Nasceva come scienza africanista inalizzata allo studio del cambiamento sociale nelle
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colonie. La sua origine viene spiegata con la necessit di questioni politiche determinate dal
sistema dell'indirect rule. Nell'articolo del 1929 Malinowski intende l'antropologia applicata
come scienza necessaria all'amministrazione coloniale avendo come referente principale
Lugard e preferisce la dominazione indiretta o dipendente, cio il controllo dei Nativi
attraverso la loro propria organizzazione ed l'unico modo per sviluppare la vita economica,
la giustizia e i valori occidentali. Le idee di Malinowski si estesero Poi in Europa e nel mondo.
Malinowski indica il processo di cambiamento provocato dal contatto tra cultura europea e
africana in una prospettiva de inita articolazione, ibridazione e assemblaggi. Sostiene che
l'antropologia studi il comportamento, i punti di vista degli Europei insieme a quelli africani
come parte di una total contact situation, intesa come nuova realt che non una mescolanza
dei bianchi e dei Neri ma un nuovo fenomeno di contatto in cui l'insieme differisce dalla
somma dei singoli elementi che lo compongono (tertium quid , cio attivit istituzioni e leggi
che non sono n completamente europee ne completamente africane). Questa prospettiva ha
sollecitato l'antropologia a studiare il selvaggio bianco ianco a ianco di quello nero cio il
comportamento e i punti di vista europei insieme a quelli africani. Auspica una collaborazione
tra il professionista coloniale e l'antropologo. Anche se molti antropologi si sono dimostrati
all'inizio riluttanti nei confronti della antropologia applicata Malinowski era per il
superamento del divario tra teoria e pratica. L'approccio funzionalista fondato su due
elementi principali: interdipendenza delle parti che compongono il sistema sociale e sul
carattere nomotetico e generalizzante del sapere prodotto dal lavoro di ricerca sul campo.
Malnowski mostra come il mancato utilizzo dell'antropologo sia tra le cause principali dei
fallimenti delle politiche coloniali e ritiene i professionisti generici come attori responsabili
del dramma della colonizzazione e agenti patogeni della malattia africana. Inoltre la rivista
Africa non port a una maggiore comprensione ma a una scolarizzazione delle posizioni e
l'Istituto Non riusc a creare forti legami con i governi che si astennero dal inanziare la ricerca
antropologica dopo la Seconda guerra mondiale. Gli antropologi furono prevalentemente
inanziati da enti privati . Le relazioni tra amministratori e antropologi erano di tensione
perch gli amministratori sostenevano che gli antropologi non avessero prodotto abbastanza
conoscenze utili a loro. Malinowski descrive il sistema coloniale come responsabile di
produrre impoverimento, malnutrizione, disorganizzazione e decadimento demogra ico. Pi
In generale le critiche dell'antropologia funzionalista al regime coloniale si limitano a mettere
in discussione le modalit con cui il processo di aziendalizzazione fosse realizzato e lo scopo
consisteva nello stabilire un controllo scienti ico delle politiche coloniali per poter evitare
effetti negativi. Infatti Malinowski accettava la modernizzazione del mondo intendendola
come un processo positivo che consentiva il superamento delle forme sociali e culturali
arcaiche e l'assimilazione al modo di vita occidentale sicuramente superiore. A partire dagli
anni Settanta l'antropologia applicata attravers un momento fondativo, sollecitata dai
fenomeni della guerra fredda e del nazismo, nell’emerge del Terzo Mondo e della guerra del
Vietnam che costrinsero l'antropologia a ripensare le proprie basi teoriche e politiche e la sua
stessa esistenza. In questo contesto ci furono delle critiche nei confronti della teoria della
modernizzazione, ovvero la teoria della dipendenza e l'antropologia dinamista che hanno
considerato sviluppo e sottosviluppo come il prodotto storico delle relazioni politiche
economiche tra paesi industrializzati e paesi del terzo mondo. Secondo il primo modello le
cause del sottosviluppo sono le relazioni esterne con le societ sviluppate, mentre il secondo
modello nato in Francia aveva come elemento centrale l'analisi delle dinamiche dello sviluppo
all'interno dello scontro tra razionalit evolutiva endogena dei sistemi tradizionali e la
potenza delle dinamiche esogene scatenata dall'aggressione coloniale; l'approccio Considera i
problemi dell'oppressione dello sfruttamento generati dall'espansione del modo di
produzione capitalistico. La svolta interpretativa promossa da C. Geertz ri lette sull' incrocio
tra i sistemi simbolici e quelli di potere e apre la strada per una Rifondazione della teoria e
della pratica antropologica. Sollecitata da queste posizioni negli anni Ottanta Si veri icata
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un'elaborazione sull'applicazione del sapere antropologico che ha queste principali
caratteristiche: - dif idenza degli antropologi nei confronti degli altri scienziati sulle teorie
dell'intervento umanitario e per lo sviluppo - convinzione che l'antropologia chiarisca aspetti
che altre discipline ignorano attraverso il metodo del lavoro sul campo e l'analisi degli aspetti
culturali e sociali del cambiamento - la dimensione soggettiva e la conoscenza locale. Le pi
recenti elaborazioni antropologiche sul tema dello sviluppo tengono conto
l'autodeterminazione dei popoli nel processo di cambiamento considerando lo sviluppo non
come imitazione dei paesi occidentali Ma come processo endogeno che ogni popolo deve
attivare e potenziare secondo i propri valori e le proprie risorse.

ANTROPOLOGI E UOMINI PRATICI


ANTROPOLOGIA PRATICA-B. MALINOWSKI
Malinowski considerato il fondatore dell'antropologia applicata avendo coniato
l'espressione antropologia pratica nel 1929, il compito di questa nuova disciplina viene
fondato sui contributi del metodo etnogra ico all'amministrazione delle colonie E sulla
sensibilizzazione degli antropologi a interessi di tipo applicativo. E’ in contrapposizione con
gli approcci evoluzionisti. Infatti indica analizzare le societ nel loro funzionamento Nel
presente e quindi Sotto l'impatto della civilt occidentale. questa disciplina nata e si
sviluppata in concomitanza con l'espandersi dell'interesse europeo per gli altri popoli il
rapporto stretto con il pragmatismo dell'amministrazione inglese fondato sulla conoscenza
preliminare dei sistemi di potere indigeni. E’ una scienza necessaria agli amministratori delle
colonie. l'antropologia applicata affrontata analizzando le attivit dell' International African
Insitute: il nostro autore rileva da un lato come l'uomo pratico abbia bisogno delle
informazioni dell'antropologia per le inalit del governo indiretto. Dall'altro lato suggerisce
come la nuova antropologia pratica, intesa come l'antropologia del nativo che sta cambiando
, fondata sull'applicazione dei principi del funzionalismo, sull'analisi dei cambiamenti sociali,
sullo studio della diffusione della cultura occidentale tra i popoli primitivi, fornisce il sapere
necessario all'amministratore. la sua speci icit l'oggettivit scienti ica attraverso il metodo
del lavoro sul campo condotto per prolungati periodi attraverso la conoscenza della lingua
nativa e l'osservazione partecipante da cui deriva l'Interrelazione tra i fatti sociali e la
capacit di inaugurare nuove dimensioni di ricerc interessanti. L'istituto pu venire incontro
a vari interessi coloniali e ha a sua disposizione una preparazione teorica; l'antropologo deve
orientarsi a uno studio diretto delle Nazioni indigene e deve Inoltre impegnarsi di pi
nell'antropologia della societ che sta cambiando e nell'antropologia del contatto tra bianchi e
neri ,fra cultura europea e la vita tribale primitiva. preferibile la dominazione indiretta o
dipendente cio il controllo dei Nativi attraverso la mediazione della loro propria
organizzazione Eessa Inoltre riconosce che lo sviluppo sociale molto lento ed quindi
preferibile raggiungerlo attraverso un lento e graduale cambiamento proveniente dall'interno:
l'unico modo per sviluppare la vita economica, la giustizia amministrativa, la promozione dei
valori morali e dell'Educazione, lo sviluppo di arte, cultura e religione. Sotto il controllo
indiretto o dipendente l'uomo bianco lascia fare ai nativi stessi La maggior parte del lavoro ma
deve super visionarlo. Per fare ci necessario conoscere l'organizzazione, le idee e i costumi
di coloro che sono sotto controllo. Questo tipo di studio costituisce il lavoro antropologico di
ricerca sul campo: l'antropologo preparato si serve di dispositivi che Gli permettono di
osservare, annotare ed elaborare; Come mai l'antropologo viene poco usato ed è di poca
utilità? la risposta che sebbene i metodi e le tecniche di osservazione antropologica siano le
uniche attraverso cui sia possibile ottenere un'adeguata conoscenza di problemi sociali
primitivi, gli interessi dell'antropologia sono andati inora in una direzione diversa e le nostre
informazioni ci sono state fornite come sottoprodotto di altro. Uno degli argomenti di
interesse primario per l'uomo la legge della sua trib :l'idea dominante che Nelle societ
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primitive l'individuo sia completamente dominato dal gruppo e che obbedisce alle leggi e ai
costumi della comunit con un'obbedienza assoluta e passiva. Nello studio della formazione
del carattere individuale si rivelano anche le forze morali e legali e le varie funzioni Native che
fanno del selvaggio un cittadino rispettoso delle leggi. In tutto questo Noi dovremmo studiare
il nativo che sta cambiando e non il selvaggio incontaminato: infatti la vera pratica del
moderno ricercatore sul campo dovrebbe diventare quella di studiare il Selvaggio cos com'
cio sottoposto all'in luenza della cultura europea per eliminare queste nuove in luenze e
ricostruire lo status pre-europeo. L'autore non intende criticare l'antropologia vecchia o
cercare di rivoluzionarla ma vuole soltanto modi icarla e accogliere pi osservazioni rispetto a
Come l'istituzioni funzionano e non rispetto a come si sono originate: nella riorganizzazione
della vecchia antropologia una delle questioni importanti consiste nella Cooperazione tra
diversi settori che inora sono stati tenuti distanti: uno di questi sullo studio delle lingue
primitive, un'importante equipaggiamento di un amministratore di un missionario o di un
insegnante, e lo studio della lingua deve essere accompagnato allo studio della relativa
cultura. Un altro argomento importante il possesso della terra in una comunità
primitiva: la suddivisione del territorio deve essere uno dei primi compiti
dell'amministratore, che dovrebbe prima di tutto tracciare la sua progettualit politica e poi
controllare che sia messo in pratica dai suoi funzionari; la procedura corretta consiste nel
disegnare una mappa del territorio mostrando le terre; invece di fare domande occorre
studiare come Ogni unit terriera viene usata: una tale indagine non allarmer il nativo, che
non sar nemmeno consapevole che si sta cercando di fare una ricerca, Ma riveler i reali
diritti legali degli individui. In ine l'antropologo dal momento che il suo scopo sempre
l'accuratezza e la completezza dei dettagli, la persona pi indicata per dare
all'amministratore ci di cui ha realmente bisogno, ovvero un resoconto privo di pregiudizi
e imparziale. Il possesso della terra un problema del sistema economico primitivo della
trib , Infatti occorre conoscere l'organizzazione economica di una comunit , le condizioni
igieniche, il lavoro, l'educazione, L'abolizione della schiavit la tassazione: permette di
ottenere qualcosa di utile se serve alla soddisfazione dei bisogni essenziali dell'uomo (cibo,
vestiti, armi, materiali,...) e quindi una forma intenzionale di attivit . Una nuova Branca
dell'antropologia Deve prima o poi essere avviata: l'antropologia del nativo che sta
cambiando ossia lo studio della diffusione della cultura occidentale tra i popoli primitivi;
l'istituto potrebbe compiere in questi modo una funzione pratica: superare il divario tra
antropologia teorica e pratica, insistere af inch alcuni argomenti vengano considerati in
primo piano negli studi antropologici quali i problemi relativi alla popolazione,
organizzazione sociale, agenzie educative, diritto, politica, linguistica; lo studio di tali
questioni dovrebbe essere accompagnato dal lato pratico collegandolo a questioni come
incremento o decremento della popolazione. L'istituto potrebbe dare un forte contributo
all'organizzazione del lavoro sul campo in Africa sulla base delle linee indicate e formare i
cadetti delle colonie; in ine potrebbe essere un luogo di incontro o di scambio tra interessi
Pratici e teorici in antropologia.
(Malinowski porta l’esempio dell’abolizione del potlach in quanto fatto sociale totale, dunque
critica i governi coloniali per aver distrutto l’equilibrio economico indigeno. Utilizzando il
contributo degli antropologi questo tipo di evenienze non si veri icherebbero. E’ nell’interesse
dell’amministratore, in quanto imprenditore, comprendere ci .)

LA RAZIONALIZZAZIONE DELL’ANTROPOLOGIA E DELL’AMMINISTRAZIONE-B. MALINOWSKI


Malinowski replica ai commenti di due funzionari nel suo articolo del 1929 difendendo la
speci icit e la professionalit della disciplina: Mitchell aveva escluso ogni competenza
dell'antropologo Nei fatti amministrativi poich la conoscenza dei Nativi non richiede un
sapere specialistico e l'antropologo non pu possedere tali conoscenze scienti iche e viene
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equiparato allo specialista del laboratorio: considerato incapace di calarsi nella vita
quotidiana. Malinowski A tal proposito fa valere la novit del metodo funzionalista ribadendo
il bisogno di un orientamento dell'antropologia verso un interesse per le condizioni del
presente pi che per le ricostruzioni del passato e verso uno studio comparativo dei processi
culturali e delle loro leggi, piuttosto che delle origini e della storia. E’ importante analizzare
non solo la realt locale ma anche il sistema dei bianchi, egli si augura il superamento del
divario e auspica alla Cooperazione tra scienza applicata e senza frattura. Si dovrebbe
costruire una Cooperazione tra antropologo e funzionario coloniale.Il contributo positivo del
signor Mitchel per : la convinzione che lo specialista non basta da solo perch incapace di
trattare questioni pratiche, non deve essere proiettato sul campo di cui non ha esperienza e
che non si pu aspettare che gli comprenda: quindi deve essere af iancato dal professionista
generico; fra i vari gruppi che lavorano in Africa missionari giornalisti, amministratori)
esiste una Comunanza di interessi. Mitchell Immagina lo specialista rinchiuso in un
laboratorio ma il laboratorio dell'antropologo la super icie del globo con la sua variet di
razze e culture. L'amministratore ha il dovere di mantenere l'equilibrio, deve occuparsi degli
interessi dei Nativi che non possono decidere sul loro destino, proprio lui che pu agire
come professionista generico ( in Africa il nativo privo di voce e immaturo nel proprio
giudizio e la sua esistenza richiede la presenza di un professionista generico). Dell'intera
branca di studi che si chiama scienza dell'uomo si tenta di de inire una nuova scienza di
Antropologia pura. L'antropologia funzionalista la teoria di cosa sia la natura umana, di come
funzionano le istituzioni umane di cosa la cultura fa per l'uomo e quindi la cooperazione tra
amministratore e antropologo inevitabile; la scienza pura Infatti capace di trovare
applicazioni ed lo strumento pi pratico a disposizione del professionista.

ANTROPOLOGIA MODERNA E DOMINIO EUROPEO IN AFRICA-B. MALINOWKSI


Malinowski in questa pubblicazione coniuga l'importanza degli aspetti applicativi della teoria
funzionalista con lo studio delle trasformazioni che caratterizzano le societ primitive, Inoltre
sottolinea il processo di cambiamento culturale provocato dal contatto tra cultura europea e
africana; sostiene la necessit che l'antropologia inizi a studiare il comportamento e i punti di
vista europei e africani guardando la societ bianca e nera come parte di una totale situazione
di contatto intesa come una nuova realt de inita tertium quid, la cui esistenza non
costituisce una mescolanza ma un nuovo fenomeno di contatto che si riferisce a fenomeni di
cambiamento culturale nei differenti settori della societ . Anche se gli africani si
sottomettono completamente al dominio europeo, questo non signi ica che la loro
costituzione venga completamente cancellata, anzi si tratta di un nuovo tipo di interessi,
attivit culturali in cui l'insieme differisce in se dalla somma dei singoli elementi che lo
compongono. Lo scopo dell'antropologia l'armonizzazione di questi processi che oggi
de iniremmo con il termine ibridazione. Malinowski ha delineato le caratteristiche
dell'analisi funzionale di una struttura: da una parte il fenomeno della cultura umana
soggetto alle leggi Generali, dall'altra troviamo che ogni cultura obbedisce ad un insieme di
imperativi e valori che differiscono da quelli di altre culture. Il funzionalismo ci insegna che
gli aspetti e le istituzioni di una cultura sono interconnessi e si pu raggiungere un
cambiamento solo se si procede in modo lento e graduale. L'Africa Infatti sta vivendo una
trasformazione culturale su vasta scala poich circondata da una rete di collegamenti e
l'impatto dei vari poteri sta rapidamente trasformando il volto del continente. In tali
condizioni il compito dell'amministratore quello di promuovere e controllare il
cambiamento af iancato dal missionario che ha l'obiettivo di sostituire la vecchia
religione, anche se quest'ultima a volte continuer a sopravvivere clandestinamente, con
quella nuova e dall'educatore che insegna agli africani il sapere e le competenze
occidentali. Vi poi anche l'imprenditore che deve trovare le risorse naturali nel continente
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e sfruttarle a vantaggio del mondo in generale (l'in luenza economica avviene attraverso due
tramiti: il rappresentante dell'Industria e quello del commercio. Il primo sfrutta le risorse
disponibili e il secondo attira i consumatori e i nuovi mercati mondiali. Si formano cos tre
categorie: l'impresa Bianca, le riserve tribali di manodopera e la situazione di contatto dove gli
africani lavorano sotto la supervisione dei bianchi. Nella prospettiva storica occorre
analizzare l'avvento degli europei e la risposta dell'Africa: l'Africano che viene liberato dal
tribalismo dotato di nuove competenze, nuovi bisogni e nuove ambizioni; la vera
colonizzazione inizia con l'istituzione dell'in luenza politica attraverso la porta? gli indigeni
devono venire intimoriti dalla superiorit militare degli Europei diventando cos
completamente malleabili: a livello psicologico lo Shock si trasforma nella convinzione della
superiorit dell'uomo bianco in tutti i campi. Il commerciante l'unica igura che non si pone
in contrasto con istituzioni indigene, a contrario del missionario con la religione africana o
l'amministratore con il governo tribale o l'imprenditore con l'economia tribale. Lo scopo del
commerciante infatti quello di creare nuove domande e di stimolare nuovi bisogni poich
questi non esistevano in precedenza. Ma la igura pi importante della colonizzazione africana
il colono, autosuf iciente e la sua preoccupazione consiste nella necessit di togliere all’
indigeno tutta la terra di cui ha bisogno. Nella prima fase di transizione l'Africano Varca la
linea del primo rinnegamento tribale (conversione al Cristianesimo) nei momenti in cui
adotta alcune delle consuetudini imposte dalla cultura europea (conversione al cristianesimo,
ammissione in una scuola Europea, contratto di lavoro); la seconda linea data dalla
conseguenza dei contatti europei e delle in luenze occidentali (ritorno al proprio sistema
di credenze e valori da parte dell’indigeno). Malinowski quindi dice che il processo coloniale
non mai luido e semplice e ci sono alcuni aspetti della vita europea che sono incompatibili
con quelli della vita tribale. Per esempio il matrimonio monogamo: nel Cristianesimo esso
sacro, mentre nella vita tribale c’ la poligamia. Si va quindi a cambiare tutto il sistema di
parentela. Ci sono cose che sono quindi incompatibili tra vita europea e vita tribale.
Il compito dell'antropologo quello di insistere sul fatto che necessario apportare una
quantit sostanziale superiore di bene ici reali e tangibili non solo per rispondere agli
interessi degli africani ma anche quelli della comunit bianca.

ANTROPOLOGIA APPLICATA E COLONIALISMO


UN ESPERIMENTO IN ANTROPOLOGIA APPLICATA-G. BAKER
Baker considera l'esperimento di collaborazione tra l'antropologo Brown e Hutt nel 1932 fra
gli Hehe ed analizza il grado di adattabilit al sistema coloniale da parte del governo locale
basato su legami tribali e autorit tradizionali, analizza inoltre il livello di soddisfazione della
popolazione nei confronti della politica governativa. Partendo da questo esperimento Baker
discute le differenze effettive tra antropologo e amministratore e le riconduce all'approccio
teorico dell'antropologia, fondato sulla metodologia e sul rigore scienti ico rispetto
all'interesse pratico del funzionario coloniale; il loro comune oggetto sono i popoli primitivi
per secondo modi e prospettive divergenti: mentre l'antropologo interessato alla vita della
trib , l'amministratore necessita di una conoscenza pratica e di un'informazione accurata.
L’articolo si pre igge di speci icare i campi dell'antropologia pratica e sviluppare un metodo
per procurarsi e offrire tale conoscenza. L'antropologo interessato alla vita della trib nel
suo insieme e fornisce risposte agli interrogativi e ne spiega il signi icato, mentre
l'amministratore anomalo poich non rimane abbastanza a lungo in un distretto mentre
l'antropologo vive in continuo contatto con gli stessi nativi ed cos un elemento della loro
vita quotidiana. Brown e Hutt hanno tentato di affrontare il problema partendo da una nuova
prospettiva: l'esperimento consiste in una stretta e continua cooperazione per un anno tra
l'antropologo e l'amministratore, che si occupavano di una sola trib gli Hehe, con tutti i
problemi amministrativi che la riguardavano: il metodo impiegato fu una serie di domande e
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risposte: le domande furono formulate dall'amministratore in rapporto all'informazione che
cercava, mentre le risposte furono date dall'antropologo ( solitamente avviene il contrario); Il
problema era scoprire quali campi dell'antropologia fossero utili all'amministratore e
sviluppare un metodo per procurarsi e offrire la conoscenza. Uno dei pi importanti risultati
dell'esperimento consiste nell'aver sviluppato un metodo attraverso il quale l’antropologo non
solo possa veri icare ma anche promuovere senza invadere campi di attivit controllate
dall'amministratore; Ma se l'esperimento fosse stato esteso per un periodo pi lungo o ci
fosse stato un secondo esperimento si sarebbe ottenuta un'altra prospettiva che confrontata
con i risultati della prima porterebbe ad indicazioni molto importanti per l'amministratore e il
governo. Il secondo esperimento sarebbe stato una veri ica pi approfondita.

L’ANTROPOLOGIA COME SERVIZIO PUBBLICO-G. WILSON


Wilson fu il massimo esperto del cambiamento sociale ed in questo articolo Esamina la
natura e limite della antropologia applicata la cui speci icit consiste in uno studio oggettivo
dei fatti indigeni di cui Tuttavia denuncia la carenza; la raccolta dei fatti sociali e la loro
elaborazione in leggi Generali costituisce lo scopo speci ico dell'antropologia, Inoltre egli
metti in evidenza la scarsa preparazione degli uomini pratici (missionari, esperti, dirigenti ed
amministratori) e ad essi contrappone a professionalit e le competenze dello specialista
formato al tipo di conoscenza sistematica e dettagliata che non pu essere facilmente
acquisita nel tempo libero da un uomo che non ha alcuna particolare formazione. Il Rhodes-
Livingstone Insitute di Studi Centro-Africani nel 1938 comincia la sua attivit ed Esamina
l'effetto sulle societ africane dell'impatto della civilizzazione Europea attraverso la
formazione di un centro dov' il problema di stabilire relazioni continue tra nativi e non
nativi. La caratteristica dell'antropologia applicata quella di essere utile e accurata di
combinare il signi icato traf ico con l'accuratezza scienti ica ed il distacco, per avere un tale
risultato occorre comprendere i limiti del metodo scienti ico nella sua applicazione alle
faccende umane, l'antropologo speciale giudica il fatto sociale oggettivo e le sue implicazioni
E comprende l'evento solo nel suo aspetto sociale e pratico. Un : servizio tecnico "
l'antropologo speciale devi se onesto cominciare con il deludere il proprio interlocutore
come scienziato non ho Risposte" poich non esiste un ideale scienti ico del Benessere umano
Ma deve essere in grado di spiegare i fatti che descrive E questo potrebbe portarlo a un certo
criticismo tecnico delle strategie; Le : implicazioni dei fatti i fatti che studia sono fatti sociali e
la loro speciale caratteristica quella di essere i comuni aperti gruppi di esseri umani, ogni
patto sociale una costante ricorrenza di eventi storici ( matrimonio) , i fatti sociali possono
mutare ma possono farlo solo insieme non uno ad uno quindi dal momento in cui i fatti sociali
sono Uniti nessuno di loro libero ed essi si determinano gli uni con gli altri
inevitabilmente; La responsabilit degli uomini di Stato: un fatto sociale non un evento ma
una forma generale dove all'interno Ci sono eventi particolari che devono accadere, ogni
singolo evento storico determinato dalle condizioni sociali del tempo una successione di
eventi storici al potere di modi icare le condizioni sociali; Principi Generali: una comparazione
dei luoghi e tempi conosciuti dalla Sociologia e dalla storia scienti ica porta alla formulazione
di principi generali che non possono essere modi icati dall'azione sociale; Predire il futuro: dal
momento che le connessioni necessarie di fatti sociali non rappresentano la totalit della
storia Gli scienziati possono dire con precisione sul futuro ipotetico "" rimanendo invariate le
cose allora una determinata politica avr determinati risultati, i principi generali della
società sono immutabili ed il futuro immediato e in parte determinato dalle necessit delle
attuali condizioni sociali E questo determinismo rende possibile parlare di probabilit
scienti iche Infatti il cambiamento sociale non pu mai essere veramente improvviso ma deve
sempre crescere lentamente a partire dalle precedenti condizioni quindi una previsione
particolare in qualche misura possibile. l'antropologia sociale si comprata da altre scienze
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costa poco in termini monetari per ogni ricercatore ma ha un alto costo di tempo infatti una
ricerca deve durare minimo 2 anni per portare ad un risultato di valore certo Mentre per la
ricerca completa che comprende anche la struttura dei risultati richiede non meno di 5 anni
(bisogna inoltre padroneggiare la lingua)

IL RUOLO DELL’ANTROPOLOGIA NELLO SVILUPPO COLONIALE-W. M. HAILEY


Hailey esercita un ruolo cruciale per lo sviluppo dell' antropologia applicata e il suo articolo
riprende il dibattito tra Malinowski e Mitchell. Inoltre dichiara la sua insoddisfazione per lo
scarso utilizzo da parte delle universit e dei servizi governativi rivelando il crescente
interesse da parte dell'amministrazione per gli studi antropologici. Di questo fenomeno offre
una duplice spiegazione: il passaggio da studi comparativi di tipo evoluzionistico interessate
alle origini e all'evoluzione sociale e il passaggio dagli iniziali aggettivi assistenziali delle
amministrazioni locali a obiettivi di natura politica. La ricerca applicata dell'approccio
funzionalista si fonda sullo studio dell'Interrelazione tra le parti del sistema sociale, Inoltre
sottolinea il pericolo che si incontra nel sottovalutare l'attaccamento degli indigeni alle loro
istituzioni. Prosegue poi illustrando l'importanza della prospettiva funzionalista attraverso
una serie di esempi: per studiare la piani icazione alimentare occorre sapere il posto
occupato dal cibo nella vita culturale della popolazione e analizzare la loro dieta, per
migliorare le condizioni del lavoro essenziale valutare gli effetti sociali delle migrazioni
lavorative e L'analisi dei salari o dei contratti, per lo sviluppo dell'Agricoltura necessario
studiare i modi di gestione della terra e delle tecniche di coltivazione; successivamente infatti
gi il legame tra amministrazione della Giustizia e sviluppi di vita sociale e la necessit di
elaborare una conoscenza del ruolo della legge. indichiamo il modo in cui l'antropologia possa
essere il costo servizio dello sviluppo coloniale: , In primo luogo consideriamo i cambiamenti
degli studi antropologici, inizialmente gli antropologi erano impegnati in studi comparativi di
differenti gruppi sociali ed interessati a tracciare la loro evoluzione ma in anni pi recenti
hanno notato uno sviluppo di un ramo diverso che analizzava il modo in cui le societ
funzionano e non pi il modo in cui avevano avuto origine questo ha richiesto uno studio
intensivo condotto da ricercatori sul campo Ed proprio Grazie all'esperienza acquisita da
questi studiosi che l'amministrazione si resa conto di poter trovare assistenza per risolvere i
problemi pratici portando a cambiamenti all'interno della politica coloniale: divisi in tre fasi
nella fase iniziale bisognava introdurre la legge l'ordine e fornire i servizi che avrebbero
consentito alla comunit di sviluppare risorse naturali, nella seconda fase l'amministrazione
si scontra con il problema di assistere le comunit indigene per migliorare la propria vita,
nella terza fase si vedono i progressi che hanno costituito un Progresso politico e l'attenzione
viene rivolta alle questioni politiche. Sarebbe prudente se l'antropologo Prestasse particolare
attenzione alle reazioni della vita indigena nei confronti dei provvedimenti presi
dall'amministratore non per realizzare i propri programmi di progresso sociale politico.

ANTROPOLOGIA PRATICA NELLA VITA DELL’ INTERNATIONAL AFRICAN ISTITUTE-A.I.


RICHARDS
Richards in questo articolo traccia un bilancio del programma di ricerca quinquennale IAI
rilevando come il funzionalismo abbia reso la disciplina pi adatta ad aiutare
l'amministrazione coloniale attraverso il miglioramento delle pratiche dello studio sul campo.
La specializzazione nell'analisi delle culture, in considerazione ai problemi sociali ed
economici l'esame dei cambiamenti provocati dall'impatto europeo sulle societ africane; il
suo resoconto non fu positivo: concluse infatti che il maggior contributo dell'antropologia alle
politiche governative consistesse nella sua in luenza sul clima di opinioni piuttosto che in
risposte a speci iche richieste denunciando che il ine principale dell'istituto, ovvero quello di
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fornire una stretta associazione tra conoscenza e ricerca scienti ica e affari pratici fu raggiunto
solo parzialmente. Da un lato sottolinea la tendenza dell'uomo pratico a ignorare i contributi
dell'antropologia e a fronte di queste dif icolt si impegni a promuovere l'approccio
antropologico escludendo una rigida opposizione tra antropologia pratica e teorica,
osserva con i migliori esperimenti si fossero fondati su una comprensione teorica. Propone
quindi che l'analisi di cambiamenti sociali fossero fatti dipendere da un approccio
comparativo ai problemi economici e sociali e da una profonda conoscenza delle culture locali;
da questa prospettiva auspica un miglioramento delle modalit di addestramento dei
ricercatori e lo sviluppo dei centri locali di ricerca. Sviluppo dell'antropologia Dal 1928: ci
sono tre cambiamenti nell'antropologia: in primo luogo Si veri icato un grado di
specializzazione fra gli antropologi stessi: infatti oggi l'antropologia sociale, ovvero Lo studio
delle culture umane un particolare tipo di sociologia impegnata principalmente nello studio
delle societ pi piccole ed una disciplina distinta, In secondo luogo c' stato un grande
sviluppo della Tecnica sul campo durante il periodo di attivit dell'Istituto, in terzo luogo c'
stato un cambiamento nel centro di interesse dell'antropologo a partire dalla data della
fondazione dell'Istituto. Sarebbe possibile fornire ai ricercatori sul campo pi informazioni su
certi aspetti della ricerca sociale quali i metodi dell'indagine sociale, la campionatura, L'arte di
intervistare, osservare e relazionare sulle attivit sociali; la preparazione dell'antropologo
dovrebbe essere ulteriormente ampliata al ini di fornirgli una certa conoscenza delle altre
scienze specializzate. In conclusione il programma di ricerca dell'Istituto africano
internazionale stato fortemente responsabile dello sviluppo di un nuovo tipo di interesse
dell'antropologia britannica e per l'addestramento di una quantit di lavoratori sul campo,
alcuni dei membri di ricerca dell'Istituto hanno condotto indagini per i governi africani Ma gli
antropologi non sono stati impiegati nelle colonie in modo continuativo o
nell'amministrazione governativa o nell'istruzione. Oggi l'antropologo ancora considerato
come esterno ma probabile che questa atteggiamento cambi qualora gli abitanti delle
colonie africane arrivino a capire la natura della preparazione del lavoratore sul campo e a
partecipare essi stessi ai progetti di ricerca. Si dovr riconoscere che i governi africani abbiano
bisogno di indagini adatte ai loro particolari bisogni. (per sintetizzare, dice che gli obiettivi
pre issati dallo IAI non sono stati raggiunti)

ANTROPOLOGIA APPLICATA- E. E. EVANS-PRITCHARD


Evans-Pritchard tra i massimi esponenti dell'antropologia sociale e affronta il problema dei
limiti e delle possibilit della ricerca applicata in antropologia, le conseguenze negative
derivanti dal trascurare la ricerca pura sulla religione e sulla magia a favore di questioni
pratiche come indirizzo o i sistemi giuridici, suggerisce quindi di utilizzare le conoscenze
antropologiche per la soluzione di problemi scienti ici i quali non hanno necessariamente
alcun signi icato pratico. Inoltre l'antropologo deve interessarsi di problemi pratici E
quando lo fa Deve essere consapevole che non sta pi operando nell'ambito antropologico
bens nel campo non scienti ico dell'amministrazione. In ine raccomanda che
l'antropologo restringa la ricerca all'analisi dei problemi scienti ici perch il contributo
dell'antropologia sociale all'attivit politica dipende dal suo progresso scienti ico Infatti egli
subordina l'applicazione alla conoscenza teorica ricordando la sua ricerca sui nuer.
Lamenta la scarsa rilevanza dei contributi antropologici: nota come la scarsit di cattedre e
quindi di ricercatori non produce una copertura totale delle culture e delle societ e questi
fattori a loro volta si ripercuotono sulla rilevanza sociale della disciplina e sulla dif icolt ad
aprire posizioni e ricevere inanziamenti ( impieghi precari, impossibilit di mettere a
disposizione le conoscenze acquisite sul campo ed abbandonare la disciplina Qualora non
ottengono una posizione accademica) Propone quindi che i governi coloniali assumano gli
antropologi con posizioni professionali stabili come parte di consiglio di amministrazione e
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Finanzino direttamente lavori di ricerca. Dopotutto studiamo le societ primitive solo come
mezzo per raggiungere un ine ovvero per raggiungere una migliore comprensione di noi
stessi e del nostro sistema sociale in quanto docenti cerchiamo di spiegare ai nostri studenti i
sistemi africani non per interesse Ma perch attraverso tale conoscenza possano arrivare a
una migliore comprensione della natura della societ umana in generale. E quindi anche del
funzionamento della loro societ , Le Scienze dell'uomo infatti devono insegnare a tutti gli
uomini qualcosa a proposito della Natura dei loro corpi, delle loro menti, della loro societ e
della loro cultura. La ragione per cui stata fatta cos poca ricerca che non ci sono
abbastanza uomini per farla, una ricerca richiede numerosi anni Pertanto necessario
aumentare il numero di ricercatori sul campo; l'unico modo per guadagnarsi da vivere con
la psicologia sociale e avere un impiego come docente, il numero di persone occupate nella
ricerca dovr essere sempre proporzionale al numero di cattedre di Antropologia
nell'universit : la situazione Oggi un po' migliorata Con l'aumento dei dipartimenti
Universitari e I governi coloniali si mostrano ora pi interessati a sponsorizzare la ricerca
antropologica nei propri territori. Evans-Pritchard conclude dicendo che l'antropologia
sociale e l'amministrazione coloniale avranno successo Se i governi coloniali permetteranno
che la ricerca venga organizzata dalle universit ed altre istituzioni in patria.

PROBLEMI ETICI E POLITICI


ANTROPOLOGIA E VITA MODERNA-S.F. NADEL
Nadel fu un antropologo britannico specializzato in etnologia africana. Il suo discorso
affronta i problemi etici della ricerca antropologica prendendo in considerazione la
dimensione etica in nome dell'oggettivit e della neutralit della scienza inendo per colludere
con governi desiderosi che gli antropologi stiano al loro posto; sottolinea la necessit che gli
antropologi prestino grande attenzione agli abusi delle conoscenze da loro prodotte e A tal
proposito cita il caso del Sudafrica dove un numero considerevole di antropologi competenti
veniva usato dal governo nello studio delle diverse societ tribali nel loro territorio. Nadel
condivide infatti la convinzione di risolvere il problema etico garantendo un maggior
controllo delle inalità delle ricerche e controllando l'utilizzo dei propri strumenti di
ricerca e delle proprie conoscenze non lasciando che siano gli altri a farlo. Poich gli
antropologi si sono interessati allo studio dei popoli primitivi, ovvero quei popoli che vivono
per lo pi sotto qualche forma di governo coloniale, le loro indagini devono essere utili ai
governi coinvolti. L’antropologia ha guadagnato terreno negli ultimi 20 anni soprattutto in
Gran Bretagna, America, Olanda e molti antropologi stanno ora collaborando con governi
coloniali ma c' un altro modo attraverso il quale l'antropologia dimostra la sua pratica: il solo
fatto che gli antropologi possono indirizzare il loro sguardo verso un'ampia gamma di culture
allontanandosi dall' etnocentrismo. Ma il problema sorge ogni volta che l'antropologo
lavora per un governo o per altri enti e in questo caso egli non pu fuggire dal suo ruolo. I
governi per non possono evitare di distruggere le vecchie tradizioni e le antiche credenze e
separano l'autorit dalla responsabilit creando nuovi ruoli e funzioni tribali ( gli antropologi
vorrebbero preservare le popolazioni autoctone da qualsiasi cambiamento e miglioramento
per osservarle) ma la verit che molti antropologi sono impegnati in ricerche inalizzate a
orientare le razze indigene sul cammino del Progresso. Il campo di lavoro di Nadel fu la
Nigeria Dove il governo aveva accettato il principio dell' indirect rule: c' una politica di
sviluppo dell'amministrazione indigena in accordo con i sistemi sociali e politici indigeni. Qui
la accusarono di agire per conto di amministrazioni e di mettere la scelta al servizio di una
politica Intesa a conservare l'Africa sottosviluppata: con questo cap che l'antropologo che
lavora per i governi rischia di essere identi icato con le loro politiche e deve accollarsi parte
delle loro responsabilit ; se l'antropologo Fornisce notizie reali pu essere proprio attraverso
queste informazioni che le politiche siano realizzabili con successo. La risposta di Nadel fu
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che a uomini dotati dovrebbe essere concesso di trattare problemi: loro in luenzano il destino
della societ e l'antropologo non ha niente di cui vergognarsi o da temere se deve scendere
nell'arena con i politici Perch pu rivendicare i suoi valori e standard etici che discendono
dalla logica della sua disciplina. (non pi cosa vero o cosa falso - metodo scienti ico - ma
cosa giusto e cosa falso - prospettiva etica)

ANTROPOLOGIA APPLICATA E POLITICHE DELLO SVILUPPO-L.P.MAIR


Mair in questo articolo affronta la relazione tra ricerca scienti ica e bisogni sociali e fra
scienza pura e scienza applicata e la loro integrazione. La prospettiva applicata viene
identi icata con la produzione di una conoscenza attenta al cambiamento sociale E tale
approccio permette all'antropologo di illustrare le possibilit e Limite delle azioni politiche, A
tal proposito cita differenti lavori: Firth la ricerca di le implicazioni prodotte dalle politiche
governative- lo studio di Freedman sulle modalit e circostanze in cui le campagne di salute
pubblica devono essere organizzate- Belshaw il lavoro di sulla necessit di fondare gli
interventi sui bisogni locali e di spiegare i cambiamenti che si vogliono introdurre.
Quest'articolo elabora prospettive critiche nei confronti delle politiche coloniali e mette in
discussione la forma indiretta del dominio coloniale sottolineando come abbia costituito un
forte meccanismo di cambiamento culturale; la presunta preservazione delle istituzioni
africane tradizionali ha In realt ha prodotto la loro distruzione. In ine sottolinea come il
legame tra funzionalismo dell'indirect rule politiche non fosse cos stretto ma il sistema di
resto era impegnato nella creazione di una classe di leader politici indigeni in Europa per
produrre radicali cambiamenti economici e politici sostenuti da interessi internazionali.
(aggiunge che schierarsi sia un dovere morale per l’antropolog*)

IL SIGNIFICATO DELL’ANTROPOLOGIA APPLICATA PER LA TEORIA ANTROPOLOGICA-B.


BENEDICT
Benedict nel suo articolo elabora un intervento fatto al Society for Applied Anthropology
( organizzazione fondata nel 1941 Con lo scopo di promuovere l'integrazione di prospettive e
metodi antropologici nella risoluzione dei problemi umani in tutto il mondo, sostenere
politiche pubbliche, promuovere il riconoscimento dell'antropologia come professione e
sostenere la professionalizzazione del settore). Negli Stati Uniti antropologia applicata ebbe
un esordio precoce rispetto al resto del mondo, inaugurata dai problemi della sopravvivenza e
dell'adattamento dei Nativi; si consolid durante la Seconda Guerra Mondiale grazie alla
collaborazione tra antropologi e Governo, inalizzata a fornire dati per la comprensione della
psicologia culturale del nemico. In seguito si svilupp anche in Europa a causa del
coinvolgimento governativo e dello sviluppo nei paesi del terzo mondo. Il testo qui presente
da un lato si oppone alla posizione di Nadel e Foster secondo i quali l'antropologo dovrebbe
farsi lui stesso amministratore, ma osserva che questo condurrebbe a confusioni di
ruoli ,portando l'amministratore in qualit di antropologo a dover analizzare anche tu testo?
quindi ritiene sia necessario differenziare gli amministratori dagli antropologi mentre: i primi
hanno la necessit di trovare rapide soluzioni ai problemi, i secondi necessitano tempi pi
lunghi per le loro ricerche. Critica le concezioni di Evans-pritchard considerandole
responsabili dell' incomprensione tra antropologi e amministratori. Secondo Benedict
l'antropologia applicata non deve essere concepita come una disciplina autonoma ma
radicata nelle Teorie e nei metodi dell'antropologia: essa una scienza fondata
sull'elaborazione, sulla veri ica e modi ica delle ipotesi dell'antropologia generale, attraverso
un lavoro sul campo e una conoscenza speci ica delle diverse aree di studio. Il solo modo per
l'antropologo applicato di essere utile nello studiare oggettivamente il funzionamento del
sistema amministrativo e i suoi effetti sul cambiamento sociale e sullo sviluppo.
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Af inch l'antropologo non faccia pressioni sono essenziali diverse cose: l'antropologo deve
conoscere il suo campo - le predizioni devono essere formulate in modo da poter essere
veri icate e devono trattare problemi speci ici - nuovi studi devono essere fatti sul campo per
vedere se le spedizioni sono valide o per modi icare le foto?. Benedict individua tre modi in
cui l'antropologia applicata si collega alla teoria antropologica: Il primo attraverso la
previsione delle conseguenze di una proposta di innovazione; il secondo per mezzo della
formulazione di raccomandazioni; il terzo applicando una teoria a una situazione in cui i
risultati possono avere conseguenze pratiche. Tutte e tre le modalit implicano una
conoscenza del Campo, la formulazione di previsioni veri icabili negli studi per vedere se le
previsioni siano confermate; in ine l’antropologia applicata dovrebbe essere il banco di prova
della teoria.

LA DECOLONIZZAZIONE DELLE SCIENZE SOCIALI APPLICATE – R. STAVENHAGEN


Stavenhagen nel suo lavoro sottolinea il legame stretto tra antropologia e imperialismo
considerando le potenzialit che l'antropologia pu sviluppare nei confronti delle strutture,
politiche coloniali imperialistiche e totalitarie. Il suo discorso di ispirazione marxista mette
in discussione i presupposti delle scienze sociali. Reclama lo sviluppo di un approccio in
grado di spiegare cosa sia la societ : la teoria sociale si basa su presupposti sbagliati
derivanti da teorie inadeguate sulla struttura sociale dei villaggi rurali ignora i suoi legami con
la societ pi bassa, sottovalutando i modelli di dominio, le strutture di potere e le potenzialit
con littuali fra i gruppi, Per questo la scienza sociale deve distaccarsi dallo studio dei
sottomessi per interessarsi allo studio delle elites dominanti; secondo l'autore la vera
comprensione delle forze sociali in un processo di cambiamento richiede lo studio del sistema
di dominazione: solamente in questo modo le scienze sociali possono de-colonizzarsi.
Conclude auspicando un impegno attivo da parte del ricercatore, superando la tecnica
dell'osservazione partecipante a favore dell' osservatore attivista cio del militante e
osservatore con ci intende una sintesi tra ricerca e partecipazione nel processo di
cambiamento sociale.
Karl Marx l'ha formulata in questo modo " la teoria diventa una forza materiale appena si
impadronisce delle masse": con questo intende che una teoria veri icata diventa
conoscenza e pu diventare ideologia se usata come guida all'azione e se convalidata dalla
praxis ( comportamento organizzato intenzionale dei gruppi sociali): cessa di essere una
semplice teoria e diventa realt sociale. La teoria sociale pi utile quella che pu essere
convalidata attraverso la soluzione pratica dei problemi quotidiani della vita reale.

ANTROPOLOGIA=IDEOLOGIA ANTROPOLOGIA APPLICATA=POLITICA – A.G. FRANK


Frank scrive un articolo come commento al saggio di M. Freedman e contrappone al suo
approccio un discorso che affonda le sue radici Nello storicismo marxista e nella teoria
della dipendenza: Frank Considera lo sviluppo e il sottosviluppo come prodotto storico delle
relazioni politico-economiche tra paesi industrializzati e paesi del terzo mondo: non sono
quindi le strutture interne tradizionaliste a rendere una societ sottosviluppata ma le
relazioni esterne con le societ occidentali. Egli sostiene che il sottosviluppo si fonda
sull'annientamento sistematico delle possibilit di sviluppo autonomo indigeno, creato dallo
sfruttamento coloniale e dalla necessit di espansione; i Gap tra i paesi sviluppati e
sottosviluppati si intensi ica a partire dalla seconda guerra mondiale. Il modello teorico di
Frank chiamato sviluppo del sottosviluppo considera il sottosviluppo come un processo
dinamico causato dall'incorporazione di satelliti periferici da parte dei centri metropolitani
come produttori di materie prime e fornitori di Lavoro; da queste prospettive discute la
funzione delle scienze e in particolare dell'antropologia illustrando come tutta la ricerca sia
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basata su criteri ideologici e politici e auspica un impegno attivo da parte del ricercatore nei
processi di cambiamento sociale che sappia coniugare ricerca e partecipazione in politica.
Invita cos Le Scienze Sociali ad abbandonare Lo studio delle popolazioni per interessarsi
all'analisi dell'elite che le controllano.

L’ANTROPOLOGIA APPLICATA COME SCIENZA TEORICA DELLA PRATICA – R. BASTIDE


Bastide considerato tra i massimi studiosi delle religioni Afro brasiliane un importante
teorico della antropologia applicata, qui affronta i problemi del rapporto tra ricerca pura e
applicata e offre una soluzione alternativa a quelle tradizionali. Si oppone Inoltre al
pensiero di derivazione marxista che lega il pensiero all'azione e ritiene che queste teorie
trasforma l'antropologia applicata in una scienza della prassi riformatrice o rivoluzionaria;
difende la concezione della antropologia applicata per la quale essa una disciplina
scienti ica separata dall'antropologia generale il suo oggetto la conoscenza teorica e
non pratica dell'alterazione delle culture e della societ , in tal senso l'antropologia applicata
una scienza fondamentale che ha per oggetto lo studio dell'azione dell'uomo sulla
natura, si tratta di un nuovo capitolo della antropologia. Egli de inisce lo studio dell' homo
moderator rerum: questa scienza analizza l'azione e la piani icazione con gli stessi Metodi e
tecniche con cui l'antropologia analizza i sistemi di parentela, le istituzioni economiche e
politiche e processi di cambiamento; i contributi di essa sono: permettere di mettere in luce
nuovi oggetti di studio legati al cambiamento - condurre l'antropologia generale a un
avvicinamento alla sperimentazione, evidenziando le cause e i determinismi che consentono
di formulare le leggi - in grado di guidare la piani icazione.

CRITICA POST-MODERNA E POST-SVILUPPO


LA MACCHINA ANTIPOLITICA-J. FERGUSON
Ferguson è un antropologo statunitense specializzato nell'analisi critica delle politiche
della cooperazione internazionale allo sviluppo, e nel suo brano analizza alcuni progetti
attuati a Lesotho Dove vi erano circa 80 organizzazioni internazionali. Ferguson presenta il
discorso dello sviluppo come una narrativa dell'egemonia occidentale e lo decostruisce nei
suoi elementi costitutivi illustrandone il carattere manipolativo nel cercare di imporre modi di
essere e di pensare. Inoltre Fornisce la possibilit di isolare lo sviluppo Come farsi culturale
mantenendo l'attenzione sulla dominazione. Infatti per l'autore lo sviluppo costituisce un
problema dominante e uno strumento interpretativo attraverso il quale comprendere le
nazioni impoverite nel globo; considera le concezioni e le pratiche dello sviluppo come
prodotto degli interessi dell’Occidente e di forme di dominio nei confronti del terzo mondo.
L'apparato sviluppista viene inteso come una macchina antipolitica che promuove un potere
burocratico che imprigiona i progetti e le potenzialit . Egli Esamina come gli interventi di
sviluppo statali inibiscono le s ide politiche del sistema aumentando i poteri
dell'amministrazione e la repressione considerando le questioni politiche della terra, delle
risorse e dei salari come problemi esclusivamente tecnici. Analizzando i fallimenti delle
Agenzie di sviluppo nel produrre stabilit Ferguson invita a notare Come Ci che conta in un
progetto di sviluppo ci che si realizza anche attraverso i suoi effetti collaterali. ( una chiara
critica al capitalismo: esso si fonda sullo sfruttamento e sull’ineguaglianza. Per funzionare
deve sempre sfruttare qualcuno per tenersi in piedi e reiterarsi. Egli nota come le stesse
politiche di sviluppo non siano pensate guardando alla particolarit culturale ma sono
standardizzate es. le stesse politiche vengono proposte sia in Africa che in America Latina
ecc.)
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LA COSTRUZIONE SOCIALE DELLA CONOSCENZA-N.LONG
Long uno scienziato sociale britannico specialista dell'analisi delle politiche dello sviluppo e
propone un approccio actor oriented che sottolinea la reciprocazione e la mutua
determinazione tra gli attori coinvolti nei processi di cambiamento tra fattori interni esterni
e tra le differenti divisioni del mondo, strategie e forme di razionalit . Questo modello teorico
e metodologico si fonda sul riconoscimento delle realt multiple e delle diverse pratiche
sociale dei diversi attori considerando il cambiamento sociale e implica un confronto tra
interessi e differenti mondi;la proposta di Long si concentra sui processi attraverso i quali il
ricercatore entra nei mondi della vita del ricercato e Per fare ci importante un'etnogra ia
ri lessiva negoziale e dialogica; inoltre l'autore sottolinea che la teoria e la metodologia
debbano fondarsi su un esperienza di campo che unisce i problemi teorici a quelli pratici e
l'elaborazione di una struttura concettuale che da priorit alla comprensione delle situazioni
di vita quotidiana. Si oppone alla distinzione tra livelli micro e macro. Long, da un lato,
considera come le pratiche locali includano le rappresentazioni macro e siano da esse formate.
Dall’altro sostiene che i fenomeni macro siano intellegibili solamente nei contesti situazionali
e dunque si fondino sui signi icati loro attribuiti attraverso le esperienze e i problemi dei
differenti interlocutori.

LO SVILUPPO DELL’IGNORANZA-M. HOBART


Hobart analizza ruolo giocato dalla Conoscenza scienti ica occidentale nei processi di
sviluppo mettendola a confronto con le conoscenze indigene soppresse, sostiene che la
conoscenza tecnica sia trattata come una merce da vendere. Esamina le motivazioni per cui
la valutazione dell'ef icacia dei progetti sia stata per tempo ignorata, considera quindi come
l'epistemologia scienti ica sia meno empirica e i costanti fallimenti che produce Infatti non
riescono a provocare una trasformazione. Si contrappone ai sociologi e antropologi che
rimangono prigionieri della stessa epistemologia scienti ica razionale sottovalutando il
cambiamento: Da un lato la modernizzazione si fonda su una considerazione evolutiva
unidirezionale del cambiamento ponendo l'enfasi sulle mancanze delle istituzioni e
l'incapacit dei soggetti, dall'altro la teoria della dipendenza che Riconosce i processi sociali e
storici e cio il fatto che le strutture di dipendenza siano prodotte dall'espansione del sistema
capitalistico. Considera le persone come vittime delle forze dell'economia del mercato.
Viste le grandi somme investite per cercare di trovare una soluzione al problema del
sottosviluppo le questioni dovrebbero migliorare; invece sembra che i progetti di sviluppo
spesso contribuiscono il deterioramento: un aspetto ignorato di tale sviluppo la parte della
Conoscenza scienti ica occidentale. Vengono ignorate anche le conoscenze indigene
( l'epistemologia scienti ica sostiene le teorie dello sviluppo); lo sviluppo spesso collegato
alla modernizzazione Ma questa vista come la trasformazione delle societ tradizionali in
societ moderne caratterizzate da una tecnologia avanzata, dalla stabilit politica e dalla
prosperit materiale. Le teorie sono indeterminate e consistono in rappresentazioni di eventi
che hanno conseguenze sul potere e sulla conoscenza. Accade che i locali attribuiscono
L'ignoranza a sviluppatori e funzionari e l'ignoranza Pu essere usata come strumento per
ignorare ci che gli altri dicono o fanno. Parlare di strategie di resistenza o di ri iuto da parte
di coloro che vengono designati come inferiori signi ica assumere che riconoscono e si
sottomettono alle rappresentazioni egemoniche di loro stessi e per questo motivo l'autore
suggerisce di riutilizzare L'Antica parola “obliare” che implica un'attiva ignoranza di tali
rappresentazioni e lo sviluppo del proprio punto di vista. (la scienza occidentale l’unica
considerata nei processi di modernizzazione, mentre e tecniche tradizionali sono viste come
arretrate; le conoscenze tradizionali sono quelle de inite dagli occidentali come il motivo di
fallimento delle pratiche di sviluppo; lo sviluppo - per i “tecnici” dello
sviluppo=modernizzazione, dunque non un processo neutrale; il governo nazionale e i suoi
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funzionari locali hanno poteri speci ici e conoscenza, con le loro chiusure→ Analisi
dell’incommensurabilit tra i discorsi tra gli “sviluppatori”, “sviluppati” e governo. Esperienza
dell’antropologo utile alla comunicazione)

LO SVILUPPO E L’ANTROPOLOGIA DELLA MODERNITA’ - Immaginando un’era post-sviluppo -


A. ESCOBAR
Escobar un antropologo colombiano esponente dell’antropologia dello sviluppo.
Approfondisce il discorso e interpreta il lavoro speci ico dell’antropologia come strumento per
mostrare il funzionamento delle istituzioni e delle burocrazie coinvolte nei processi di
cambiamento. Il saggio mostra come le strategie dello sviluppo abbiano prodotto il loro
contrario: fame, povert , sottosviluppo, sfruttamento e oppressione. Discorso dello
sviluppo=regime di rappresentazioni, discorsi costruiti che formano un’immagine del Terzo
Mondo. Cerca alternative nei movimenti di resistenza locali. Discorso sullo sviluppo=
etnocentrico, tecnocratico e violento, che tratta le persone come astrazioni, igure statistiche
da muovere sulla scacchiera del progresso. Egli rimpiazza questa idea con il pensiero di una
realtà locale ibrida, dove le culture tradizionali si trasformano con la modernit , sfruttando
le potenzialit politiche dei gruppi minoritari. Da questa prospettiva il Terzo Mondo avrebbe
contributi unici da apportare alle con igurazioni e agli sforzi intellettuali e politici.
Antropologi sono stati sia dentro lo sviluppo, come antropologi applicati o fuori dallo sviluppo
come “paladini” dell’indigeno e del punto di vista del nativo. In questo modo hanno trascurato
i modi in cui lo sviluppo opera. Gli antropologi che hanno studiato i processi di sviluppo
chiedono uno smantellamento dello stesso. Il nuovo compito quello di produrre nuove
concezioni di cultura come interattiva e storica. L’ibridizzazione culturale produce realt
negoziate in contesti formati dalla tradizione, dal capitalismo e dalla modernit .

POSTFAZIONE - L’uso sociale dei saperi dell’antropologia - MALIGHETTI


-La ri lessione contemporanea si interessa ai contesti piani icatori e alle loro interrelazioni
con le popolazioni “bersaglio”
-cambiamenti nello statuto del sapere: decostruzione di topoi tradizionali dell’antropologia
(cultura, comunit identit , etnia, razza, trib , nazione)--> accezione di dinamicit , arti icialit ,
apertura, contingenza, precariet → nuove de inizioni alternative rispetto a quelle
essenzialistiche e rei icanti → “ethnoscapes”: luogo, cultura e identit spesso non coincidono,
sono delocalizzate e deterritorializzate→ complessit dei contesti-->culture come “ inzioni”--
>necessit di analizzare relazioni strati icate e asimmetriche
-modalit negoziali e polifoniche sono considerabili un topos dell’antropologia applicata, a
partire da Malinowski e dal suo concetto di “total contact situation” come un tertium quid,
nato dall’inedito incontro tra societ bianca e nera.
-Stavenhagen e Frank si interessarono al collocamento dei gruppi sociali all’interno della
struttura di dominio
-Bastide: antropologia applicata=homo aleator et moderator rerum → proposta di analizzare
“progetti d’azione” come “opere culturali”
-In Italia, negli anni ‘60 Seppilli teorizz l’”uso sociale” del sapere antropologico a partire dalla
stretta collaborazione fra attori sociali e decisori politici al ine di promuovere ef icaci
strategie di intervento → “uso sociale”=alternativa all’espressione “antropologia applicata”
(Bastide)--> superare idea di neutralit della ricerca applicata e del suo utilizzo tecnicistico-
strumentale (Seppilli)
-utilizzo di paradigmi post-moderni, dialogici e ri lessivi + analisi discorsive di Foucault →
rimessa in discussione degli strumenti teorici e metodologici nel contesto del cambiamento
piani icato→ approccio etnogra ico aperto
-Long: analisi dell’ideologia e della pratica dell’intervento umanitario → mette in luce il
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carattere ibrido della relazione tra strategie e attori
-Escobar: paradigma scienti ico “nomade”, costituito da ricerche multivocali e multisituate,
attento alla vita quotidiana

Emergenza come ine dello sviluppo


-rilancio della professionalit dell’antropologia nella cooperazione internazionale→ rimessa in
discussione del paradigma unilaterale e gerarchico, con la considerazione di interventi
negoziali, concordati e riformulati, in un continuo processo dialogico → ripensamento del
concetto di sviluppo + “sottosviluppo” come esito della dipendenza con le societ
“sviluppate”--> Ferguson + Escobar = “discorso sullo sviluppo” → narrativa dell’egemonia
occidentale
- iato incolmabile tra i programmi delle agenzie x lo sviluppo e le pratiche “reali” → “effetti
collaterali” = strumento di potere → unici paesi a svilupparsi ed arricchirsi=paesi
“benefattori”--> approcci cambiamento piani icato: fallimentari + aumento delle
disuguaglianze + rapporti di dipendenza e dominio→ “Sono i paesi poveri ad aiutare i ricchi”
-La limitatezza del nostro pianeta renderebbe la diffusione generalizzata dello sviluppo
impossibile ed esplosiva, aumentando la competizione su risorse sempre pi scarse, degrado
ambientale e guerre economiche → Sviluppo dei pi poveri renderebbe impossibile lo
sviluppo illimitato dei pi ricchi e l’accumulazione capitalistica
-organizzazione sviluppista= evoluzione fondata necessariamente sulla “dipendenza”,
garantendo prosperit solo in poche aree del pianeta. Si fonda sullo sfruttamento dei
“variegati eserciti industriali di riserva”, per usare un’espressione marxista.
-Si assiste a una “re-brandizzazione” del termine “sviluppo”, ino ad arrivare al ridicolo
ossimoro dello “sviluppo sostenibile”
-Categoria di “emergenza” → standardizzazione delle procedure → forma di sovranit
arbitraria, senza alcuna mediazione, autorizzata a sospendere la validit della legge→ pratiche
di sviluppo come forme di neo-colonialismo→ urgenza issa, intensa attivit non negoziabile→
tecnicizzazione dei problemi sociali → sottosviluppo e tragedie come problemi apolitici,
meccanici e naturali, ritenuti fenomeni locali e non globali. Il dispositivo dell’emergenza come
“macchina anti-politica” sospende la “politica”, alimentando fatalismo, assistenzialismo e la
dipendenza, neutralizzando le potenzialit locali. Al ine di garantire produttivit , ordine,
stabilit e sicurezza le imprese emergenziali si appoggiano alla logistica militare, la stessa che,
magari, ha occupato il territorio straniero → costrette a svolgere un ruolo ausiliario
all’occupazione militare→ “sovranit mobili” (Appadurai): realt che si spostano nel mondo
imponendo regole e imperativi, giusti icati come “universali”--> violazione della sovranit
degli stati, sostenuta dai media, dai mercati e dalle guerre “ giuste”. Le comunit di esperti
iniscono per riprodurre nuovamente le dinamiche dell’indirect rule→ sussumono gli
interlocutori in grandi classi ideali che enfatizzano l’omogeneit , solidariet , agire collettivo in
categorie cos chiuse e rigide, ignorando le gerarchie interne
- Ruolo delle ONG→ formazione di diplomazie non governative parallele, partecipazione a
importanti processi decisionali, contribuendo anch’esse all’indebolimento delle sovranit
statali → privatizzazione del settore umanitario. L’uso dell’informazione, determinata dalle
regole di mercato e dalla necessit di sopravvivenza, costringe a manipolare il lavoro
umanitario, producendo immagini forti, emotive, compassionevoli, arrivando a
spettacolarizzare il dolore → “sofferenza a distanza” (Boltanski): impossibilit di critica e di
controllo
-Nella quarta parte dell’antologia gli autori sottolineano la necessit di trovare alternative allo
sviluppo, non sviluppi alternativi → metodo actor-oriented (Arce e Long)
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Centralità dei margini
-Concetto di “modernit multiple”, prodotte da scambi, negoziazioni e con litti fra diverse
forme di modernit e tradizione. Rielaborazioni locali della modernit , separazione del
globale dall’universalit astratta delle ideologie dominanti → idee e pratiche della modernit
vengono riappropriate e re-inserite nelle prassi locali → modernit costruite dal basso.
L’antropologia ha un ruolo fondamentale nell’individuare questi processi
-I “dannati della terra” (Fanon) inaugurano nuovi orizzonti, moltiplicando i posizionamenti →
i soggetti impongono i propri signi icati o si riappropriano di quelli imposti → superamento
delle dicotomie ( identit -alterit , omogeneit -differenza, egemonia-subalternit , centro-
periferia, sviluppo-sottosviluppo). Gli antropologi si ritrovano ad avere a che fare con queste
nuove soggettivit
-stato di eccezione (Agamben e Schmitt) - non l’ho capito bene, lo trovate a pag. 370 - 371 →
determina una forma di “inclusione-escludente” che trasforma gli esseri umani in entit
astratte pronte a essere censite, contate, catalogate ed etnicizzate.
-Il dispositivo di emergenza si con igura come un biopotere (Foucault) → corpi indistinti e de-
localizzati, di cui prendersi cura→ rivela la relazione tra Stato e individui, sottolineandone i
paradossi: cittadini come semplici corpi
-laboratori di pratiche di cittadinanza dai “margini” → contributi importanti → possibilit di
soggettivit decentrate, delocalizzate
-Risemantizzazione del concetto di cittadinanza, fondato sul “diritto di avere diritti”-->
processo costruttivo, legittimit della differenza. Decostruzione degli usi dell’identit →
riproducono strategie di dominio
-Pensare alla centralit dei margini attraverso l’analisi etnogra ica = individuare forme di
costruzione della cittadinanza a partire dalle pratiche dei gruppi “marginali”, interpretare la
speci icit cross-culturale de inita da Kluckhohn “il giro pi lungo” (quello che fa Urru quando
non carica le lezioni mannaggia a lui), che “la via pi breve per tornare a casa”.
-Dalla loro centralit le voci dei margini permettono di pre igurare i pro ili di cittadinanza
transnazionale, lessibile, postnazionale e cosmopolita → orizzonte politico= l’intero pianeta.
-Per questi motivi lo scienziato sociale non pu semplicemente occuparsi dei fallimenti dei
progetti di cooperazione internazionale, ma piuttosto coniugare l’analisi etnogra ica e
trasversale con l’esercizio critico e la pressione politica. Antropologia nello spazio pubblico.
-(citazioni di Geertz riciclate e presenti negli altri suoi libri)
-Said: l’antropologo applicato non n un paci icatore, n un arte ice del consenso, qualcuno
che ha scommesso tutta la sua esistenza sul senso critico, la consapevolezza di non essere
disposto ad accettare le formule facili, modelli prefabbricati ecc. Capacit che si ri lette nella
volont attiva di usare la parola in pubblico.
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ANTROPOLOGIA APPLICATA

Introduzione

Dal na vo che sta cambiando al mondo ibrido

Nel senso più generale il termine antropologia applicata si riferisce all’uso dei conce e dei metodi antropologici per
o enere scopi speci ci, generalmente fuori dal contesto accademico. Il nucleo di questa disciplina consiste in ricerche
commissionate da organizzazioni pubbliche o private nalizzate al conseguimento di risulta pra ci congruen con gli
interessi dei commi en .

Generalmente le di eren de nizioni dell’antropologia applicata si fondano sulla comune so olineatura dello studio
del cambiamento come cara ere essenziale. Tu e le a uali de nizioni della disciplina hanno le loro radici
nell’antropologia sociale britannica degli anni trenta e quaranta. Di scuola funzionalista, hanno inaugurato la disciplina
come lo studio del cambiamento sociale.

Vi è uno stre o legame fra la nascita dell’antropologia applicata e la fondazione, nel 1926, dell’interna onal Ins tute
of African Languages and Cultures di Londra (successivamente Interna onal African Ins tute) voluto e dire o da Lord
Lugard, importante gura coloniale, governatore di Hong kong e della Nigeria e teorico dell’indirect rule. Nel primo
numero della rivista Africa Lord Lugard osservava che gli scopi dell’antropologia non potevano restringersi solamente
allo studio scien co, ma dovevano dirigersi anche verso una stre a associazione fra conoscenza scien ca e ricerca
negli a ari pra ci. Queste concezioni hanno guidato le successive ricerche dell’is tuto, concentrate sullo studio
compara vo dei cambiamen prodo nella società africana dall’impa o con la cultura europea.

Bronislaw Malinowsky è generalmente ritenuto il fondatore dell’antropologia applicata, avendo coniato l’espressione
antropologia pra ca. Con i suoi ar coli del 1929 e 1930 e quello del 1940 inaugurò l’applicazione della prospe va
funzionalista e della nuova metodologia allo studio dei fenomeni del cambiamento sociale, per analizzare le società nel
loro funzionamento nel presente so o l’impa o cioè della civilta occidentale.

In stre a connessioni con L'IAI si sviluppo il lavoro di altre is tuzioni e crea tre importan is tu di ricerca in Africa
orientale, occidentale e centrale come il Rhodes livingstone Insitute il cui primo dire ore, Wilson fu nominato grazie al
sostegno di Lugard e Haley governatore del Punjub e autore African Survey.

L’antropologia applicata nasceva quindi come scienza africanista nalizzata allo studio del cambiamento sociale nelle
colonie e a suggerire azioni competen sul futuro dell’Africa.

Nell’ar colo del 1929 M. intende l’antroplologia applicata come scienza necessaria all’amministrazione coloniale. Nella
poli ca dell’indirect rule scorse una scelta posi va sia per abba ere i cos dell’amministrazione sia per mantenere
spazio decisionale alle tradizionali autorità africane.

Agli esordi della disciplina si possono trovare le principali problema che che cara erizzano l’antropologia applicata
contemporanea, ma in par colare è comune la subordinazione della disciplina agli interessi del commi ente che
domina il campo degli interven .LE RELAZIONI TRA DOMINANTI E DOMINATI PERSISTE ANCHE NELLA
CONTEMPORANEITà.

Malin. In modo pionieris co Nell’ar colo del 40 sos ene la necessità che l’antropologia studi i comportamen e i pun
di vista europei insieme a quelli africani poiché considera la società bianca e quella nera come parte di un TOTAL
CONTACT SITUATION. Il processo infa è sempre so oposto a una doppia in uenza collaterale: quella delle imprese
europee e quella della tradizione tribale. M. de nisce ter um quid questa situazione in cui non c’è mescolanza ma un
nuovo fenomeno di conta o e cambiamento che risulta essere il terzo elemento della triade, che produce a vità,
is tuzioni e leggi che non sono né completamente europee né interamente africane.

Questa sollecitazione su uno studio di entrambi le par che concorrono alla creazione della nuova società viene
considerata anche da altri studiosi.

In par colare i lavori di ispirazione marxista di Rodolfo Stavehagen e Gunder Frank chiedono alla scienza di distaccarsi
dallo studio dei so omessi per interessarsi allo studio delle elites dominan e al sistema di dominazione
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Ricerca pura e ricerca applicata

Mol antropologi si sono dimostra molto cri ci nei confron dell’antropologia applicata considerandola di livello
secondario e gerarchicamente inferiore meno impegna va assumendo anche tonalità discriminatorie sessiste.

Agli albori della disciplina è individuabile un approccio de nibile come “immediato”, nel senso che coniuga l’approccio
teorico funzionalis co che considera la neutralità dell’informazione teorica ai fa in modo meccanico. Nell’ar colo del
1929 M. de nisce il po di sapere prodo o dall’antropologia come informazione tecnica e lo considera
meccanicamente applicabile.

Rileva inoltre che nelle scienze sociali, come nelle scienze naturali,” è il rapporto reciproco fra teoria e applicazione che
conduce i progressi più fru uosi”. Tale relazione deve cos tuire il modello per un’e cace cooperazione tra
antropologo e amministratore coloniale.

Lucy Mair sviluppa la prospe va di Malinowsky e Nadel si spinge oltre proponendo di far convergere la gura
dell’amministratore con quella dell’antropologo.

Evans-Pritchard nell’ar colo del 1946 riportato sul testo si contrappone a queste posizioni a ermando che
l’antropologia deve occuparsi di problemi scien ci perché il contributo che può dare nella realtà sociale è data
proprio dal suo progresso scien co. Diversamente si rischierebbe di perdere di vista l’interesse stesso della disciplina
(studio delle religioni, della magia e dei rituali). Inoltre a erma che non è possibile concentrarsi su entrambi le
ques oni (problemi teorici e pra ci). Quindi occuparsi di cose pra che signi ca operare in campo dell’amministrazione
e non piu in quello antropologico.

Burton Benedict, nel suo ar colo del 1967 mostra una grande di denza nei confron di qualunque tenta vo di
coinvolgimento degli antropologi in a vità poli co-amministra ve e contesta l’idea di Nadel e Foster di sovrapporre le
due gure che porterebbe a confusione e contraddizioni.

Il saggio di Bas de propone una soluzione originale e alterna va. Si oppone alla concezione marxista che lega il
pensiero all’azione e ricongiunge la ricerca pura con la ricerca applicata come scienza della prassi riformatrice o
rivoluzionaria.

I lavori di matrice marxista di Rodolfo Stavenhagen e Gunder Frank esprimono una cri ca radicale nei confron della
neutralità della scienza e sostengono che tu a la ricerca sia necessariamente basata su criteri ideologici e poli ci.
Considerando lo stre o legame tra antropologia e imperialismo, me ono in discussione i presuppos fondamentali
delle scienze sociali. Entrambi considerano le potenzialità che la praxis antropologica può sviluppare nei confron delle
stru ure poli che neocoloniali e auspicano a un impegno a vo da parte del ricercatore nei processi di cambiamento
sociale che sappia unire ricerca e partecipazione.

La professionalità antropologica

L’apporoccio funzionalista all’antropologia (un analisi ogge va di un campo chiuso e de nito che perme e di arrivare
a generalizzazioni a raverso l’analisi dell’interrelazione delle par che la compongono) viene ancora oggi u lizzata e
contraddis ngue le prime due par del volume.

Nell’ar colo del 1929 M. , facendo riferimento all’abolizione del potlach, sos ene l’impossibilità di comprendere la
ques one del possesso della terra o del lavoro na vo se non come parte del problema del loro sistema di valori,
incen vi e u lità. Sos ene inoltre che essa non possa prescindere dal considerare gli aspe sociali, come il sistema di
parentela o i diri magici o la mitologia. Cita a tal proposito il caso dell’appropriazione del Seggio d’oro degli ashan
da parte del governatore della costa d’avorio. So olinea il legame fra l’amministrazione della gius za e gli sviluppi della
vita sociale ed economica e auspica l’elaborazione di una conoscenza del ruolo della legge tra le forze che regolano la
società indigena.

Wilson, allievo di M. in accordo con il maestro, auspica che lo scienziato sociale consideri ogni situazione sociale come
un tu o (fa o sociale totale).
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Audrey Richards, propone l’apertura della disciplina antropologica a campi di altri specialis (economia, diri o,
poli ca). Enfa zza l’importanza del metodo di Malinos. e della produzione monogra ca e la speci ca professionalità
viene fa a coincidere con la sua neutralità, come sos ene anche M. nel suo ar colo del 1929: “ solo l’antropologo
avrebbe le competenze per fornire un resoconto privo di pregiudizi e imparziale dell’e e vo stato delle cose”.

Mitchell, allora segretario degli a ari dei na vi in Tanganika, in un ar colo del 1930 aveva escluso ogni competenza
dell’antropologo nei fa amministra vi, ri utando l’u lità pra ca della ricerca teorica e sostenendo che la conoscenza
dei na vi non richiedesse alcun sapere scien co. Secondo Mitchell qualsiasi uomo pra co di buon senso avrebbe
potuto fornire informazioni u li al governo delle colonie.

Contro queste posizioni Malinowsky fa valere la novità e l’importanza del metodo funzionalista. Ribadisce che la
nuova teoria indirizzi la propria a enzione verso le condizioni del presente, “in uno studio compara vo dei processi
culturali e delle loro leggi, piu osto che delle origini e delle storie concrete”come fecero gli evoluzionis .

M. mostra come il mancato u lizzo dello specialista sia fra le cause reponsabili dei fallimen delle poli che coloniali.

Wilson me e in evidenza la scarsa preparazione di missionari, esper , dirigen vari e amministratori. E Richards nota
come l’uomo pra co non sarà mai in grado di raccogliere il materiale e neppure trovare il tempo per organizzarlo e
possedere il distacco scien co per analizzarlo.

Sospe , con i , incomprensioni

La tendenza dell’uomo pra co (1929) “ a disprezzare ignorare e persino a irritarsi per ogni po di incursione
dell’antropologo nella sua sfera di azione” permeò in modo duraturo le amministrazioni. Richards nel 1977 ribadì la
rilu anza degli amministratori a concedere all’antropologo una specializzazione.

Gli stessi tenta vi pionerisi ci di amministratori inglesi come Lugard e Hailey non furono corona da successo. Il
diba to sulla rivista Africa non porto a una maggiore comprensione reciproca quanto a una polarizzazione delle
posizioni. Fino alla seconda guerra mondiale i governatori si astennero dal nanziare la ricerca antropologica.

Si potrebbe individuare un rapporto inversamente proporzionale fra interessi coloniali e riconoscimento (ad esempio
in Rodesia). Al contrario è possibile indicare un rapporto dire o fra erogazione di fondi per la ricerca e cri ca
antropologica al colonialismo (Colonial O ce negli anni 50 dove ci furono le prime cri che).

E’ quindi poco appropriato ridurre i rappor tra antropologi e amministrazioni coloniali al semplice appia mento dei
primi sulle esigenze dei secondi. Secondo M. il problema è riconducibile al fa o che gli antropologi avevano prodo o
poche conoscenze u li agli amministratori no a quel momento. M. nell’Art. del 1940 riconduce tali lacune agli
approcci evoluzionis ci che non si occuparono dei problemi fondamentali della disciplina ma di bizzarrie o cmq aspe
secondari (couvade).

Alla ne degli anni 50 Richards considerò che il maggior contributo dell’antropologia sia stato un’in uenza sulle
opinioni piu che risposte a speci che richieste. So olinea la mancanza di antropologi prepara sia nelle competenze
teoriche che pra che.

Evans -Pritchards nel 1946 so olinea il numero limitato degli antropologi e le poche ricerche fa e in Africa e Nuova
Guinea. Denuncia la scarsità dei dipar men di antropologia e gli irrilevan nanziamen per la ricerca come
responsabili del limitato sviluppo della scienza. Inoltre propone l’assunzione stabile dell’antropologo all’interno del
consiglio di amministrazione, sia per garan re una con nuità economica al ricercatore sia per creare delle condizioni
lavora ve in cui poter aver accesso alla documentazione necessaria e un rapporto con nuo con l’amministratore per
potersi meglio comprendere e chiarire.

Infa un altro problema è la traducubilità del linguaggio accademico in un linguaggio poli co-burocra co ul le agli
amministratori (Richards, Mair e Baker).

Anche da un punto di vista poli co, M. e i suoi allievi mossero delle cri che alla dominazione coloniale considerando
l’elemento tragico del cambiamento “impoverimento, malnutrizione, spedizioni puni ve, massacri, disorganizzazione”
proponendo anche un impegno poli co in favore dei na vi. Le cri che furono par colarmente for nel caso degli
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allievi riuni intorno al Rhodes Livingstone Insitute (fondato nel 1937) fornendo accurate analisi del dominio coloniale.
Mostrarono come l’economia della detribalizzazione avesse prodo o la disar colazione progressiva delle società
africane in seguito al processo di centralizzazione connesso alla penetrazione coloniale e quindi all’inserimento delle
culture locali nel sistema mondiale moderno fondato sui meccanismi del mercato internazionale (GLUCKMAN).

Nel 1941 Wilson fu costre o a dime ersi e furono proibite alla ne degli anni 40 le ricerche fra i minatori in Rodesia e
sud africa.

Problemi e ci e poli ci

In generale le cri che del funzionalismo al regime coloniale si limitarono a me ere in discussione le modalità in cui il
processo di occidentalizzazione veniva realizzato. Lo scopo principale consisteva nello stabilire un controllo scien co
delle poli che coloniali per evitarne gli e e collaterali. In tal senso anche M. ebbe una visione evoluzionista fondata
sull’idea che le poli che coloniali fossero un intervento necessario ai ni del progresso, dato che gli europei erano
superiori alle popolazioni africane in questo. Approvò l’indirect rule sia per scongiurare il “bolscevismo nero”, sia
perché in questo modo i na vi potevano sviluppare al meglio la propria cultura. Mol antropologi contemporanei
acce arono il colonialismo senza me erlo in discussione malgrado producesse sfru amento e ingius zia. In nome
della presunta neutralità Malinowsky, Wilson e Mair negano la responsabilità morale e poli ca dell’antropologo.

Contro questa posizione Nadel ri ene che l’antropologo debba assumersi la responsabilità delle proprie posizioni e
so olinea la necessità di prestare a enzione agli abusi delle conoscenze prodo e.

A par re dagli anni se anta l’antropologia applicata ha a raversato un momento rifonda vo, dovuto ai processi storici
in a o come la decolonizzazione, la guerra fredda, l’ascesa del nazionalismo nei paese del terzo mondo e il movimento
per i diri civili. Alcune posizioni arrivarono a predirne la ne anche per l’esaurimento dell’ogge o di studio delle
civiltà primi ve. Altri entrarono in proge molto comprome en “gius cando scien camente” l’apartheid.

In questo contesto alcuni studiosi di scienze sociali di ispirazione marxista, svilupparono, tra gli anni sessanta e
se anta, una cri ca serrata alla teoria della modernizzazione che so olinea le pesan responsabilità occidentali per lo
stato di deprivazione e miseria di gran parte della popolazione mondiale. Le cause del so osviluppo sono quindi
considerate derivan dal funzionamento del sistema capitalis co internazionale che per svilupparsi deve produrre uno
“sviluppo del so osviluppo”(Frank).

Nello stesso periodo emerse in Francia l’antropologia dinamista, nata dalle opere del 1971 di Bas de e Balandier, in cui
l’analisi deve considerare i tre tempi passato presente e futuro e considerando i problemi inerni ed esterni della
societa capitalis ca sui na vi.

Negli Sta uni la congiunzione di alcune scuole di eren produssero approcci fonda sul richiamo dell’antropologia
alle proprie responsabilità e co-poli che. Da un lato la prospe va in uenzata dal marxismo elaboraTA NEL TESTO
“reinven ng Cultures”. Dall’altro la svolta interpreta va promossa da Cli ord Geerts, ri e endo sull’incrocio fra sistemi
simbolici e sistemi di potere portò a so olineare la natura collabora va e comunica va della situazione etnogra ca e a
interessarsi fra le costruzioni interpreta ve dell’antropologo e quelle dei suoi interlocutori, cercando di far risaltare la
reciproca manipolazione. Pensò le culture come il prodo o di una lunga storia di appropriazioni, resistenze,
compromessi in con nuo mutamento.

Postmodernità e post-sviluppo

Negli anni 80 si è veri cata un' interessante elaborazione della ri essione sull'applicazione del sapere antropologico.
Ralph Grillo sinte zza in questo modo le sue principali cara eris che: la di denza degli antropologi nei confron degli
altri scienzia sociali sulle problema che rela ve alle teorie e alle pra che di intervento umanitario per lo sviluppo; la
convinzione che l'antropologia chiarisca aspe che le altre discipline ignorano a raverso il metodo del lavoro sul
campo e l'analisi degli aspe culturali e sociali del cambiamento; l' enfasi sull’ importanza della dimensione sogge va
e del principio di fondare l'analisi sulle prospe ve indigene e sulla conoscenza locale.

In uenza dalle prospe ve post-moderne e post-stru uralis , diversi studiosi hanno chiarito come il conce o di
sviluppo, cos tuitosi all' indomani del secondo con i o mondiale, sia divenuto il principale strumento di
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legi mazione dell' interven smo civilizzatore. Successivamente si è coniugato con nuove categorie come quella di
globalizzazione con nuando a sostenere la stru ura delle relazioni di dominio fra i cosidde primo e terzo mondo.

Lo sviluppo è considerato come un'impresa etnocentrica ver cis ca e tecnocra ca ancorata ad una prospe va
evoluzionis ca unilineare e alla categoria illuminis ca di progresso. Le dinamiche evolu ve sarebbero innescate dall'
ipotesi che il trasferimento di beni, la fornitura di servizi, di assistenza tecnica e la costruzione di infrastru ure
determinerebbero automa camente lo sviluppo indipendentemente dalle considerazioni del contesto globale e della
realtà socio culturale dell'area di proge o.

L'u lizzo dell'analisi foucoul ana del discorso ha permesso di isolare il discorso dello sviluppo come spazio culturale
complessivo rendendo possibile mantenere l'a enzione sulla dominazione. Gli autori hanno così decostruito il
discorso dello sviluppo presentandolo come una narra va dell’ egemonia occidentale. In questo senso hanno mostrato
come domini considera come universali ( l' epistemologia la tecnica e l'economia) siano invece storicamente
determina , lega a speci che pra che sociali e poli che. Ri e endo sulle dinamiche del discorso del potere nella
rappresentazione della realtà sociale gli autori presen nella quarta parte dell' antologia analizzano i meccanismi
a raverso i quali il discorso dello sviluppo produce possibili modi di essere e di pensare diventando una strategia
prodo a dal primo mondo per marginalizzare e precludere possibilità alterna ve di organizzare il futuro in termini
autonomi e indipenden .

Opponendosi alle limitazioni della disciplina dello studio delle società pre-moderne l'antropologia ha mostrato come
la con gurazione dello sviluppo faccia inesorabilmente parte del processo di espansione del sistema capitalis co
mondiale e ha indagato la società civile della cooperazione con gli strumen dell’ etnogra a. L'evidenza empirica,
infa , chiarisce come nel corso delle decadi dello sviluppo gli unici paesi a svilupparsi fossero sta quelli dei
benefa ori, gli altri al contrario sono sta so osviluppa .

Come suggerisce Ferguson ciò che più conta nell’ analisi di un proge o di sviluppo non è il fallimento di quello che non
riesce a fare, quanto quello che, fallendo, realizza. L'ar colo di Ferguson analizza molteplici proge di sviluppo a ua
a Lesotho negli anni 80; considera come lo sviluppo faccia parte dell’espansione del potere statale promuovendo un
potere burocra co e colonizzante che imprigiona i proge , neutralizzando le potenzialità di resistenze e proge azioni
na ve.

Lo sviluppo viene quindi inteso come una “macchina an -poli ca” che inibisce molto e cappppppppppppcemente le
s de poli che e aumenta i poteri dell‘amministrazione e la repressione, considerando le ques oni poli che della terra,
delle risorse, dell’ occupazione o dei salari come problemi esclusivamente tecnici.

Escobar, da parte sua, analizza come la formazione discorsiva dello sviluppo produrrebbe un e ciente apparato che
sistema camente me e in relazione forme di conoscenze tecniche di potere. Considera le cara eris che e le
interrelazioni dei tre principi che de niscono sviluppo e so osviluppo: le forme di conoscenza rela ve allo sviluppo e la
loro realizzazione in ogge , conce , linguaggi comuni; il sistema di potere che regola le pra che; le forme di
sogge vità favorite dai discorsi sviluppis , quelle, cioè, a raverso cui le persone giungono a riconoscersi come
sviluppate e so osviluppate.

Ques autori non intendono o rire modelli rice e che de niscono un insieme di metodi e tecniche da applicarsi sul
campo da parte del ricercatore. Ado ano invece un approccio etnogra co aperto, in uenzato dall' ermeneu ca, dalle
cri che post-moderne che cercano di chiarire le complessità di signi cato delle azioni sociali a raverso la
comprensione dei processi di negoziazione dialogica fra i vari interlocutori e quindi la messa in discussione degli stessi
modelli conce uali, pregiudizi teorici delle precomprensioni e delle ipotesi di partenza. L' approccio dialogico e
negoziale a raverso i contribu di Ferguson, Long, Hobert, Escobar propone una prospe va negoziale degli interven ,
concorda e riformula in un con nuo processo dialogico, collabora vo e partecipa vo, fra i di eren a ori sociali.
Norman Long ha elaborato un approccio da lui de nito come actor-oriented, qui illustrato da un suo testo del 1992.
Tale approccio invita a delucidare le interpretazioni e le strategie degli a ori ed è a ento al modo in cui queste si
intersecano a raverso processi ibridi di mescolamento e accomodazione.
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Per la verità già all'inizio degli anni 70 Rodolfo Stavenhagen, invocando la necessità che le ricerche non solo siano rese
accessibili ai propri interlocutori, ma che siano sopra u o negoziate con essi, aveva insis to sulla necessità di tale
dialogo, pre gurando, in qualche modo, gli approcci dialogici contemporanei. Riferendosi al conce o di dialogia
elaborato da Paolo Freire nella “pedagogia degli oppressi” auspicava che la ricerca si fondasse su un dialogo crea vo
fra ricercatore e l'ogge o-sogge o della ricerca.

Le più recen elaborazioni antropologiche sul tema dello sviluppo tendono a so olineare la difesa
dell'autodeterminazione dei popoli come elemento irrinunciabile, stru uralmente legato ai processi di cambiamento
piani cato. La realtà non è più rido a in categorie binarie ma aperta in una molteplicità di ar colazioni complesse, re
di interconnessione che penetrano in contes locali più periferici, considerano l'a uale mondo ibrido pluri-voco ed
etero-glosso non come il prodo o della globalità dei processi economici e poli ci contemporanei. In questa
prospe va il terzo mondo avrebbe contribu unici da portare agli sforzi intelle uali e poli ci. Le sue culture ibride i
“sé ri uta ” si troverebbero a fornire un controllo vitale e un di erente senso della direzione rispe o alle tendenze
della cyber-cultura dominante del primo mondo. Secondo ques pun di vista il sistema mondiale non avrebbe
prodo o un'omogeneità culturale globale quanto la sos tuzione di una diversità con un'altra basata sulle
interrelazioni. In tale contesto per Escobar la scommessa poli ca delle culture pensate con le categorie della
marginalità, consisterebbe nel loro potenziale sovversivo e di resistenza agli assiomi del capitalismo e della modernità
nella loro forma egemonica. Secondo Escobar, la dispersione delle forme sociali causate dall’economia informa ca
deterritorializzata renderebbe di cile il controllo, e aprirebbe grandi possibilità nei gruppi marginali. Arce e Long, a
tale proposito, u lizzano il termine contro-sviluppo per iden care le controtendenze che emergono nelle
rappresentazioni, nelle pra che, nei discorsi, nelle forme organizza ve, nelle is tuzioni e forum. Questa nozione o re
un u le prospe va sulla formazione di nuove modernità dal basso e sul modo in cui i programmi di intervento su
piccola scala possano giocare un importante ruolo nel modellare i processi alterna vi. Suggerisce che il compito
principale degli scienzia sociali dovrebbe essere il sostenere le controtendenze, anche a raverso l'esercizio della
pressione poli ca sui governi.

POSTFAZIONE

L'uso sociale dei saperi dell’antropologia

Le ri essioni dell’antropologia contemporanea hanno prodo o nuove de nizioni delle culture, alterna ve alle
concezioni essenzialis che. Da di eren pun di vista gli scienzia sociali ar colano immagini di panorami etnici
so olineando una non più immediata coincidenza di luogo, cultura e iden tà. Delocalizzate e deterritorializzate, le
forme di rappresentazione del sè relazionali sono considerate in con nua trasformazione nell'ambito dei rappor che
un gruppo umano intra ene con altri e con contes complessi, fonda sulla presenza e azione di diversi agen .
Ri e endo sulla produzione e riproduzione delle forme culturali nell’ intreccio fa lo sviluppo dei sistemi simbolici le
dimensioni di potere, l'antropologia ha considerato le culture come vere e proprie nzioni, costruzioni simboliche
mediante le quali si possono a ribuire al gruppo de nizioni del sè colle vo con nuamente reinventate dall'
interazione tra di eren interlocutori a seconda delle circostanze degli obie vi.

In Italia Tullio Seppilli, negli anni 60 quindi molto precocemente, propose che la ricerca e l'intervento antropologico
dovessero implicare una condivisione dei presupposto e degli obie vi tra la commi enza e l'antropologo e quindi
comportare un analisi dei quadri di egemonia di potere così come dei mezzi e co-poli ci che fondano i proge . La sua
antropologia della prassi di matrice gramsciana realizzò un impegno scien co che entrò in merito alla discussione
delle nalità e dei contenu della ricerca e de nì “l'uso sociale” del sapere antropologico. Nelle intenzioni di Seppilli
tale denominazione doveva servire a superare l'idea di una neutralità della ricerca applicata e del suo u lizzo
veramente tecnicis co e strumentale. U lizzando i paradigmi post-moderni dialogici ri essivi e l'u lizzo dell'analisi
discorsive foucaul ane, diversi antropologi hanno dato vita a un esame degli strumen teorici e metodologici oggi ci
adegua alla comprensione dei processi di cambiamento piani cato.
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Emergenza come ne dello sviluppo

Nell'ambito dell'antropologia dello sviluppo queste prospe ve hanno prodo o signi ca vi risulta . Hanno rilanciato
la professionalità dell’antropologia nella cooperazione internazionale, ar colando la cri ca all'imposizione ver cis ca e
unilaterale dei modelli tecnico-scien ci moderni con la considerazione negoziale degli interven , concorda e
riformula in un con nuo processo dialogico fra i di eren interlocutori.

Di eren lavori come quello di Ferguson e Escobar, hanno decostruito il discorso dello sviluppo nei suoi elemen
cos tu vi, presentandolo come una narra va dell’egemonia occidentale. In questo modo lo sviluppo cessa di essere
semplicemente uno strumento di controllo economico diventando una strategia prodo a dal primo mondo per
marginalizzare e precludere possibilità alterna ve di organizzare il futuro.

I recen contribu analizzano il so osviluppo come esito delle relazioni di dipendenza con le società sviluppate.
Esaminano le pra che dello sviluppo all'interno del processo di espansione del sistema capitalis co mondiale e
analizzano la società civile della cooperazione, un’arena eterogenea composta da milioni di organizzazioni e di
lavoratori con un fa urato di miliardi di dollari che la colloca fra le principali economie mondiali. L'evidenza scien ca
ha chiarito come nel corso delle decadi dello sviluppo inaugurate negli anni 60 dalle Nazioni Unite, gli unici paesi a
svilupparsi siano sta quelli dei benefa ori. Le prove empiriche indicano che gli approccio al cambiamento piani cato
non solo si sono dimostra fallimentari. Sopra u o hanno partecipato all' aumento delle disuguaglianze dei rappor
dipendenze di dominio. I principali a ori della cooperazione internazionale sono pesantemente condiziona dalla
priorità dei nanziatori che decidono della des nazione dei fondi. L'organizzazione sviluppista fa parte di un’evoluzione
fondata necessariamente sulla dipendenza e costruita sulla fron era fra esclusione inclusione. Le azioni emergenziali
superano le basi del diri o, realizzando una forma di sovranità arbritaria, senza alcuna mediazione. In quanto
macchina an poli ca, il disposi vo dell’ emergenza alimenta il fatalismo, l' assistenzialismo, la dipendenza e
neutralizza le potenzialità di innovazioni locali. Al ne di garan re produ vità, ordine, stabilità e sicurezza, le imprese
emergenziali si servono sempre più spesso dell' apporto della logis ca militare estendendo operazioni belliche
gius cate come operazioni umanitarie in cui gli a ori civili hanno sempre meno margini di autonomia e liberta. In
nome dell'emergenza gli organismi internazionali trasnazionali agiscono sul territorio come ciò che Appadurai chiama
“sovranità mobili”, realtà che si spostano nel mondo imponendo regole, impera vi legi ma so o la bandiera di
valori proclama come universali. Riproducendo i meccanismi di cooptazione delle poli che dell’ indirect rull
disegnano competenze, distribuiscono ruoli e integrano gruppi ed elites nel circuito internazionale promuovendo il
ruolo dei negoziatori di forme di governance deterritorializzate e delocalizzate.

Le ONG hanno assunto un ruolo di crescente autonomia dagli sta creando forme di diplomazia e governa ve
parallele, consolidata a raverso il riconoscimento di uno statuto consul vo da parte delle is tuzioni internazionali. le
ONG sono costre e a rincorrere le emergenze per sopravvivere e a me ere in campo un imponente meccanismo in
grado di a rontare le compe zioni per la raccolta dei fondi. Molte organizzazioni intervengono dire amente nei
merca intrecciando rappor con le mul nazionali, con fondi di inves mento agendo come organismi bancari. La ne
dell'emergenza produce la sospensione dell’a enzione dei media, l'immediata interruzione delle imprese, il
trasferimento della macchina organizza va e nuovi scenari emergen nella scacchiera geopoli ca.

Centralità dei margini

l' antropologia contemporanea si ri uta di concepire una semplice e immediata evoluzione del tradizionale nel
moderno e introduce il conce o di modernità mul ple, prodo e dagli scambi, dalle negoziazioni e dai con i fra
diverse forme di modernità e di tradizione. Le idee e le pra che della modernità vengono appropriate e inserite nelle
prassi locali, disperdendo la modernità in più modernità costruite dal basso e incostante proliferazione. Da questa
prospe va la disciplina va alla ricerca di azioni di cambiamento sociale e culturale in an nomia ai meccanismi della
dipendenza del dominio. Il metodo etnogra co perme e di esaminare e cacemente come varie espressioni della
società civile inaugurino pra che di resistenza alla violenza neoliberista e si oppongano ai disegni di marginalizzazione
di sempre più ampi se ori della società. L'antropologia si trova a misurarsi con nuovi interlocutori che si oppongono a
forme di inclusione limitate alla forza lavoro e alla riproduzione biologica. L'emergenza determina una situazione
paradossale, una forma di esclusione che si materializza spazialmente nelle legislazioni eccezionali ed emergenziali
sempre più repressive: nei campi di rifugia , degli immigra , dei clandes ni, delle vi me, dei prigionieri di guerra,
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degli uomini e delle donne tra ca . In nome dell'emergenza i ci adini sono trasforma in semplici corpi, in ciò che
Hanna Arendt de nisce “astra a nudità dell’essere nient'altro che uomo”. I pun di vista degli esclusi iden cano le,
contraddizione cos tu ve delle democrazie liberali, fra ci adinanza come diri o umano universale la sua
discriminazione nazionale. Le sperimentazioni dal basso combinano le lo e per diri par colari con la più ampia
ricerca per abolire i meccanismi di produzione dell’esclusione e dell’ ineguaglianza. Non solo fondano la generica sfera
dei diri sull’ interconnessione fra aspe materiali economici culturali storici e poli ci sopra u o iden cano
a vamente nuovi diri impegna sulla ricerca di ride nire l'arena poli ca, i suoi a ori, is tuzioni, i suoi processi.
Pensare la centralità dei margini a raverso l' analisi etnogra ca signi ca individuare forme di costruzione della
ci adinanza a par re dalle esperienze dalle pra che dei gruppi cosidde marginali. Dando loro centralità le voci dei
margini perme ono di pre gurare pro li di ci adinanza trasnazionale essibile e cosmopolita che hanno per orizzonte
poli co e negoziale l'intero pianeta.

Da queste prospe ve compito principale degli scienzia sociali non può limitarsi alla ges one dei fallimen dei
problemi dei proge di intervento piani cato. Consiste piu osto nel coniugare l'analisi etnogra che trasversale con
l'esercizio cri co e la pressione poli ca sui governi e sull'opinione pubblica. In tal senso l'antropologia può trovare un
proprio spazio pubblico.” In quanto venditori ambulan di anomalie, spacciatori di stranezze, mercan di stupore” gli
antropologi possono interpretare la propria funzione sociale nello “scuotere il mondo, rando da so o i piedi i tappe ,
rovesciando tavolini da tè, facendo esplodere petardi” u lizzando le parole che Edward Said rivolge agli intelle uali
“l'antropologo applicato non è né un paci catore né un arte ce del consenso, bensì qualcuno che ha scommesso tu a
la sua esistenza sul senso cri co, la consapevolezza di non essere dispos ad acce are le formule facili, i modelli
prefabbrica , le conferme acquiescente e compiacen di ciò che i poten ben pensan hanno da dire e di ciò che poi
fanno. Una capacità che non si ri e e soltanto nel ri uto passivo bensì nella volontà di usare la parola in pubblico”.

PRIMA PARTE: ANTROPOLOGI E UOMINI PRATICI

Primo saggio

Antropologia pra ca

Bronislav Malinowski (1884-1942)

Bronislaw Malinowski è considerato il fondatore dell’ antropologia applicata avendo coniato, in questo ar colo del
1929, l'espressione antropologia pra ca appunto. Il compito della nuova disciplina viene fondato sui contribu del
metodo etnogra co all'amministrazione delle colonie e sulla sensibilizzazione degli antropologi agli interessi di po
applica vo. In contrapposizione agli approcci evoluzionis nalizza a stabilire le origini gli stadi di sviluppo,
Malinowski è interessato ad analizzare le società nel loro funzionamento nel presente e quindi so o l'impa o della
civiltà occidentale. L' antropologia applicata ha intra enuto un rapporto par colarmente stre o con il pragma smo
dell'amministrazione inglese fondato sulla cooptazione e sulla conoscenza preliminare dei sistemi di poteri indigeni. In
questo ar colo del 1929 Malinowski intende sancire l'unione tra e antropologia teorica e antropologia pra ca e me e
in evidenza la superiorità applica va della prospe va antropologica rispe o al sapere non specialis co che viene
denunciato come responsabile di gravi conseguenze nega ve sia per la ges one degli a ari coloniali sia per la vita della
società selvagge. La speci cità del contributo dell'antropologia pra ca viene fondata sull’ ogge vità scien ca, sul
cara ere disinteressato e neutrale dei suoi risulta , sul metodo del lavoro sul campo, condo o per prolunga periodi
a raverso la conoscenza della lingua na va e l'osservazione partecipante. Deriva altresì dall' approccio teorico del
funzionalismo, dallo studio cioè, delle interrelazioni fra i fa sociali della sua capacità di inaugurare nuove dimensioni
di ricerca interessan anche dal punto di vista dell’elaborazione teorica, ponendo in primo piano una serie di
argomen nuovi come lo studio dell'organizzazione sociale di is tuzioni come la famiglia e matrimonio, l'analisi del
diri o, dell'economia e della poli ca.
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Secondo saggio

La razionalizzazione dell’antropologia dell’amministrazione

Bronislaw Malinowski

In questo lavoro Malinowski difende la professionalità della disciplina in contrapposizione alla conoscenza amatoriale
degli uomini pra ci. Malinowski risponde alle cri che di un funzionario coloniale Mitchell che aveva escluso ogni
competenza dell'antropologo nei fa amministra vi. Contro le posizioni di Mitchell Malinowski fa valere la novità del
metodo funzionalista, mostra la sua rilevanza ai ni pra ci ribadendo il bisogno di un riorientamento dell'antropologia
verso un interesse per le condizioni del presente più che per le ricostruzioni del passato. L'ar colo riconferma quanto
sostenuto nel 1929 sull’importanza dell’approccio funzionalista. Sprovvis di tali conoscenze i professionis generici
sono considera agen patogeni della mala a. Molto interessante la posizione di Malinowski riguardo l'importanza di
analizzare non solo la realtà locale, ma anche il sistema dei bianchi, de nendo, fra gli scopi dell’antropologia
funzionalista, la necessità di studiare il selvaggio bianco anco a anco con quello nero , il proge o mondiale di
penetrazione economica europea e l'economia coloniale, così come l'ambiente in cui si svolge essenzialmente la vita
semi tribale o detribalizzata.

Terzo saggio di Malinowski

Pubblicato dalla reale Accademia d'Italia nel 1940. So olinea il processo di cambiamento culturale provocato dal
conta o fra la cultura europea e quella africana e sos ene, in modo pionieris co, la necessità che l'antropologia inizi a
studiare il comportamento, i pun di vista europei insieme quelli africani, guardando la società bianca e nera come
parte di una total contact situa on, intesa come una nuova realtà nata dalla nuova situazione. De nisce ter um quid
questa nuova realtà la cui essenza non cos tuisce una mescolanza bensì un nuovo fenomeno di conta o. In modo
inedito, dunque, il punto di vista di malinowski invita considerare le trasformazioni imposte dal colonialismo non come
portatrici di un’ omogeneità culturale globale quanto come prodo o di interpretazioni contestuali e locali. Scopo
dell'antropologia, quindi è l'armonizzazione di ques processi che oggi de niremmo con il termine ibridazione, al ne
di consigliare un assennata ges one da parte del governo delle ques oni ineren all’amministrazione.

SECONDA PARTE: ANTROPOLOGIA APPLICATA E COLONIALISMO

Un esperimento in antropologia applicata

George Baker

Al ne di analizzare la rilevanza della prospe va antropologica funzionalista per l'amministrazione coloniale, Baker
considera l'esperimento di collaborazione, nanziato dal IAI, fra l’ antropologo Gordon Brown e Bruce Hu ,
funzionario distre uale distre o di Iringa (Tanganyka ). L'esperimento ebbe luogo nel 1932 fra gli Hehe. Si fondava
sulla stre a collaborazione fra un antropologo di origini canadesi, e un locale funzionario distre uale nel contesto del
sistema dell’ indirect rule. L'antropologo assunse insieme all’ amministratore la responsabilità delle analisi di due
principali ques oni: il grado di ada abilità al sistema coloniale da parte del governo locale, basato sui legami tribali ; il
livello di soddisfazione della popolazione nei confron della poli ca governa va. Baker discute le di erenze di
prospe ve fra antropologo e amministratore e le riconduce all' approccio teorico dell ‘antropologia fondato sulla
metodologia su rigore scien co rispe o all' interesse pra co. Baker so olinea, in par colare, la necessità di
conoscenze preliminari sulla realtà su cui si intende operare. Inoltre, tali studi preliminari sono spesso considera
inu li perdite di tempo e di denaro nella convenzione tecnicis ca che la conoscenza scien ca sia meccanicamente
trasferibile e implementabile. Da questo presupposto l'ar colo si pre gge di speci care i campi dell'antropologia
pra ca e sviluppare un metodo per procurarsi e o rire tale conoscenza in modo da servire interessi pra ci immedia .
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L'antropologia come servizio pubblico

Godfrey Wilson

Wilson fu riconosciuto dal governo britannico come il massimo esperto del cambiamento sociale per questo fu
nominato nel 1938 primo dire ore del Rhodes Livingston Ins tut sostenuto da Lord Lugard e Lord Hailey.Ttu avia le
sue idee lo costrinsero a rassegnare nel 1941 le dimissioni. Fece il suo lavoro sul campo fa il nyakusa del tanganica.
Elaborò una visione molto ampia, un approccio scien co interessato a ques oni sociologiche, economiche
amministra ve. Difendendo l'autonomia scien ca della ricerca sociale, fondata sulla raccolta neutrale dei fa , Wilson
esamina, in questo ar colo, la natura e limi dell'antropologia applicata la cui speci cità consiste in uno studio
ogge vo dei fa . La speci cità della conoscenza antropologica viene iden cato con l'approccio funzionalista. La
raccolta dei fa sociali intesi come informazioni spoglie fondate sulla con nua ricorrenza di even storici in forma
simile e la loro elaborazione in leggi generali, cos tuisce lo scopo dell'antropologia e lo sviluppo per l'Africa. Wilson
me e in evidenza la scarsa preparazione degli uomini pra ci.

Il ruolo dell’antropologia nello sviluppo coloniale

William Hailey (1872-1969)

Governatore del Punjab ebbe una grande in uenza sullo sviluppo dell’antropologia applicata. Trascri o per un
discorso indirizzato ai membri della Royal Anthropological Society in occasione della celebrazione del centenario, H.
riprende il diba to tra Malinoski e Mitchell e discute di eren casi in cui governi coloniali avevano richiesto la
collaborazione degli antropologi e avevano fa o uso delle loro ricerche. Considera l'approccio funzionalista e il metodo
u le per poter indagare la realtà sociale dei na vi e comprendere al meglio le poli che da a uare. Fa degli esempi
riferi alle di coltà di comprensione fra le is tuzioni degli indigeni e il governo coloniale citando il caso del seggio
d'oro. Nello sviluppo dell’agricoltura so olinea la necessità di studiare i modi migliori per ada are i sistemi tradizionali
di ges one della terra le tecniche di col vazione più intensiva. Enfa zza il legame fra amministrazione della gius zia, gli
sviluppi della vita sociale ed economica e la necessità di elaborare una conoscenza profonda del ruolo della legge tra le
forze complesse che regolano il comportamento nella società indigena. Nel tempo si trovò costre o a notare come le
promesse applica ve della disciplina non furono mantenute.

Antropologia pra ca nella vita dell’ Interna onal Africa ins tute

Audrey Isabel Richards (1899-1984)

Allieva di Malinowski fece la propria esperienza sul campo fra i bemba fra' 1931 e il 1934. In questo ar colo traccia un
resoconto del lavoro dell’ Interna onal African Ins tute degli ul mi 5 anni. Rileva come il funzionalismo abbia reso la
disciplina più ada a ad aiutare l'amministrazione coloniale a raverso il miglioramento delle pra che dello studio sul
campo, la specializzazione nell’analisi delle culture, la considerazione dei problemi sociali economici e l'esame dei
cambiamen provoca dall’impa o europeo sulle società africane. Il suo resoconto non fu totalmente posi vo. Il
maggiore contributo dell'antropologia alle poli che governa ve dice la Richards consiste e nella sua in uenza sul
clima di opinioni piu osto che su risposta a speci che richieste. Le cause di questo insuccesso sono a ribuite a una
serie di fa ori, sia interni, sia esterni alla disciplina. Richards considera, a tale proposito, le di coltà rela ve alla
traducibilità del sapere antropologico nelle informazioni fruibili dai commi en . Da un lato so olinea la tendenza dell
uomo pra co a ignorare i contribu dell’antropologia. Dall'altro osserva come la responsabilità per l’inada abilità
pra ca della conoscenza antropologica sia da a ribuire agli stessi antropologici. Esclude una rigida opposizione fra
antropologia pra ca e teorica e propone che le analisi dei cambiamen sociali di interesse amministra vo fossero fa
dipendere da un approccio compara vo.

Antropologia applicata

Edward Evan Evans-Pritchard (1902-1973)

Evans Pritchard a ronta il problema dei limi e delle possibilità della ricerca applicata in antropologia. Me e in guardia
contro le conseguenze nega ve derivan dal trascurare la ricerca pura (religione, rituali, magia) a favore di ques oni
pra che come il diri o fondiario e sistemi giuridici. Suggerisce, quindi, di u lizzare le conoscenze antropologiche
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essenzialmente per il mo vo per cui sono state raccolte, cioè la soluzione di problemi scien ci quali non hanno
necessariamente alcun signi cato pra co. Lamentando la scarsa rilevanza dei contribu antropologici così concepi ,
nota come la scarsità di ca edre e di ricercatori producano limitata copertura delle culture delle società. Propone
quindi che i governi coloniali assumano gli antropologi con posizioni professionali stabili come parte dei consigli di
amministrazione nanziando dire amente i lavori di ricerca.

Parte terza : problemi e ci e poli ci


Antropologia e vita moderna - Siegfrid Frederick Nadel (1903-1956)

Conferenza tenuta il 10 luglio del 1953 all'Australian Na onal University di Camberra dove Nadel era professore di
antropologia e sociologia. Il discorso a ronta i problemi e ci della ricerca antropologica. Pur senza venir meno
all'impegno scien co, a ronta le responsabilità dello studioso ritenendo che l' antropologo non possa evitare di
prendere in considerazione la dimensione e ca in nome dell' ogge vità e della neutralità della scienza. Nadel
condivide le convinzioni di quegli scienzia che cercarono di risolvere il problema e co garantendosi un maggiore
controllo delle nalità delle ricerche partecipando in prima persona alla formazione delle strategie da esse derivan .
Considera quindi che gli antropologi debbano assumersi dire amente il dovere e l'onere di controllare in prima
persona l'u lizzo dei propri strumen di ricerca e delle proprie conoscenze non lasciando che siano altri a farlo.

Antropologia applicata e poli che dello sviluppo - Lucy Philip Mair (1901-1986)

Allieva di Malinowski. Occupa la prima ca edra di antropologia applicata in Gran Bretagna nel 52. In questo ar colo
a ronta la relazione fra ricerca scien ca e bisogni sociali, e fra scienza pura scienza applicata, dal punto di vista della
loro integrazione. Cita di eren lavori fonda su un’e cace prospe va applica va ri e endo sui problemi rela vi alle
implicazioni e co della prospe va applicata. Nell’ar colo sos ene che le cosidde e amministrazioni indigene
riconosciute dal governo coloniale non avevano nulla in comune tranne il personale con i loro precursori tradizionali e
che la presunta preservazione delle is tuzioni africane tradizionali avesse prodo o la loro distruzione.

Il signi cato dell’antropologia applicata per la teoria antropologica - Burton Benedict (1923-2010)

Antropologo americano. Questo ar colo è un elaborazione di un intervento fa o da Burton Benedict al 26 esimo


incontro annuale della Society for applied anthropology (1967). Tale organizzazione fu fondata nel 1941 con lo scopo
di promuovere l'integrazione di prospe ve metodi antropologici nella risoluzione dei problemi umani in tu o il
mondo sostenere poli che pubbliche e giuste basate su una ricerca solida promuovere il riconoscimento pubblico dell
antropologia come professione. Negli Sta Uni l' antropologia applicata ebbe un esordio precoce rispe o al resto del
mondo inaugurata dai problemi della sopravvivenza dell’ada amento dei na vi. Il testo qui indicato si oppone alla
posizione di Nadel e di Foster secondo cui l'antropologo dovrebbe farsi lui stesso amministratore. Benedict osserva che
una simile soluzione condurrebbe confusioni di ruoli e status di di cile ges one. Ri ene che mentre i primi abbiano
necessità di trovare rapide soluzioni a problemi immedia , i secondi invece necessitano di tempi lunghi per le loro
ricerche. Cri ca anche le concezioni di Evans Pritchard sulla separazione fra ricerca pure ricerca applicata
considerandole responsabili dell' incomprensione reciproca fra antropologia e amministratori sulla natura e sui tempi
della ricerca .

La decolonizzazione delle scienze sociali applicate - Rodolfo Stavenhagen (1932 2016)

Sociologo e antropologo messicano di origine tedesca specializzata nello studio dei diri umani e delle relazioni
poli che tra popoli e stato indigeni. Nel 2001 fu nominato dalla commissione per i diri umani delle Nazioni unite
primo relatore speciale sulla situazione dei diri umani e delle libertà fondamentali degli indigeni. Intervento tenuto a
Miami nell’ aprire del 1971 al tredicesimo incontro annuale della Society for Applied Anthropology. In esso viene
so olineato lo stre o legame fa antropologia e imperialismo, considerando, nel contempo, le potenzialità di cri ca
radicale che l'antropologia può sviluppare nei confron delle stru ure poli che coloniali, imperialis che e totalitarie.
D'ispirazione marxista, il discorso me e in discussione presuppos fondamentali delle scienze sociali. La scienza
sociale cri ca deve distaccarsi dallo studio esclusivo dei so omessi, per interessarsi allo studio dell'elites dominan e
al sistema stesso di dominazione. Secondo l'autore la vera comprensione delle forze sociali in un processo di
cambiamento sociale richiede lo studio dello stesso sistema di dominazione e in par colare dei meccanismi in base ai
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quali i gruppi sociali al ver ce si collocano all'interno della stru ura generale. Solamente in questo modo le scienze
sociali possono decolonizzarsi. Pre gura gli approcci dialogici contemporanei riferendosi al conce o di dialogia come è
stato elaborato da Paolo freire nella pedagogia degli oppressi 1970. Conclude auspicando un impegno a vo da parte
del ricercatore il ruolo dell'osservatore a vista cioè del militante e osservatore.

Antropologia= ideologia Antropologia applicata= poli ca - André Gunder Frank (1929-2005)

Sociologo ed economista tedesco. questo ar colo è un commento cri co a un saggio scri o da Maurice Freedman per
il nono Interna onal Congress di antropologia tenuto a Chicago nel se embre 1973. Frank considera sviluppo e
so osviluppo come il prodo o storico delle relazioni poli che economiche fra paesi industrializza e paesi del terzo
mondo. La sua tesi sos ene che so osviluppo si fonda sull’ annientamento sistema co delle possibilità di sviluppo
autonomo indigeno creato dal sistema co sfru amento coloniale ed alla necessaria espansione del sistema
capitalis co. Il modello teorico “ sviluppo del so osviluppo” considera il so osviluppo come un processo dinamico
causato dall' incorporazione di satelli periferici da parte di centri metropolitani principalmente come produ ori di
materie prime e fornitori di forza lavoro buon mercato. Sollecita l'impegno degli scienzia a favore dell'esame
etnogra co dei meccanismi in base a quali gruppi sociali al ver ce governo la stru ura di dominazione l'u lizzo di
sapere da essa prodo , compresa l'antropologia.

L'antropologia applicata come scienza teorica della pra ca - Roger Bas de (1898 1974)

Studiò loso a antropologia sociologia in Francia. Insegnò all’università di Sao Paolo e poi alla sorbona. massimo
studioso delle religioni afro brasiliane è importante teorico dell’ antropologia applicata. Contrario alla ne a
separazione dei due campi del sapere antropologico, si oppone agli approcci che si propongono di andare al di là della
ricerca pura o fondamentale sia della ricerca applicata, in nome di un rapporto immediato di cooperazione tra le due.
Si colloca in posizione cri ca al pensiero di derivazione marxista che lega il pensiero all' azione. Difende una terza
concezione dell’antropologia applicata, per la quale è una disciplina scien ca, separata teoricamente
dall'antropologia generale e pra camente dalle tecniche di piani cazione. Il sogge o consiste nella conoscenza
teorica, e non pra ca, dell' alterazione delle culture delle società da parte degli etnologi piani catori o degli
antropologi che lavorano sul campo. In tal senso l'antropologia applicata è una scienza fondamentale che ha per
ogge o lo studio dell’azione dell’uomo sulla natura, la ricerca delle sue leggi, dei suoi processi d'azione dei suoi limi .

La macchina an poli ca- James Ferguson

Nato nel 1959 è un antropologo statunitense specialista nell’analisi cri ca delle poli che della cooperazione
internazionale allo sviluppo. Il brano qui riportato è tra o dal capitolo che porta lo stesso tolo del suo importante
testo di an poli ca. Si tra a di un'analisi etnogra ca di alcuni proge a ua a Lesotho fra il 1975 e 1984 dove circa
80 organizzazioni internazionali erano a ve nella cooperazione. Ferguson presenta il discorso dello sviluppo come una
narra va dell’egemonia occidentale e lo decostruisce nei suoi elemen cos tu vi, illustrandone il cara ere
manipola vo nel cercare di imporre speci ci modi di essere e di pensare. Considera le concezioni e le pra che dello
sviluppo come prodo o degli interessi dell’occidente delle sue stru ure. Il testo analizza il funzionamento della
con gurazione dello sviluppo nelle circostanze storiche contemporanee indicando il modo in cui faccia parte
dell’espansione del potere burocra co statale. Ferguson invita a notare come ciò che più conta in un proge o di
sviluppo non sia tanto ciò che non riesce a fare quanto quello che oltre a fallire realizza anche a raverso i suoi
cosidde e e collaterali.

La costruzione sociale della conoscenza - Norman Long

E’ nato nel 1936, scienziato sociale britannico specialista dell’analisi delle poli che dello sviluppo entra fa parte della
cosidde a Manchester School di antropologia dire a da Max Gluckman all'università di Manchester. Long u lizza la
cri ca post-stru uralista e post-moderna in par colare ermeneu ci ed interpreta vi per proporre un approccio actor-
oriented che so olinea la reciproca azione la mutua determinazione fra gli a ori coinvol nei processi di cambiamento
piani cato .Questo modello si fonda sul riconoscimento delle realtà mul ple e delle diverse pra che sociali dei diversi
a ori. Considerando che il cambiamento sociale piani cato implica inevitabilmente un confronto fra di eren interessi
e l'intersezione di eren mondi della vita, l'autore elabora metodologie che a ron no realtà sociali spesso
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incompa bili. La proposta di Long enfa zza quindi l'importanza di un po di etnogra a ri essiva negoziale e dialogica.
Superando la dicotomia rigida fra ricerca pure ricerca applicata, l'autore sos ene che la teoria e la metodologia
debbono fondarsi su un esperienza di campo che unisca i problemi teorici alle ques oni pra che.

Lo sviluppo dell’ignoranza - Mark Hobart

Nasce nel 1954 e professore merito di cri cal media e cultural studies presso il center for media studies di Londra.
Lavora nel sud est asia co conducendo ricerche sul campo a Bali e giava. Hobart analizza il ruolo giocato dalla
conoscenza scien ca occidentale nei processi di sviluppo, me endolo a confronto con la pluralità delle conoscenze
indigene, forzatamente soppresse. Il testo si interessa ai pi di conoscenza usa nelle pra che approfondendo
l'interazione fra le conoscenze, le azioni accidentali nei loro rappor egemonico con quelle indigene. Come long in
questo volume, nota come le poli che di intervento siano indirizzate verso gli interessi dei governi occidentali e, in
generale, delle agenzie dello svilupp e non verso quelli dei bersagli di tali inizia ve.

Lo sviluppo è l'antropologia della modernità - Arturo Escobar

Arturo Escobar 1952 un antropologo colombiano importante esponente del antropologia dello sviluppo dell'ecologia
poli ca e dell’analisi dei movimen sociali. A ualmente professore di antropologia presso l'università della Carolina
del nord. in questo testo del 1995 ha preso le distanze dalla concezione tradizionale dello sviluppo e si è interessato ai
movimen sociali posi vi e resisten alle poli che dello sviluppo. L'autore approfondisce il discorso interpreta il lavoro
speci co dell’antropologia come strumento per mostrare il funzionamento delle is tuzioni delle burocrazie coinvol
nei processi di cambiamento. il saggio mostra come le strategie dello sviluppo abbiano prodo o il loro contrario: fame,
povertà, so osviluppo, sfru amento e oppressione punto per questo Escobar chiede la ne dello sviluppo cercando
alterna ve adesso nei movimen di resistenza locali. Secondo Escobar l'applicazione della scienza e della tecnologia
cos tuiscono le condizioni all'interno delle quali lo sviluppo in quanto speci ca formazione discorsiva abbia preso
forma. Da questo punto di vista analizza le cara eris che le interrelazioni delle tre principali assi che de niscono lo
sviluppo: le forme di conoscenza che ad esso si riferiscono a raverso le quali si realizza e si elabora in ogge conce
teorie così simili ; Il sistema di potere che regola la sua pra ca; Le forme di sogge vità favorite dal suo discorso. Lo
sviluppo è così con gurato come un approccio ver cis co top down etnocentrico tecnocra co e violento che tra a le
persone come astrazioni, gure sta s che da muovere sullo scacchiere del progresso. Invita quindi a concepire le
culture tradizionali nel loro coinvolgimento trasforma vo con la modernità come processi di costruzione che
contribuiscono alla produzione di di eren sogge vità. In tale contesto so olinea la potenzialità poli che alterna ve
dei gruppi minoritari e la loro forza di resistenza all' egemonia del capitalismo e della modernità. Dalla questa
prospe va il terzo mondo avrebbe contribu unici da portare alle con gurazioni gli sforzi intelle uali e poli ci.
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IL QUILOMBO DI FRECHAL

Introduzione

Vi è una natura artificiale dell’etnografia a partire dall’inevitabile iato spazio-temporale che separa
il momento della ricerca sul campo, la scrittura delle note e dei diari, della testualizzazione finale.
Ciò rende l’etnografia parziale, incompleta. Il tempo di scrittura, come quello di ricerca, non è
infatti unico e immediato. Costituisce una processualità dinamica e pervasiva che segna le modalità
specifiche dell’apprendimento della conoscenza antropologica. L’etnografia può essere pensata
come una narrazione di secondo ordine che possiede un certo grado di indipendenza dal lavoro sul
campo. Il lavoro dell’etnografo diviene così sinonimo dell’attività di trascrivere i diversi contenuti
dei discorsi orali nei codici scientifici delle note prese sul campo e del testo finale. L’etnografia si
origina prevalentemente nell’oralità e viene trasposta in scrittura. L’interazione fra antropologo e
nativo è mediata dal passaggio dal codice orale della lingua nativa al codice scritto del linguaggio
scientifico. L’etnografia è anche un movimento di continua rielaborazione dello scritto, di
trascrizione da documento a documento, producendo un testo composito che mette insieme varie
forme di fonti scritte. In antropologia la costruzione interpretativa dell’oggetto è artificiale, prodotta
dall’integrazione dei differenti livelli e delle differenti temporalità che fondano il processo di
costruzione del sapere. la scrittura costituisce il filtro fondamentale. Con le sue diverse procedure di
schematizzazione, è l’elemento indispensabile per organizzare l’esperienza di campo
dell’antropologo, per ordinare gli eventi e le azioni e costruirne il senso. I dati antropologici sono
complessi e articolati, costruzioni di costruzioni, interpretazioni di interpretazioni, consistendo nella
testualizzazione di quello che l’etnografo ha registrato, di ciò che è stato in grado di capire, di
quello che i suoi interlocutori hanno voluto e saputo dire. Il soggetto non è un ente neutro, bensì un
soggetto storico, inserito in una forma di vita, ontologicamente fondato sulla propria cultura e sul
proprio sapere. Ciò rimanda a una specifica modalità di interazione, di scambio e comunicazione
che genera un linguaggio di compromesso e crea una sorta di luogo intermediario fra culture.
Comprendere non può consistere semplicemente nel rappresentare il punto di vista del nativo. La
forza dell’interpretazione risiede nello scarto che consente all’analista di costruirne il senso. Questa
comprensione richiede una relazione dialettica fra le nostre precomprensioni e le forme di vita che
stiamo cercando di capire. La relazione etnografo-nativo è inevitabilmente gerarchica. Lo scopo
dell’etnografia è di parlare di qualcosa per qualcuno. Gli antropologi devono parlare per terze
persone. Produrre un’etnografia richiede decisioni su cosa dire e come dirlo che sono influenzate
dagli interlocutori cui ci si rivolge. Gli informatori parlano, l’etnografo scrive. Lui solo ha il potere
di testualizzare i diversi contenuti dei discorsi orali. La sua autorità sul nativo si fonda sul saper e
poter scrivere. La soggettività dell’antropologo diventa parte integrante del rapporto con l’altro e
dell’esperienza umana che cerca di comprendere. La negoziazione sul campo è influenzata non solo
dalla storia personale del ricercatore, dalla sua personalità ecc, ma anche dalle caratteristiche degli
interlocutori.
Cap. 1: Dal punto di vista dell’antropologo

Il campo

L’autore si trovò a Frechal per caso, in seguito alla forzata interruzione di un’altra ricerca e
all’offerta di collaborazione in un progetto di cooperazione internazionale a Guimaraes, nel nord del
Brasile. Questo lavoro si protrasse da agosto a dicembre del 1994, e durante questo periodo venne a
conoscenza dell’esistenza di una comunità, a pochi chilometri dalla cittadina, riconosciuta
ufficialmente come discendente dagli antichi quilombos. Più precisamente le terre che occupava
erano state dichiarate costituire una Riserva. Alcuni decreti riconoscevano la convivenza armonica
secolare fra la popolazione e le risorse naturali esistenti, rispettando i diritti culturali dei
quilombolas. Approfittando dell’opportunità offerta dal lavoro cooperativo Malighetti decise di
lavorare in questa comunità. Si avvalse delle relazioni di collaborazione fra l’organizzazione non
governativa italiana e il Vescovo, per farlo presentare da quest’ultimo dalla gente del villaggio. La
comunità discusse e accordò il permesso. Il villaggio era ben delimitato da 51 taipas (capanne di
fango) che circoscrivevano un’area sottratta alla fitta vegetazione della foresta amazzonica. Moisès,
rappresentante del progetto, lo presentò alla comunità, dichiarando che Malighetti avrebbe
effettuato uno studio per un progetto che comprendeva il villaggio. Con questa dichiarazione poteva
determinare in maniera errata la percezione del ruolo di M e quindi rischiare di pregiudicare la
qualità dei rapporti di lavoro e della ricerca. Il primo periodo quindi lo spese per decostruire questa
identità fittizia, cercando di chiarire i reali motivi del soggiorno e promuovere un’adeguata autorità
etnografica, estranea a meccanismi assistenziali della cooperazione e alle relazioni sociali. Cercò di
definire il suo oggetto di studio e per farlo era intenzionato a trovarlo sul campo o meglio a
negoziarlo con gli interlocutori. Aveva deciso di andare a Frechal senza un argomento prefissato e
specifico, intendeva formulare un’ipotesi nel corso del processo di ricerca. La ricerca dell’oggetto
di ricerca e la costruzione di un’autorità etnografica adeguata a un lavoro scientifico dominarono il
primo soggiorno. A questo seguì un ritorno al lavoro sul campo in modo più risoluto, deciso a
interessarsi al tema dell’identità dopo un periodo speso in Italia a riflettere e a elaborare i primi dati.
Questa fase, per tutto il 1996, è stata caratterizzata dalla profonda immersione sul campo. L’arrivo a
Frechal, dove era atteso da tempo, fu molto piacevole.Provò la sensazione del ritorno e
dell’irrilevanza del tempo speso lontano. Trovò Frechal abbastanza cambiata. Fra i mutamenti più
significativi vi furono: una grande insegna posta all’ingresso del villaggio,delimitato ora da un vero
e proprio cancello in legno, su di essa erano marcati i segni del processo giudiziario (il conflitto con
l’ex proprietario era terminato positivamente). Vi erano in costruzione alcune case in mattoni e
tegole (l’ex proprietario le aveva vietate perché voleva che la comunità lasciasse l’area). Inoltre
alcune taipas si erano agganciate ai fili di energia elettrica che arrivavano alla casa grande, l’antica
abitazione signorile costruita dai primi colonizzatori. La stessa casa grande fino ad allora tenuta a
distanza,era ora aperta alla comunità. Le condizioni di vita e di lavoro erano fortemente influenzate
dal clima tropicale. L’umidità condizionava il lavoro sul campo: la pioggia rendeva difficoltosi gli
spostamenti sui percorsi che congiungevano le varie case. Il villaggio si era trasformato in un
pantano. Durante questo secondo soggiorno ha sofferto di problemi di igiene e alimentazione.
Condivideva la taipa con topi, un maiale, galline, un cane e un gatto più pulci e pidocchi. I bambini
erano liberi di farla dove volevano per terra. L’alimentazione era scarsissima, la famiglia che lo
ospitava aveva finito le riserve di riso. La pioggia aveva reso impraticabile la pesca. Non aveva
alcun mezzo di locomozione per raggiungere la cittadina vicina dove comprare il cibo, ed inoltre
non voleva interferire con la quotidianità che voleva studiare. Trascorse un periodo a letto, per la
denutrizione e la scarsa igiene. Si verificò una certa tensione coi suoi ospiti quando scoprii che la
scarsità di cibo non era tanto dovuta alla stagione delle piogge, quando allo specifico
comportamento dell’uomo di famiglia. Nelle altre case d’inverno gli uomini pescavano per
garantire un minimo di sussistenza. Aurino (l’uomo che lo ospitava) era un grande ozioso,
trascurava tutto ciò che riguardava la cura della famiglia. Non coltivava un proprio campo nella
terra comune del villaggio, né lavorava in quello di altri. Tutta la gestione familiare era sulle spalle
della moglie Velha. Le donne di Frechal si facevano carico quasi interamente del peso del
sostentamento familiare. A Frechal si praticava un’agricoltura tipica delle aree tropicali: in
settembre-ottobre, scelto un pezzo di terra, si tagliava manualmente con l’aiuto di asce la fitta
vegetazione che si ricostituisce in seguito all’abbandono della coltivazione precedente. Si bruciava
la vegetazione in dicembre-gennaio e si seminava manioca (coltivazione di base), mais, riso e
fagioli.Il comportamento di Aurino era motivo di una certa conflittualità con la compagna. L’arrivo
di M aveva peggiorato la critica relazione fra i due, rendendo più difficile e tesa la situazione.
Aurino lo vedeva come alibi per diminuire ulteriormente la sua già scarsa attività lavorativa.
Delegandogli la cura della famiglia, pensava di potersi interessare liberamente al gioco del calcio,
sua principale attività e passione. Più volte aveva cercato di spiegargli la natura accademica e
scientifica del suo lavoro, ma senza alcun risultato. Alcuni membri del villaggio, conoscendo la
situazione, cercavano di aiutarci con quel poco che avevano da offrire.Le cose migliorarono quando
arrivarono gli integratori dietetici.

Ostruzioni e polifonie

Lo stesso giorno del suo arrivo Inaciò (padre di Velha) lo presentò come un amico che era venuto a
Frechal per passare il carnevale. M ricondusse le cause di tale giudizio a una probabile difficoltà a
considerare"lavoro" l’attività di parlare con le persone, che per lui segnava il tempo libero. Inoltre
alla scarsa strutturazione delle attività nel soggiorno precedente,dedicate a costruire un’identità
antropologica e a sondare la possibilità di ricerca, cercando di non interferire troppo nella vita del
villaggio. I problemi legati alla differenza di linguaggio non erano mai stati un vero e proprio
ostacolo. Aveva pochissimi mezzi a cui affidarsi e ciò contribuì a convincerlo del suo nuovo ruolo e
della sua estraneità ai ricchi progetti di sviluppo. Si recava una volta al mese a Guimaraes per
telefonare in Italia, nutrirsi e depositare in un armadio i suoi appunti. L’uscita dal campo, seppure
breve e salutare, lo disturbava, perché pareva contaminare la purezza dell’immersione pregnante a
Frechal e interrompere la concentrazione sul lavoro. Sul campo si era ritagliato alcuni spazi, non
solo per scrivere il diario e sistemare gli appunti, ma soprattutto per riflettere e per tenere sotto
controllo se stesso, il principale strumento di analisi a sua disposizione. Questo tempo gli
permetteva anche di mettere a punto le strategie di lavoro e gli strumenti. Ha sempre cercato di non
perdersi nella quotidianità del campo tenendo ben fermi e chiari il suo ruolo e la sua autorità di
antropologo. Non provò in alcun modo l’impossibile esperienza empatica, caratteristica
dell’osservazione partecipante, pretendendo di celare la sua presenza di osservatori fra gli osservati
e coniugando la soggettività della partecipazione e l’oggettività dell’osservazione. Nel soggiorno
del 1996 non intendeva proseguire nella partecipazione alle loro attività, un’esperienza utile per
vincere l'ansia iniziale, ma di scarsa importanza per la comprensione e per il lavoro. Aveva avuto
modo di vedere come l’osservazione escludesse la partecipazione e viceversa, la partecipazione
pregiudicasse l’osservazione. In questa seconda fase di ricerca voleva istituire tempi e spazi in cui
fermare i suoi interlocutori e sottoporli alle interviste. Il senso di intrusione aveva prodotto più volte
un imbarazzo. Ciò che caratterizza la specificità del lavoro antropologico è proprio questo tipo di
relazione con coloro che diventano gli informatori. Si obbligava a esercitare l’inevitabile intrusione
che il suo lavoro implicava sulle attività native e che cercava di farsi perdonare attraverso contributi
economici. Il metodo adottato sul campo si è basato soprattutto su interviste o meglio conversazione
che cmq erano ben strutturate dalla presenza del registrazione e dal fatto che erano collocate
all’interno di momenti specificamente destinati a questa attività, fissati per appuntamento. I colloqui
erano aperti, non basati su domande prefissate. Vi erano cmq alcuni concetti chiave o argomenti che
funzionavano come guida all’analisi e al discorso.

La sindrome della tribù noiosa e la ricerca dell’oggetto di ricerca

Faceva fatica ad adeguarsi ai tempo lenti e rilassati di Frechal. Spesso si faceva prendere dall’ansia
di dover terminare il lavoro. Non riusciva a ristabilirsi dall’apprensione causata da ciò che chiamava
la sindrome della tribù noiosa da cui si riteneva affetto. L’incapacità di trovare cose eccezionali da
consegnare allo stupore di eventuali fruitori e il pensiero della difficile iscrivibilità dei risultati
raggiunti funzionavano come potente filtro di selezione dell’oggetto e del metodo di ricerca. La
disposizione delle taipas non seguiva alcun ordine preciso. La divisione del lavoro era elementare.
La cultura materiale era molto povera. Non c’erano divisioni interne al villaggio, o un sistema di
parentela ben strutturato: ci si considerava sposati quando si andava a vivere insieme. Le feste erano
poche e povere. Le credenze negli spiriti dei trapassati e in esseri di varia natura non erano
istituzionalizzati e ritualizzati. In alcune sere non c’era nulla. La gente non si muoveva nemmeno si
casa. La cosa principale che annotò fu l’atteggiamento nei confronti delle feste,sempre uguali a se
stesse nella loro povertà e nell’effetto annichilente dell’alcool sull’identità degli individui. Le
persone di Frechal rimandavano un’immagine di un’epoca ormai remota e lontana, ricca di feste e
manifestazioni culturali, tramontata a causa della lotto contro il fazendeiro. Alle sue domande molti
risposero che in passato c’erano state molte feste, ma che ora era un brutto momento a causa
dell’oppressione del latifondista che aveva pregiudicato la propensione dei giovani a interessarsi
alle tradizioni della comunità. Le forme culturali non corrispondevano a quello che si aspettava da
una comunità di origine africana. I membri del villaggio praticavano in modo molto ciò che si può
definire un cattolicesimo popolare. Interpretò questa semplicità culturale come un doloroso retaggio
della schiavitù. Riteneva che gli schiavi, entrati a far parte del contesto nazionale privi di una
propria storia, una propria lingua e una propria cultura, non avessero potuto far altro che partecipare
al processo di rimozione del passato che li aveva discriminati e che continuava a farlo. Una delle
principali strategie di schiavitù fu l’annullamento dell’identità delle sue vittime, spogliate dalle loro
radici ed integrate nella formazione coloniale solamente come forza-lavoro. Le sue politiche
prevedevano la divisione e la dispersione di uno stesso gruppo come precauzione contro le
insurrezioni. In quest’opera di omogeneizzazione qualsiasi manifestazione della cultura religiosa o
secolare degli schiavi era proibita. Malighetti poteva addebitare la povertà culturale di Frechal
anche alla loro probabile provenienza, prevalentemente bantu. Si convinse che questa sua frustrante
ricerca di fatti o eventi eccezionali fosse da attribuire ad una sorta di malattia infantile
dell’antropologia, che riusciva a normalizzare tutto. Si rendeva conto che le sue interviste non
riuscivano a far emergere la ricchezza. Il suo approccio interpretativo prevedeva che il sapere fosse
prospettico e relativo, possedendo una funzione simbolica, che costruisce i propri referenti
formando e trasformando significati. Da questo punto di vista era dunque la sua prospettiva
sull’identità a mostrarsi una griglia teorica sterile, non riuscendo a far emergere nessuna forma
degna di attenzione. Nel caso di Frechal la costruzione dell’identità era passata attraverso una
disputa legale. L’identità emerge e si fonda sulla contrapposizione fra gruppi e sulla competizione
per l’accesso alle risorse. Le affermazioni di identità riflettono intenzioni politiche e si manifestano
in difesa di interessi collettivi. Malighetti insisteva nel voler cercare, senza successo un qualcosa
che potesse costituire la chiave di accesso al tema dell’identità e stimolare la curiosità di eventuali
lettori.
Successivamente si rese conto che in realtà pretendeva inconsciamente che fossero loro a fornire le
interpretazioni e quindi a produrre la monografia, che invece era chiaramente lui a dover elaborare.
Cercava nei suoi interlocutori quella chiarezza sul tema dell’identità che neppure lui possedeva.

Il geometra e la strega: circolarità ermeneutica e autorità etnografica

Il suo approccio mirava a far risaltare non solo la cooperazione ma soprattutto la reciproca
manipolazione degli aggiustamenti fra le categorie di pensiero degli interlocutori. Considerava che i
significati non sono scoperti ma si creano attraverso complesse negoziazioni nel momento stesso
dell’incontro etnografico. Le interpretazioni del nativo e dell’antropologo si fondano e si
richiamano. Il suo lavoro sul campo è stato fondamentalmente relazionale e solo superficialmente
osservativo. La marginalità o l’estraneità della sua posizione ha rappresentato il luogo in cui il
processo di formazione della conoscenza antropologica è stato messo in forma. Il modello della
circolarità ermeneutica non solo lo invitava a mostrare gli interlocutori mentre si esprimevano, ma a
illustrare come gli informatori costruissero la propria conoscenza e la comunicassero. Voleva
riuscire ad andare al di là dell’esperienza dell’altra restando al di qua della sua. Il punto critico
consisteva nella comprensione del ruolo di entrambi i concetti e delle modalità della loro
interrelazione al fine di produrre un resoconto che non fosse la rappresentazione delle premesse dei
nativi e neppure sordo a esse in una proiezione unilaterale dell’immaginazione scientifica.
Nell’interazione comunicativa, la conoscenza pregressa e le ipotesi dell’antropologo, inducono le
risposte dei nativi. Queste non sono verità culturali, ma risposte circostanziate alla presenza e alle
domande dell’etnografo.

Reticenze, opacità, riflessività

Gli sembrava di non riuscire a fare progressi evidenti. Attribuiva parte delle motivazioni di ciò alla
combinazione della sua incapacità e alla loro povertà culturale. Pensava che i suoi sacrifici non
erano ricompensati da corrispettivi progressi nella ricerca. In alcuni momenti diventava impaziente,
troppo pressante nelle domande. Il fatto di fare il lavoro sul campo durante un conflitto ostacolava
le possibilità di comunicazione, specie su faccende chiave come quella dell’identità. Il suo ruolo di
marginal native non era facile, dato che i nativi erano sospettosi delle sue attività. Alcuni
giustificavano le loro diffidenze dichiarandosi stanchi di tutti gli occhi che per via del processo si
erano posati sulle vicende di Frechal. Dopo circa sei mesi di lavoro di campo pensava di trovarsi
con un oggetto teorico problematico come l’identità e con un metodo abbastanza insicuro. Si rese
conto che era il modello epistemologico a non funzionare. L’opacità dei suoi interlocutori e le
difficoltà del lavoro mettevano in crisi l’ottimismo cognitivo su cui si basava. I suoi esperimenti
etnografici tendevano a riprodurre forme di realismo e oggettivismo etnografico da cui cercava
invece di emanciparsi. Appiattendo il discorso su uno dei due interlocutori, riproducevano il
tradizionale dualismo fra soggetto e oggetto. Intendeva superare da un lato l’incoerenza degli
approcci interpretativi, la loro non applicazione della circolarità ermeneutica da loro teorizzata. Le
costruzioni dell’Altro sono considerate indipendenti e spontanee, elaborate in isolamento e non in
risposta alle sollecitazioni dell’antropologo. I significati emersi dalla negoziazione sul campo sono
messi in forma dall’antropologo. Le difficoltà e le contraddizioni incontrate sul campo mi portavano
a cercare di superare queste modalità di scrittura etnografica. I suoi modelli non potevano
mostrargli come prendere in considerazione la sua non-trasparenza e i fraintendimenti che investono
necessariamente il rapporto con gli informatori. Propongono la necessità di rivedere la
concettualizzazione della natura negoziale della comprensione, indicando l’esigenza di far risaltare
la reciproca manipolazione e gli aggiustamenti fra le categorie di pensiero degli interlocutori. Il suo
approccio interpretativo fu dunque sollecitato a concepire il sottile gioco d’interferenza fra le
componenti personali e autobiografiche e le componenti disciplinari della ricerca e a comprendere
quelle difficoltà che qualificavano lo sforzo etnografico. Nel corso del lavoro sul campo la
circolarità ermeneutica si era trasformata in un meccanismo che lo costringeva a prendere in esame
e a risolvere i problemi che sorgevano progressivamente nel quadro dell’interazione dinamica e del
dialogo con i suoi interlocutori. La sua esperienza autobiografica doveva essere l’elemento chiave
del metodo, considerando la sua soggettività come parte integrante del rapporto con l’altro.
Utilizzando il Sé per la comprensione dell’Altro si passa dall’osservazione partecipante
all’osservazione della partecipazione.La negoziazione sul campo non poteva non essere influenzata
dalla sua storia personale.

Cap. 2: Processi e negoziazioni

Eventi critici

Ciò che aveva raccolto sul tema dell’identità gli pareva poco soddisfacente. Nei momenti di crisi
cercava di raccogliere informazioni monografiche sulla vita quotidiana. In particolare volle
interessarsi ai documenti relativi alla causa tra Frechal e il fazendeiro. Riuscì, con fatica, a entrare
in possesso degli atti processuali ea intervistare i protagonisti del processo (giudici, avvocati e
militanti del Movimento Negro). (Appunti su Frechal) La schiavitù in Brasile: Il portoghese Pedro
Alvares Cabral il 22-4-1500 approda nelle terre poi chiamare brasiliane. Nel 1532 inizia
l’occupazione e poi la tratta degli schiavi, prima indigenza e poi dall’Africa. Gli schiavi
provenivano da una grande varietà di gruppi etnici, riconducibili a due grandi macro aree linguistico
culturali: sudanese e bantu. Per identificare gli schiavi venivano spesso attribuiti loro dei cognomi
che indicavano il gruppo etnico o il luogo d’origine. Gli schiavi proveniente dal Golfo di Guinea
appartenevano a regni consolidati e credevano in un complesso pantheon di divinità con rituali
complessi e codificati. Gli schiavi provenienti dall’Africa centrale si rifacevano invece ad un
insieme di credenze magico-religiose meno codificati, risultato + malleabile nel contatto con la
diversità incontrata oltreoceano.Il forte di Sao Jorge: Nel Brasile coloniale il termine “mina” era
spesso usato per indicare indistintamente tutti gli schiavi in arrivo dal Golfo del nbBenin. Il termine
trae origine dal Forte di Sao Jorge de Mina, che costituiva uno dei più antichi empori portoghesi di
schiavi dell'Africa occidentale. Tambor de Mina: Religione afro-brasiliana che si è sviluppata in
Maranhao. Rimanda al luogo d’origine degli adepti al culto e all’importanza centrare dei tamburi
che ritmavano i rituali di incorporazione di entità soprannaturali caratteristici di tutte le religioni di
origine africana. L’economia delle piantagioni: L’economia coloniale del Brasile si basava
soprattutto sulle grandi piantagioni, zucchero e caffè, e sull’esportazione di materie prime. Fazenda:
grandi piantagioni di caffè, in epoca coloniale. Oggi indica qualsiasi tipo di grande latifondo
agricolo. Engenho: luogo in cui veniva lavorata la canna da zucchero. dal XVIII sec fino alla metà
del XIX il Maranhao è stato uno dei principali centri economici del Brasile, con la maggior
presenza di schiavi.Il municipio di Guimaraes: Il municipio, di cui faceva parte Frechal, si trova in
una delle prime aree di colonizzazione del Brasile. Massima prosperità grazie a produzione di canna
da zucchero e manioca. Frechal: la fazenda di Frechal venne fondata nella prima metà dell’800
Quilombo: kilombo: accampamento o tenda in lingua bantu. Con l’inizio della tratta il termine in
Africa indicava il luogo in cui venivano concentrati gli schiavi in attesa di esser imbarcati. Il
quilombo più famoso è stato il quilombo dos Palmares, confederazione di mocambos, che ha
resistito ai tentativi di eliminazione per più di un secondo. La crisi del sistema delle piantagioni
portò alla formazione di quilombos nelle aree a maggior concentrazione di schiavi.La fine della
schiavitù: 1888 la legge Aurea abolì la schiavitù. La mancanza di manodopera schiavizzata portò al
declino del sistema economico delle piantagioni: il Maranhao oggi è uno degli stati
economicamente più poveri del Brasile. Nel 1889 il Brasile passa dalla forma monarchica alla
repubblica. In questo periodo si diffondono le teorie dell’eugenetica e il razzismo scientifico.
Sbiancamento:a partire dal 1800 fu promossa l’immigrazione di europei, cinesi, giapponesi, libanesi
per sbiancare la razza e importare un’agricoltura moderna. Gilberto Freyre “Casa-Grande Esenzala”
1933: Freyre considera la Casa-Grande e la Senzala come una sorta di primo nucleo originario della
società brasiliana. Influenzato da Boas, valorizza la dimensione culturale del contatto tra europei,
africani e indios, sebbene tende a considerare le razze come realtà biologica e a sovrapporre razza e
cultura. Il mito del Bom Senhor: idea che la schiavitù messa in atto in Brasile non sia stata cruenta
come altrove, ma si sia piuttosto basata su un atteggiamento paternalistico di cura del padroneverso
i suoi schiavi. Brasilianizzazione: mescolanza razziale e culturale tra il padrone portoghese, lo
schiavo africano e gli indios avrebbe portato a una nuova e omogenea identità brasiliana.
Meticciato: la figura del meticcio diventa il simbolo di un sistema armonioso di relazioni razziali. Il
meticcio diventa l’emblema dell’unità nazionale.Il mito della democrazia razziale: ideologia
secondo cui il Brasile costituirebbe un esempio di equilibrata e pacifica convivenza razziale che può
fare da modello anche per altre realtà. Vengono eliminati gli elementi di conflittualità dalla storia
brasiliana. L’apporto della cultura africana e indigenza tende a esser ridotto a elementi folcloristici.
La scoperta del razzismo: il progetto Unesco. Preconcetto di non aver preconcetti.Movimento
Negro: fondato nel 1978 si propone di esplicitare e combattere il razzismo delle società brasiliane.
In ricordo della morte di Zumbi, ultimo leader del Quilombo dos Palmares, che fino all’ultimo
combatté per la libertà degli schiavi fuggiti, il 20/11 si celebra il giorno della coscienza
negra.L’Articolo della Costituzione del 1988 Dittatura militare dal 64 all’85. Nell'88 viene
promulgata una nuova costituzione democratica. Art. 68: ai discendenti della comunità dei
quilombos che stanno occupando le loro terre è riconosciuta la proprietà definitiva, dovendo lo
Stato emettere i titoli rispettivi”. Frechal e il Projeto Vita de Negro: 1974 un fazendeiro di San
Paolo acquisisce la terra della fazenda, in cui vivevano comunità, anche Frechal. Dopo un’offerta di
indennizzo rifiutata il fazendeiro distrugge una grossa parte di foresta e cominciano le intimidazioni
per ottenere l’espulsione di tutti gli abitanti dell’area. La comunità viene coinvolta nel Projeto Vita
de Negro. Il progetto si proponeva di produrre un inventario delle terre abitate da negri e
promuovere strumenti giuridici per l’accesso alla terra. Si sceglie di utilizzare Frechal come caso
per tentare l’applicazione dell’art 68. Frechal ottenne il riconoscimento ufficiale come quilombo,
ma non la proprietà della terra: l’esproprio del fazendeiro avviene solo attraverso la legislazione
ambientale che riconosce l’area riserva estrattivista di proprietà federale.
Cercò di chiarire il significato e la portata degli elementi in gioco, di cui coglieva l’importanza ai
fini dell’identità, partendo dalla lotta fra imprenditore e il villaggio di Frechal.

Frechal come caso paradigmatico

1896: primo incontro delle Comunidades Negras Rurais del Maranhao→ inizio ricerche sulla
comunità di Frechal
Projeto Vita de Negro (PVN): SSDDH + CCN → necessità di fare un inventario e catalogare le
terre delle comunità negre rurali x conoscere la loro situazione + elaborare strumenti giuridici e
politici di lotta x il diritto della terra
Centro Cultura Negra del Maranhao (CCN): nome “cultura” per evitare la repressione durante la
dittatura militare in Brasile (mascherava intenti politici dell’associazione); era già stato protagonista
di mobilitazioni x rivendicare riconoscimento formale delle aree occupate e coltivate dai
discendenti delle ex famiglie di schiavi, chiamate “terras de preto”, termine usato come
autoidentificazione
Alfredo Wagner Berno de Almeida (antropologo coinvolto nella causa di Frechal: elabora una
definizione delle terras de preto= proprietà donate, abbandonate o acquisite (sia formalmente che
no) da parte di famiglie di ex schiavi→ paradigma, strategia di azione per il movimento; varie
forme di accesso alla terra: 1) aree degli antichi quilombos, aree schiavi fuggitivi, concessioni da
parte dello Stato 2) coesistenza dell’uso comune tramite pagamento simbolico irrisorio 3)
occupazione degli schiavi in seguito alla disgregazione delle fazendas
Seconda metà del XIX sec: dissoluzione grandi proprietà fondiarie → riduzione coercizione,
agevolò fuga schiavi → smembramento informale grandi piantagioni → piccole comunità rurali
autogestite → terra=bene pubblico
Terras de preto= simbolo libertà gruppo
Art. 68: lo Stato voleva saldare il debito contratto dalla società brasiliana con i discendenti degli
schiavi, organizzati una volta nei quilomobos o mocambos
Costituzione dell’88: nessun riferimento alle terras de preto, ma solo “remanescentes das
comunidades dos quilombos” → Movimento Negro doveva utilizzare l’unico dispositivo
costituzionale a sua disposizione x ottenere il riconoscimento delle terre→ terre dei quilombos
=terras de preto, anche se nessuno usava “quilombo” per autodefinirsi→ se avessero adottato un
punto di vista storica non avrebbero trovato nessuna corrispondenza tra comunità negre rurali e
quilombos
CCN: terras de preto= base geografica + spazi di resistenza nella società bianca razzista
quilombo= costruzione di un campo concettuale, strumento politico-organizzativo per ottenere la
terra, anche se è una “camicia di forza”, poiché è un’associazione forzata

La petizione processuale

Frechal= perfetto come caso “tipo”, paradigma che sarebbe poi servito anche alle altre comunità
nere rurali
Parti coinvolte nel processo a difesa di Frechal: avv. da Silva + antropologo de Almeida + équipe di
militanti del Movimento Negro
2 preoccupazioni principali: 1) non creare false aspettative nella comunità 2) tesi in cui comunità di
Frechal era esempio concreto a sostegno della tesi
3 Interessi giuridici: 1) area di conflitto sociale in relazione all’uso della terra 2) componente
etnico-culturale (“negritudine” che creava identità di gruppo) 3) saccheggio ambientale causato dai
latifondisti
Presero in considerazione Frechal per due motivi: 1) comunità organizzata e motivata, pronta ad
affrontare le conseguenza della non riuscita della causa 2) situazione molto grave in cui la
comunità rischiava di venire espulsa
da Silva sintetizzò in 5 punti il ricorso all’art. 68: 1) anzianità di occupazione 2) nell’area
considerata ci fu un quilombo di nome Frechal 3) ci furono forme di ribellione contro la schiavitù 4)
appello alla Costituzione democratica dell’88 che garantisce preservazione diritti sociali e culturali
in Brasile 5) natura compensativa della Costituzione a fronte dello sfruttamento degli schiavi
Malighetti visionò i documenti allegati al processo a favore della tesi appena tracciata ma gli
sembrò che riproducessero semplicemente il carattere generico e speculativo degli argomenti emersi
durante le interviste+ scarsità riferimenti precisi al quilombo Frechal

Caleidoscopi: la Riserva Extrativista Quilombo do Frechal

A Malighetti interessava sapere perché Frechal non aveva ottenuto il riconoscimento di


remanescentes do quilombo in base all’art. 68 → cambiamento nella strategia processuale →
inapplicabilità dell’art. 68→ esso conferiva un diritto in modo astratto che però, in assenza di
regolamentazione, si rivelava inutile → il quilombo di per sé è un’entità dinamica → no continuità
occupazione terra → probabilmente c’era anche una volontà politica di rendere inapplicabile l’art.
68
Rivendicazione di Frechal: totalmente inedita nel Paese, dunque necessità di concentrarsi più
sull’obiettivo ultimo della comunità, ovvero sull’ottenimento della terra e l’espulsione del
fazendero→ riconoscimento come riserva, via più rapida vista l’urgenza della questione
Frechal era già all’interno di un’Area di Preservazione Ambientale → petizione al Ministero
dell’ambiente per ottenere il decreto di esproprio → il Presidente della Repubblica firmò il decreto,
vista anche la sensibilità alle questioni ambientali che c’era allora in Brasile
1992: emissione del decreto per la Riserva extrativista
“Se il proprietario se ne fosse andato allora la comunità di Frechal avrebbe accettato di diventare
una riserva” (Ivo Fonseca Silva)
Con il decreto del 92 però la comunità di Frechal non aveva trovato ancora una soluzione definitiva:
la legge brasiliana proibisce l’inizio o lo sviluppo di azioni amministrative senza le necessarie
risorse finanziarie, vietando al potere esecutivo di intraprendere qualsiasi procedimento che non
fosse stato preventivamente inserito in piani e programmi di governo → pressione ambienti
conservatori, difensori degli interessi dei latifondisti, contrari alla conversione in legge dei decreti
presidenziali del 92 → volevano sottoporre il caso di ogni riserva a un rigoroso esame di viabilità
economica → l’Ibama non aveva soldi per depositare l’indennizzo e dunque non poteva procedere
con l’esproprio → situazione di frechal paralizzata → soluzione: occupazione della sede dell’Ibama
x circa 20 giorni, nel ‘94 + 2 rappresentanti mandati a Brasilia che vi rimasero fino alla soluzione
del caso → pressione sul Governo → mobilitazione dell’opinione pubblica → Frechal: prime
pagine sui giornali → ottenimento conversione in legge del decreto il giorno prima della sua
decadenza → più di 60 persone occuparono la sede dell’Ibama, ignari però di quello che stavano
andando a fare
Occupazione= pressione forte sulle autorità di a Brasilia+ consenso organi di stampa e opinione
pubblica+ mobilitazione movimento nazionale negro e varie associazioni nazionali e internazionali
Il Presidente, per reperire i fondi necessari in tempo decretò stato di calamità pubblica a Frechal
(anche se non esisteva)
Perché compare la parola quilombo nel decreto? → rivendicazione della stessa comunità→
memoria orale
Questione della natura molto importante → natura= cultura, quilombo (ragionamento di Inacio)
Frechal è un villaggio di quilombas ma anche di abitanti di una riserva extrativista

Opposizioni Esterne: la difesa del fazendeiro

Difesa di Tomas affidata a uno dei principali avvocati di Sao Paulo→ denuncia alla “faziosità
politica” dell’avv. di Frechal + dichiarò falsa l’esistenza del supposto quilombo ai margini della
fazenda
Storico Bacellar: ricostruzione storia fazenda→ quilombo=fenomeno circoscritto , stato di fuga e
trasgressione, mai avvenuto a Frechal → prove insufficienti
Improbabile che i proprietari avrebbero accettato un quilombo così vicino alla fazenda e che vi
intrattenessero legami pacifici.
Importanza per l’avv. di Tomas: controllo uso delle risorse, non la proprietà della terra→ chiese il
rispetto del diritto costituzionale alla proprietà adombrando gli abusi provocati
L’avv. considerava che il decreto non faceva menzione delle motivazioni sul perché la popolazione
fosse remanescentes do quilombo, perché necessitasse di tutta quell’area, quale utilizzo ecologico
avrebbero potuto avere la casa grande e l’aeroporto, perché la dichiarazione dello stato di calamità
pubblica, da dove vennero prese le risorse economiche per coprire il credito straordinario → chiese
rigetto della petizione e l’abrogazione del decreto espropriante

Cap. 3: Costruzioni, decostruzioni, collusioni

Meccanismi etnogenetici

Malighetti alternava sensazioni di povertà culturale che attribuiva alla comunità, a quello che
considerava un senso di identità unico ed eccezionale in Brasile, sancito dal riconoscimento di
Frechal come comunità di rimanenti di quilombi. Il sistema schiavistico si reggeva
sull’annullamento dell’identità degli schiavi, spogliati delle loro radici e integrati nella formazione
coloniale solamente come forza-lavoro. L’abolizione della schiavitù aveva prodotto uomini liberi,
che non conoscevano nessuna pratica di organizzazione sociale per adeguarsi alla nuova situazione
creata dall’alto, lasciando gli ex schiavi in condizioni di non poter elaborare una comprensione
adeguata alla nuova situazione. Sono rimasti “storicamente neutri”, incapaci di elaborare una
propria cultura, finirono per adottare come unico modello quello adottato dai bianchi. L’ideologia
omologante di abrasileiramento poteva quindi esser ritenuta responsabile di tale povertà culturale.
In base a questa ideologia poteva considerare che i dominati fuggirono dalle loro matrici culturali
per mascherarsi con gli stessi modelli creati per discriminarli. D’altro canto emergeva dallo stesso
processo un forte senso di identità e tale concetto poteva agevolmente comprendere le strategie del
villaggio per la rivendicazione del diritto ad accedere alle risorse della terra: il popolo di Frechal si
era trasformato da oggetto di schiavitù a soggetto portatore di un’identità forte. Teoria oppositiva
dell’identità. Comunità dai confini ben definiti ma con un contenuto culturale molto povero.
Accresceva il concetto di identità che continuava ad apparirgli impreciso e superficiale, incapace di
cogliere le dinamiche profonde. Convinto che l’identità non potesse pre-esistere come struttura al
processo della sua formazione, si propose di considerarla nella sua dinamica costitutiva. Si pose il
compito di decostruire il processo di formazione dell’identità di Frechal. Voleva quindi metter in
relazione la sua concezione costruttivistica e processuale dell’identità con la reificazione del
concetto operata dai nativi. In una sorta di relazione fra la costruzione di Frechal e la sua
decostruzione, doveva fare un percorso inverso al loro, partendo da un concetto che era il prodotto
di negoziazioni dialogiche. Paradosso: non credere a quello che riteneva che i credenti
credessero,attribuendo ad essi la credenza sulla base della sua credenza. Voleva evitare di fare un
lavoro simile a quello degli avvocati del fazendeiro, smontando e demolendo una costruzione
identitaria, e rischiare di pregiudicare gli interessi degli amici di Frechal. Inoltre voleva sfuggire dal
pericolo che il suo assunto teorico diventasse la semplice dimostrazione di come i vari movimenti
politico-culturali si erano mobilitati, manipolando cultura e storia, per ottenere la proprietà della
terra. Procedette dunque ad analizzare gli spazi linguistici, socioculturali e storici nei quali prendeva
forma l’identità quilombiana. Cercò di vedere l’identità dall’interno, analizzandone la dinamica
costitutiva a partire dagli attori sociali, dal loro vissuto e dalle loro rappresentazioni. Nella dialogia
fra il suo concetto e le idee dei suoi interlocutori voleva dimostrare come l’opera di cristallizzazione
dell’identità fosse stata elaborata. La storia emergeva come la grande protagonista di questo
processo, strumento delle mani non solo dell’antropologo, ma anche degli attori sociali e quindi
oggetto delle sue analisi. Era possibile che la storia avesse creato forme di continuità apartire dalle
quali si erano costituiti fondamentali livelli di identità che diventano fattori di storia. Gli interessava
elaborare un’etnografia della storia, studiando come il passato veniva vissuto, raccontato e usato
nella costruzione delle categorie di identificazione del presente. Si trattava di aprirsi alla pratica
della storia sul piano locale, comprendendo come il presente creasse il passato e analizzare come la
storia fosse stata selezionata per un’autodefinizione funzionale al raggiungimento di un preciso
obiettivo. Decostruendo, finiva per costruire, trovandosi di fronte, nel processo di costruzione
dell’identità e della memoria, la cristallizzazione non solo del punto di vista nativo, ma anche del
suo. Queste due diverse prospettive di costruzione dell’oggetto necessariamente divergenti,
interagivano e in alcuni aspetti finivano per assomigliare e colludere.

Scritto e orale

Era tentato dalla possibilità di verificare il contenuto della storia orale a fronte di una storia
consegnata ai documenti processuali che finivano per diventare depositari di quell’oggettività che il
suo impianto epistemologico escludeva. Si lasciò sedurre dalla prospettiva di ricorrere ai documenti
processuali. Da un lato l’analisi e la ricerca dei documenti costituiva un terreno ideale per uscire
dalle situazioni di stalle.Dall’altro lo spazio saturo di tracce e di segni storici rappresentato dal
processo giudiziario mi permetteva di costruire il suo oggetto e di valutare le affermazioni degli
informatori. Credeva che i documenti permettessero di colmare la frammentarietà dei discorsi e di
mettere in relazione il terreno locale con gli spazi geografici e storici più vasti. Il suo scetticismo
verso i racconti nativi lo portava a confrontarli con la realtà oggettiva dei documenti. Le domande e
precisazioni basate sulla sua conoscenza dei documenti sono state utilizzate per alimentare e
rilanciare le loro rappresentazioni. In questo modo è divenuto parte integrante delle loro discussioni,
usato come testimone attivo della loro memoria e come mezzo per fare circolare i propri segni di
identificazione. I discorsi degli interlocutori enfatizzavano la funzione dei documenti nel garantire
la rivendicazione dell’origine e dell’autenticità quilombola, l’anzianità di occupazione dell’area e
l’uso armonico delle risorse. Erano sempre i documenti a sancire ogni fase delle vicende e a
risolvere i problemi. Nelle interazioni nel villaggio l’invocazione del documento interveniva come
garanzia dell’autenticità del racconto, talvolta superando i limiti della memoria orale. Gli scritti
avevano valore per gli informatori sia come tracce di ciò che gli antenati e loro stessi già sapevano
sia come fonti di nuove informazioni. I suoi interlocutori non entravano mai nei contenuti dei
documenti che citavano in appoggio alle loro parole. Alle sue sollecitazioni rispondevano che i
dettagli si trovavano in documenti che non possedevano. In altre parole i documenti venivano
utilizzati non come un sapere controllabile e controllato, ma come un segno rafforzativo della
credenza e come stimolo per l’adesione al discorso. Ciò che contava era il potere di designare le
referenze come segni tangibili di ciò che affermavano. Comprese che la segretezza e il mistero
attorno ai documenti produceva un rafforzamento della credenza sulla loro esistenza e sul loro
contenuto. L’accesso ai documenti e la verifica del contenuto avrebbero potuto fare crollare il
sistema sul quale si fondavano le loro credenze. Il documento poteva essere considerato come
legame sociale, promessa e modalità di azione oltre che come contenuto. A Frechal il documento
era un solco su cui di appoggiava la memoria orale per sviluppare i propri effetti retorici di
persuasione e di verosimiglianza, indipendentemente da verifiche, riscontri. La retorica dei suoi
interlocutori aveva attribuito all’orale la fondazione dello scritto, era il racconto a creare il
documento. Rapporto sineddotico al contrario.

Il fantasma del disvelamento

Lo stesso concetto di quilombo era poco utilizzato nella comunità. Anche per quanto riguarda
l’epoca storica del quilombo le posizioni erano molto differenti. La maggior parte non sapeva. I già
si rifacevano alla data che era stata incisa su un monumento, Frechal era stata fondata nel 1792
(fondazione della fazenda da parte di Manuel, il portoghese che per primo colonizzò l’area). Nella
memoria di Frechal, l’episodio più diffuso e rilevante circa il quilombo o il mocambo riguardava il
racconto delle fughe. Il significato dei due termini rimandava alla figura degli schiavi e al loro
rifugio. Era patrimonio abbastanza comune che il luogo di localizzazione del quilombo coincidesse
con una piantagione di manghi e con grandi fosse, dei veri e propri buchi all’interno della foresta.
Cmq i buchi entro cui gli schiavi fuggiti si nascondevano erano considerati prove tangibili
dell’esistenza del quilombo. Agivano nella narrazione secondo meccanismi analoghi a quelli già
visti all’opera nei documenti. Venivano frequentemente menzionati, ma pochi conoscevano la loro
localizzazione. Poco si sapeva sulle fughe, sulle catture, su possibili figure storiche. Le risposte in
tal senso erano molto povere e generiche. Nessuno era in grado di ricordare qlk figura eroica del
quilombo.

Il quilombo di Frechal: semantizzazioni e risemantizzazioni

Non sapeva se addebitare la scarsa conoscenza che i nativi mostravano solamente a ciò che aveva
denominato la sindrome della tribù noiosa. C ‘erano momenti in cui dubitava dell’esistenza di un
quilombo di Frechal. Molte interviste che aveva fatto fuori dal villaggio negavano questa esistenza.
Il problema della localizzazione del quilombo era stato uno dei problemi principali del processo.
Lui stesso tendeva a concepire il quilombo come una comunità isolata. Secondo tale concezione i
quilombos non erano necessariamente situati nella foresta in luoghi impenetrabili. Potevano
intrattenere pratiche commerciali con la società che li comprendeva e avere legami di alleanza
anche con fazendeiro per i quali lavoravano con altre figure che fornivano loro mezzi per la fuga o
protezione. Sicuramente i quilombos si trovarono nelle aree di maggior concentrazione di schiavi. E
il Maranhao fu uno degli Stati brasiliani che trasferirono il maggior numero di schiavi.

Cap. 4 Storia viva

Identità strategico-oppositiva

Nel caso di Frechal, dove la costruzione dell’identità era passata attraverso un conflitto e una
disputa legale, era facile pensare le dinamiche identitarie secondo il paradigma classico
dell’opposizione e attraverso gli strumenti teorici e concettuali del modello strategico-contrastivo.
Da questa prospettiva l’identità rimanda a forme di interazione antitetica tra gruppi che operano in
contesti sociali comuni. Le affermazioni di identità riflettono intenzioni politiche ben precise e si
manifestano nel loro aspetto operativo e significante in difesa di interessi collettivi. L’identità di
Frechal risultava il prodotto di un processo dialettico fra immagine interna ed esterna. L’identità
come era percepita dagli interessati si costituiva attribuendosi un’omogeneità interna che in realtà
non c’era. Malighetti attribuì all’identità una forte connotazione politica, risultante da processi
fondati sulla competizione, circoscrivibile sul piano storico. L’identità costituiva una presa di
coscienza di interessi e di diritti che rompeva con un passato di alienazione e favoriva il recupero di
una dignità devastata dal dominio di altre identità. Il carattere strumentale della rivendicazione
identitaria si poteva immediatamente cogliere nel semplice fatto che la maggior parte dei suoi
interlocutori identificava il significato di quilombo con la proprietà della terra.Spesso la questione
dell’identità quilombola si legava esplicitamente a un progetto di riforma agraria.Decise di prendere
il 1974, data di arrivo del fazendeiro a Frechal, come il punto di partenza che segnasse la storia di
Frechal e potesse costituire la costruzione culturale con cui un particolare insieme di eventi può
essere narrativamente ordinato e significativamente compreso. Pensò di demarcare questo punto
chiave,organizzando la ricostruzione della fenomenologia dell’identità attraverso le
rappresentazioni locali degli episodi salienti della lotta contro il fazendeiro. Convinto che l’identità
a Frechal fosse il prodotto della lotta contro il fazendeiro, gli era chiaro che non potesse pre-esistere
al processo della sua emergenza. Tuttavia voleva conoscere quale fosse la situazione precedente,
intendendo comprendere come la disputa e il processo avessero inciso sull’identità e che tipo di
coscienza i nativi possedessero di questa dinamica. Le posizioni dei suoi interlocutori erano che
l’identità nera non esisteva prima della sua azione politica. Piuttosto ogni discussione dell’identità
nera non può prescindere dai movimenti di emancipazione razziale. Prima dell’arrivo del fazendeiro
non era necessario rivendicare una propria identità. Anzi, il concetto comprendeva qlks di subito
passivamente, imposto dall’esterno. Anteriormente al conflitto l’identità poteva essere descritta
come un’identità stigmatizzata. A Frechal era esprimibile relazionalmente attraverso il preconcetto
del colore, spogliato dai contenuti delle pratiche socioculturali a esso associate ein tal modo
manipolato come meccanismo di discriminazione e marginalizzazione sociale. L’identità a Frechal
era passata attraverso l’organizzazione che gli abitanti si erano dati per fronteggiare il fazendeiro.
Quando chiedeva quali erano gli elementi principali che fondavano la loro identità, molti gli
rispondevano dicendo che gli elementi furono l’unione, l’organizzazione e anche la coscienza di
quello che stavano apprendendo.

Inversioni

Nel caso di Frechal la problematica identitaria poteva essere considerata un problema di relazioni
razziali all’interno di un ordine sociale e politico discriminatorio. Esprimeva la pertinenza dei
membri al gruppo,capovolgendo le identità negative prodotte da gruppi più potenti. L’identità era
comprensibile come l’inversione simbolica delle caratteristiche identitarie già definite dal razzismo
degli altri. L’identità negra,non più subita passivamente ma accettata con orgoglio, emergeva come
uno dei principali fattori di mobilitazione e coesione. L’enfatizzazione identitaria si fondava su una
fierezza legata alla lotta contro la discriminazione e si costruiva invertendo le caratteristiche
negative con le quali erano stati definiti dalla società schiavista. L’articolazione dell’identità
implicava una riappropriazione della memoria storica, in particolare dell’esperienza della
schiavitù.Lo stesso termine “quilombo” era il risultato di una rappresentazione esterna, frutto
dell’elaborazione del gruppo dominante che deteneva il lessico colto della cultura giuridica
(significato del termine). Gli elementi costitutivi della concettualizzazione del quilombo
comprendevano azioni in gruppo che deliberatamente negavano il sistema schiavistico e si
collocavano ai margini dei circuiti del mercato. Si fondavano sulla classificazione criminale delle
attività di fuga, in quanto rifiuto dei meccanismi coercitivi della disciplina del lavoro e negazione
del dominio della grande proprietà monoculturale. La definizione stabiliva quindi una divisione,
separando i luoghi solitari, disabitati e sotto il dominio assoluto della natura, da quelli in cui il
processo di popolamento e di colonizzazione stabilì unità produttive orientate dalla politica
coloniale.Legittimava le considerazioni di quilombo come luogo isolato. Originariamente, prima
dell’articolo 68, nessuno aspirava ad autodefinirsi quilombola. In Africa perché significava cattura e
deportazione, in Brasile perché era il segno di criminalità. Ammetterlo voleva dire essere
emarginati. A Frechal quindi il termine quilombo era passato a essere considerato una categoria
positiva di auto definizione. La rivendicazione dell’identità quilombola funzionava come leva per
istituzionalizzare un gruppo prodotto per effetto di una legislazione colonialista e schiavista.
Quilombo era diventato una forma di resistenza generata dalla violenza del regime schiavista e
connotata da un profondo significato di trasgressione all’ordine e conquista della libertà. Erano visti
come forme di espressione del desiderio collettivo di libertà. Il caso di Frechal mostrava che il
quilombo non si riferiva a un contenuto primordiale e intangibile, piuttosto era un gioco di
linguaggio la cui funzione essenziale era l’identificazione e la classificazione di individui all’interno
di uno spazio sociale in continuo movimento.
Selezioni, manipolazioni, finzioni

Considerare l’identità non più come semplice appartenenza a un compatto e coerente insieme
culturale. Il concetto era stato usato per comprendere il prodotto frammentario di strategie
attivamente perseguite a vario livello: costruzioni, interpretazioni del passato, o invenzioni della
tradizione. Malighetti ha cercato di caratterizzare il suo approccio non attribuendo all’identità uno
statuto di oggettività ma considerandola come una costruzione, sottolineandone il carattere
processuale, discontinuo, inventato. Voleva contrapporsi alle concezioni essenzialistiche. Sottraendo
il concetto all’immobilità, intendeva concepire la costruzione dell’identità come risultante di
dinamiche negoziabili interne e esterne. Nel caso di Frechal il concetto di identità non comprendeva
qualcosa di definito una volta x tutte e nemmeno un’entità chiusa.Configurava invece un prodotto
continuamente creato e ricreato. L’identità non era statica, ma sottoposta a un continuo processo di
riformulazione. Le rivendicazioni di identità da parte della comunità di Frechal si fondavano su una
profondità storica, usando il passato come risorsa per definirsi. L’identità emergeva come un
prodotto della storia che diventava a sua volta un fattore di storia, costruendo analogie con storie e
identità di epoche precedenti. La conoscenza storica ha costituito per la società un’arma
strategica,finalizzata alla volontà di definirsi all’interno del proprio spazio sociale e territoriale. La
memoria nativa, nel processo di costruzione dell’identità, attingeva alla grande riserva della storia
dotta depositata nei documenti. Per quanto era nelle loro possibilità e attraverso l’ausilio degli
avvocati, combinavano gli avvenimenti della grande storia ai significati locali, passando
dall’universale al particolare, dagli avvenimenti lontani a quelli vicini. Nella loro storia viva non
c'era soluzione di continuità fra questi differenti livelli. La storia universale si trovava
nell’avvenimento locale e a sua volta, la storia locale prendeva la forma della grande tradizione,
diventando essa stessa storia universale. La storia era qualcosa di inventato e reinventato
dall’immaginazione proiettata all’indietro. La memoria degli eventi era ristrutturata e trasformata in
un racconto che era sottomesso ai processi strutturanti della narrativa e agli interessi del presente.
La tradizione dell’essere preservata era altresì alterata e, nell’essere alterata, era anche preservata.
La storia di Frechal che aveva ricostruito emergeva dalla negoziazione, condotta dal suo punto di
vista, fra i suoi modelli e quelli dei membri del gruppo. Considerare il passato come storia viva, non
vera.

Essenzialismi e catarsi

Il caso di Frechal mostra che la coerenza e la continuità nel tempo è un valore fondamentale e
necessario dell’identità. Il definirsi quilombo da parte della popolazione di Frechal non era un
semplice e neutrale retaggio storico. Si costituiva come modello identitario fondandosi su un tessuto
simbolico primordiale. Il concetto di quilombo assumeva il significato di antichità di occupazione
della terra. In questo senso il linguaggio del quilombo era il principio direttore per l’occupazione
del territorio e ciò che regolava la ripartizione oltre che del tempo anche dello spazio. Nella
memoria di Frechal la genealogia era strettamente legata alla terra. La presenza del quilombo si
accompagnava a racconti fondati sull’idea che i discendenti diretti degli schiavi non conobbero mai
un altro luogo di provenienza che non fosse l’Africa. La terra di Frechal era considerata un territorio
che definiva l’identità di un gruppo che si vedeva ed era visto come parte di una località specifica:
terra de preto. La lotta per il possesso collettivo della terra aveva provocato nei membri del
villaggio un riconoscimento cosciente dell’importanza del loro territorio per la preservazione della
loro storia, delle loro abitudine e costumi. La territorialità funzionava come fattore di identità,
difesa e forza. I legami di solidarietà e di aiuto reciproco si fondavano su una base fisica considerata
comune ed essenziale. Gli abitanti del villaggio si consideravano in quanto gruppo a partire da
un’identità fondata su un territorio occupato da secoli, in cui svilupparono le loro pratiche culturali.

Stat identitas pristina nomine, nomina nuda tenemus

L’identità può essere considerata come mito o ideologia nella misura in cui permette ai membri del
gruppo di definirsi in contrapposizione agli altri gruppi e di rinforzare la solidarietà in difesa dei
propri interessi.Questa identità narrativa sostituisce all’illusione sostanzialista di un’identità formale
immutabile un’identità dinamica, costantemente plasmata dai racconti anteriori da parte dei racconti
posteriori e dal lavoro etnografico. L’identità è emersa come il prodotto di una negoziazione
condotta dal punto di vista dell’antropologo con le prospettive che ha attribuito ai suoi interlocutori.
L’identità non esiste se non come punto di vista all’interno di spazi negoziali in continuo
movimento. Come tutti i fatti etnografici l’identità è dunque l’oggetto possibile di una
configurazione formale, un accordo temporaneo sul significato fra l’antropologo e i suoi
interlocutori in una relazione contingente e transitoria che inevitabilmente produce una
comprensione parziale e dinamica. Imprigionata nell’immediatezza del proprio dettaglio,
l’etnologia non offre prove. La sua natura rende i propri risultati incompleti e discutibili. Del resto
lo scopo dell’antropologia è l’ampliamento del discorso umano piuttosto che la sua chiusura
attraverso qualche concetto di verità oggettiva. L’antropologia interpretativa è una scienza i cui
progressi sono contrassegnati più da un raffinamento dei dibattiti che da una perfezione di consensi:
quello che migliora è la precisione con cui ci tormentiamo a vicenda.
CLIFFORD GEERTZ
Il Lavoro dell’antropologo
Roberto Malighetti

INTRODUZIONE

Gli interessi di Malighetti per il lavoro di Clifford Geertz partono dagli anni ’70 quando,
giovane studente alla McGill University, inizia ad occuparsi dei fondamenti teorici ed
epistemologici dell’antropologia, insoddisfatto degli approcci positivisti e della sterilità delle
rappresentazioni etnografiche descrittive e oggettivanti.
Lo studio dell’approccio interpretativo ha prodotto stimoli e una conflittualità provocata dalla
messa in discussione delle ortodossie preminenti che, a partire dal diciassettesimo secolo,
hanno caratterizzato la concezione moderna della scienza; il mito di un metodo scientifico
univoco e fisso; la concezione della conoscenza come rappresentazione e quindi la prospettiva
empirista oggettivante; la rigida separazione fra teoria e dati e fra teoria e osservazione; la
ricerca di un linguaggio formale perfetto, ripulito da ogni riferimento soggettivo; l’ideale
mistico della verità.
Il lavoro di Geertz iniziò a essere pubblicato solamente nel 1987. Inizialmente furono scienziati
sociali diversi dagli antropologi ad apprezzare la ricchezza e raffinatezza della produzione di
Geertz e l’estensione della sua enciclopedia del sapere, eleggendolo a importante figura di
riferimento interdisciplinare.
Le sue attività di ricerca sul campo si realizzarono a Giava, a Bali e in Marocco.
Il pensiero di Geertz è stato di grande importanza nel riflettere sulle condizioni della pratica
etnografica e sui suoi risultati. Uno dei suoi principali meriti è stato quello di invitare a
problematizzare le modalità con cui gli antropologi hanno prodotto le verità che chiedono di
accettare. Sotto l’egemonia della scienza sociale positivista, la pratica etnografica è stata
considerata secondaria e subordinata allo sforzo teorico antropologico, comparativo e
classificatorio. I padri fondatori della disciplina hanno insistito con forza sulla radicale
separazione fra l’immediata e non problematica raccolta dei dati sul campo e la loro
sistematizzazione teorica. Hanno così teorizzato la sottomissione dei dati particolari agli scopi
teorici, sussumendo e annullando i casi in grandi generalizzazioni universalizzanti. Così
Radcliffe-Brown ha sottolineato la necessità che la scienza non si preoccupi del particolare,
quanto piuttosto del resoconto della forma e della struttura. Analogamente, Malinowski
interpretò la necessità di cogliere il punto di vista del nativo come modo di pensare e sentire
stereotipato e non come ciò che A o B possono sentire in quanto individui. Infatti,
l’osservazione partecipante si riduce a una raccolta di dati immediata e non problematica.
L’esperienza personale e non partecipativa dell’etnografo è fortemente limitata dagli standard
oggettivanti e impersonali dell’osservazione. In seguito, Lévi-Strauss elaborò i principi della
separazione fra teoria e osservazione, producendo la tripartizione, gerarchicamente ordinata,
fra etnografia (la raccolta, classificazione e descrizione dei fenomeni culturali particolari),
etnologia (un primo passo verso la sintesi comparativa) e antropologia (ultima tappa di una
generalizzazione finalizzata all’elaborazione teorica e alla spiegazione).
Nella contemporaneità gli approcci che separano la teoria dall’osservazione si rifanno ai
cultural studies.

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E’ grazie al contributo di Geertz che negli ultimi decenni si è iniziato a riflettere sulla ricerca
etnografica. L’etnografia di Geertz parte dal punto di vista che l’esperienza è più complessa
della sua rappresentazione positiva, basata sulla raccolta non problematica e sulla descrizione
oggettivante dei dati condotta da un punto di vista esterno e distaccato. Il commento descrittivo
è già un momento interpretativo, costruttivo e dunque carico di teoria. Struttura la sua ricerca
in favore del particolare e dell’eccezione. Spostando l’attenzione dalla struttura e dal
comportamento allo studio dei simboli e dei significati, il suo pensiero si inserisce fra quelle
correnti che, negli anni ’60, avevano riscoperto lo storicismo tedesco e le sociologie
interpretative boasiane. Per un ventennio dopo la seconda guerra mondiale, molti antropologi
statunitensi si erano allontanati dal relativismo boasiano per approcci più scientifici verso un
ritorno dell’antropologia come scienza naturale della società.
Geertz rileva che l’antropologo non lavori più in situazione di isolamento e di dominio
coloniale che autorizzava le ricerche e legittimava il suo monopolio della rappresentazione
della realtà.
In Geertz, da un lato gli oggetti non sono visti come enti dotati di proprietà indipendentemente
dal punto di vista di chi li conosce; dall’altro il soggetto non è un’istanza paradigmatica, un
ente neutro, bensì un soggetto storico, inserito in una forma di vita, ontologicamente fondato
sulla sua cultura e sul suo sapere. L’orizzonte è così concepito al di là del soggettivismo e
dell’oggettivismo, in una circolarità che riconosce la reciproca appartenenza fra soggetto e
oggetto, il sapere dell’antropologo e quello del nativo, l’orientamento dell’analisi rispetto
all’attore e al carattere costruttivo dell’interpretazione. L’etnografo geertziano deve dare un
senso a ciò che è straniero. Fonda l’etnografia sull’interrelazione fra le costruzioni
interpretative dell’antropologo e quelle dei suoi interlocutori. I significati non sono
semplicemente scoperti, ma vengono creati attraverso complesse negoziazioni sia nel momento
dell’incontro etnografico sul campo, in una fusione di orizzonti antropologici e nativi, sia a
casa, nel processo di testualizzazione. I dati antropologici vengono resi complessi e articolati,
costruzioni di costruzioni, interpretazioni di interpretazioni, consistendo in ciò che l’etnografo
ha registrato, di ciò che è stato in grado di comprendere, di ciò che gli è stato detto dai suoi
interlocutori a partire da ciò che essi hanno capito. L’etnografia deve far emergere la natura
negoziale della comprensione, la dialogicità fra i modelli concettuali dell’antropologo e del
nativo, in un sottile gioco di interferenza fra componenti personali e autobiografiche e
componenti disciplinari della ricerca. L’etnografo geertziano non può rinunciare alla propria
autorità che da un lato autorizza i suoi discorsi presso gli interlocutori e i suoi fruitori, dall’altro
si manifesta inesorabilmente nella scrittura, fondando ciò che Geertz chiama la “funzione
d’autore”. L’antropologia si costruisce necessariamente a partire dal punto di vista
dell’antropologo. L’autoreferenzialità, racchiusa nella stessa nozione ermeneutica di circolarità
e di storicità della comprensione, sottolinea che la costruzione della conoscenza antropologica
si sviluppa inevitabilmente in chiave riflessiva e autobiografica: l’accesso all’altro è sempre
mediato dalla propria ontologia e dalla propria appartenenza a una comunità linguistica e
storica. La negoziazione e la dialogicità sono estremamente articolate e accadono a differenti
livelli: fra antropologo e nativi e fra nativi fra di loro, fra le differenti forme di informazioni,
fra l’antropologo, i propri modelli teorici e la comunità scientifica, fra l’antropologo e se stesso
attraverso il tempo e fra i suoi vari aspetti (biografici, personali, disciplinari); inoltre, nella
temporalità della scrittura, nella trascrizione della realtà del dire e nel rapporto con i lettori. Il
metodo geertziano segna così il passaggio dall’osservazione partecipante all’osservazione della
partecipazione. La scienza di Geertz si muove all’interno di una circolarità ermeneutica. Il

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criterio di valutazione si riferisce alla coerenza e all’accordo fra le parti e il tutto. Una data
lettura dei significati intersoggettivi di una società, istituzioni o pratiche, è valida perché riesce
a costruire un senso. Il valore della teoria dipende dalla sua capacità di mostrare il suo oggetto,
di catturare la particolarità che, a sua volta, convalida la teoria generale. Lo scopo
dell’antropologia è l’ampliamento del discorso umano, piuttosto che la sua chiusura attraverso
qualche concetto di verità oggettiva. Il lavoro etnografico diventa, quindi, inevitabilmente
ironico, riducendo fino a deriderli i grandi atteggiamenti e le verità. La riflessività diventa
caratteristica intrinseca al discorso antropologico, radicando l’antropologo alla propria cultura
ed esibendo il carattere negoziale e processuale della costruzione della conoscenza. Le culture
risultano come il prodotto artificiale, dinamico e aperto, di rappresentazioni contingenti,
precarie e parziali, di strategie attivamente articolare da differenti individui e gruppi. Geertz
suggerisce di elaborare un pensiero sociale che riesca a comprendere la complessità della
differenza, superando facili riduzionismi, vuoti universalismi o preoccupanti naturalizzazioni.
Il compito dell’antropologia diviene quello di illustrare le differenze sempre più sottili che
costituiscono le realtà sociali in termini complessi e di identificare e proporre appropriati usi
delle diversità, sottratti a scontri fra civiltà.

CAPITOLO 1
L’antropologia postmoderna

1.1 La crisi dei fondamenti

Nel libro “Interpretazione di culture” Geertz sostiene che anche i più grandi paradigmi, dopo
un periodo di splendore più o meno breve, sono destinati a venire sostituiti.
Le riflessioni di Geertz si oppongono allo sforzo positivistico di applicare la nozione di metodo
elaborata dalle discipline biologiche e fisiche a quelle umane e, in generale, all’ideale di una
scienza naturale della società fondato su fonti tipicamente moderne: il modello induttivo
baconiano, il sistema deduttivo cartesiano, l’osservazione sperimentale e la
matematicizzazione galileiana del mondo fisico, la fondazione newtoniana della scienza
sperimentale e descrittiva. L’analisi logica del linguaggio scientifico viene concepita come il
procedimento unitario che ricostruisce la struttura razionale delle scienze e fonda la verità nella
traducibilità in un linguaggio base, quello del rispecchiamento dei fatti. Cercando di superare
la crisi di identità determinata dal pensarsi come scienze naturali sottosviluppate, le scienze
sociali hanno cercato di trasformarsi in una sorta di fisica sociale, completa di leggi, formalismi
e prove. Per paura di essere emarginati e scacciati dal banchetto come degli straccioni, gli
scienziati sociali hanno così sviluppato una scienza umana che assumesse la nozione di metodo
della fisica e della biologia, tentando di rispecchiarne la correttezza formale e il rigore
metodologico. Geertz si oppone al programma positivista di unificazione metodologica della
scienza. Mette in discussione il mito di un metodo scientifico univoco e fisso che permetta al
soggetto di disporre di un oggetto, a lui opposto, in termini obiettivi e dimostrabili. Ricusando
la concezione, inaugurata dal dualismo cartesiano fra res cogitans e res extensa, secondo cui il
soggetto si forma una rappresentazione mentale di un’oggettività data, respinge il principio
empirista dell’esperienza sensibile come base autonoma del sapere, indipendente da ogni
elemento teorico, come anche la conseguente nozione della teoria come astrazione induttiva,
fondata sulla scoperta di relazioni causali e necessarie fra ripetute osservazioni della natura.
Rifiuta la relazione verificazionista fra verità ed esperienza, basata sull’indipendenza

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dell’osservativo e sulla riduzione atomistica della componente teorica ai dati del mondo.
Bersaglio principale di Geertz è l’idea di epistemologia fondazionalistica nata
dall’individuazione cartesiana del cogito.
L’approccio riduzionista ha portato a ciò che Geertz denomina la “concezione stratigrafica”
dell’uomo, fondata su rapporti gerarchici fra le differenti sfere della vita umana e concepita sul
modello causale newtoniano. L’uomo sarebbe mosso da cause prime. Le forme culturali
vengono spiegate sulla base di fatti non culturali. In questa concezione, il lavoro dell’etnografo
si riduce a riportare le varie espressioni superficiali a strutture soggiacenti e fondanti: i
fenomeni, raggruppati attraverso il metodo comparativo in tipologie universali e uniformità
empiriche, vengono considerati come risposte cristallizzate e inesorabili realtà.
In Geertz, l’uomo viene definito come un animale incompleto, che si contraddistingue dai non-
uomini non tanto per la quantità e la varietà di cose che deve imparare prima di poter
funzionare, quanto per la sua abilità ad imparare. Egli mette in rilievo l’integrazione fra fattori
biologici e fattori culturali: senza uomini certamente non c’è cultura; allo stesso modo, senza
cultura non ci sarebbero uomini. Geertz abbandona il concetto di sequenza tra l’evoluzione
fisica e lo sviluppo culturale dell’uomo in favore di una concezione interattiva. Al pensiero di
esseri anatomicamente simili all’uomo che scoprono lentamente la cultura, viene sostituita
un’idea di struttura umana risultante dalla cultura.
La considerazione del sistema nervoso come prodotto culturale, si accompagna alla
convinzione che il grosso dei cambiamenti biologici che diedero origine all’uomo moderno dai
suoi progenitori più immediati ebbe luogo nell’encefalo, producendo un rigonfiamento che
raggiunse le attuali proporzioni. Per Geertz, l’evoluzione mentale e l’accumulazione culturale
non sono due processi separati. Geertz raccoglie la sfida lanciata da Clark di mettere di nuovo
insieme il cervello, il corpo e il mondo, invitando ad abbandonare l’idea che il cervello
dell’homo sapiens sia capace di funzionamento autonomo, indipendentemente dal contesto.
Ciò che secondo lui distingue l’uomo dal proto-uomo è la complessità dell’organizzazione
nervosa, non la forma generale del corpo. Il sistema nervoso centrale, se non viene
culturalmente rifornito, si atrofizza.

1.2 Scienze naturali e scienze umane

Geertz abbandona l’idea di una scienza sociale fondata sulle scienze naturali. Ripensa lo statuto
scientifico del sapere secondo una traiettoria segnata da Weber e dalla filosofia della scienza
post-empirista. Supera la distinzione fra, da una parte le scienze naturali fisico-matematiche,
positivistiche e pragmatiche, caratterizzate dal procedimento della spiegazione e, dall’altra, le
scienze dello spirito ermeneutiche, caratterizzate dal procedimento della comprensione.
Secondo Windelband, l’impianto ipotetico-deduttivo delle scienze naturali è finalizzato a
stabilire un insieme di leggi generali sulla cui base spiegare deduttivamente i fenomeni,
procedendo verso un livello sempre crescente di generalizzazione che classifica i fenomeni
sotto la necessità della legge universale. Il modello delle scienze dello spirito, invece, persegue
la conoscenza del particolare, della singolarità, servendosi di regole generali in vista della
comprensione del carattere specifico dei fenomeni. Propone di realizzare un profondo
cambiamento non tanto di che cosa è la conoscenza, ma di che cosa è che vogliamo conoscere.
Considerando che il significato non è intrinseco agli oggetti, atti, procedimenti o altro che lo
posseggono ma, (come hanno fatto notare Durkheim, Weber e tanti altri) è imposto su di essi,
la prospettiva geertziana si fonda sull’analisi delle modalità con cui si costituiscono le

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condizioni di possibilità e di pensabilità dei fatti. Ogni cosa è colorata dal significato che le
viene imposto. Presentiamo a noi stessi gli oggetti avendoli organizzati e resi visibili attraverso
una presentazione simbolico-formale. L’ob-jectum è l’effetto di una costruzione ideale o
virtuale, prodotta dai dispositivi tecnici di schematizzazione e di modellizzazione. Da questa
prospettiva gli oggetti, sia delle scienze umane che di quelle naturali, non si offrono alla
neutralità di un metodo di osservazione e di rappresentazione. Sono piuttosto costrutti
artificiali, risultato di complesse procedure di messa in forma. La realtà della meccanica
quantistica si fonda sul principio che in ogni misurazione ci sia un’interazione finita tra oggetto
da misurare e strumento, il cui valore resta indeterminato: non è possibile misurare
contemporaneamente la posizione e la velocità di una particella, né condurre esperimenti a
prescindere dalle condizioni specifiche dell’osservabilità sperimentale. Capire cosa siano gli
oggetti significa, dunque, comprendere le condizioni della loro pensabilità. Gli esperimenti in
laboratorio o il lavoro sul campo diventano forme di costruzione dell’oggettività in cui la
presenza del soggetto determina le condizioni di costruzione dell’oggetto.
L’immagine della scienza che resiste continua a fondarsi su un’immagine, tipicamente
moderna, di ordini naturali, verità e metodi. La tendenza alla naturalizzazione e
all’ipersemplificazione ha prodotto un modello di scientificità riduttivo e oggettivista a cui le
scienze umane cercano di riferirsi per la costruzione di spiegazioni del comportamento umano.
Il paradigma di scientificità rimane prigioniero, da una un lato di un’unificazione del sapere
fondata su antiquate e false concezioni del sé da parte delle scienze naturali, dall’altro viene
riprodotta la divisione dei saperi così come è stata pensata da alcuni teologi dell’800,
confinando la scienza naturale nella sua propria sfera, stelle, rocce, onde, lontana da materie
dove il significato conta. Geertz suggerisce di superare il modello bipolare e dicotomico e i
saperi disgiuntivi per cercare invece le interdipendenze fra discipline. La scienza geertziana si
identifica con la libertà di fare connessioni e separazioni tra campi di indagine, violando linee
metodologiche ritenute inviolabili.
Geertz riferisce che differenti indirizzi di ricerca, come i sciences studies, guardano alla scienza
da un punto di vista ermeneutico, invertendo i termini e basandosi sulle cose sociali al fine di
spiegare le cose naturali. Analizzano la scienza come un’azione sociale dotata di senso e ne
esaminano a retorica dei discorsi, descrivendo gli agenti umani e non umani come nodi coagenti
in reti ramificate di significato e potere.

1.3 Metafore ludiche, drammatiche e testuali

Geertz dirige l’attenzione verso i grossi cambiamenti nelle affinità di studio, “chi prende a
prestito, che cosa da chi”, sottolineando come diversi linguaggi delle scienze sociali abbiano
sostituito le metafore prese dalle scienze naturali con analogie che provengono dal mondo dei
giochi, della drammaturgia, della letteratura.
L’approccio interpretativo comporta un profondo cambiamento nelle analogie e nelle metafore
che hanno dato forma alle imprese scientifiche e quindi nel modo di concepire gli oggetti e le
finalità delle ricerche. La metafora viene pensata come un evento semantico che costruisce gli
oggetti, permettendo loro di essere visti sotto una nuova luce che si realizza nell’incontro di
orizzonti di pensabilità eterogenei. La metafora, in quanto ridescrizione poietica, produce
immagini inedite sulla realtà e inaugura nuovi significati.
Leggere i fenomeni naturali con metafore ludiche, drammaturgiche o testuali, produce
implicazioni decisamente differenti piuttosto che vederli attraverso le metafore biologiche che

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hanno segnato la storia della disciplina (evoluzione, funzione, struttura, omeostasi,
superorganico). Queste analogie, inaugurate dall’evoluzionismo di Herbert Spencer, hanno
generato un’immagine organicista della società come un sistema che si sviluppa sulla base della
differenziazione strutturale e funzionale. Il ricorso ad analogie letterarie segna il cambiamento
in direzione di un approccio interpretativo e semantico, che non pensa la società come un
organismo o una macchina da spiegare, quanto un insieme di significati da comprendere.
La metafora del gioco, elaborata da Geertz nell’interpretazione della contrattazione nei bazar
mediorientali è piuttosto diffusa nella teoria sociale contemporanea. Il conflitto sociale, la
devianza, l’imprenditorialità, i ruoli sessuali, i riti religiosi, la stratificazione sociale e il
bisogno di essere accettati sono così trasformati in strategie, flussi costanti di “azzardi,
complotti, artifici, bluff, finzioni, cospirazioni, bugie belle e buone”. L’utilizzo della metafora
del gioco di Goffman vede le società come pluralità di giochi competitivi, di convenzioni
accettate e di procedure appropriate al fine di ottenere un profitto personale. La metafora del
dramma, introdotta da Geertz nell’analisi del sistema politico a Bali come “stato-teatro”, non è
nuova all’interno della teoria sociologica e antropologica. I concetti presi dal teatro -il più
comune dei quali è senz’altro quello di “ruolo” – si sono diffusi nelle scienze sociali a partire
dagli anni ’30. L’analisi geertziana del sistema politico di Bali come “stato-teatro” ha mostrato,
da un lato, che tutti i fenomeni culturali – dai gruppi di parentela al commercio, dal diritto alla
mitologia, dal controllo delle acque alla cremazione, dall’iconografia all’architettura – possono
diventare affermazioni teatrali della teoria politica balinese, asserzioni sul fondamento divino
del potere, sul governo e sull’autorità. Dall’altro ha messo in luce il coinvolgimento delle masse
nelle grandi cerimonie dalla forte valenza drammaturgica al fine di dare forma all’esperienza
delle persone e di funzionare come potente mezzo d’integrazione sociale e politica. Geertz
riconosce nell’analisi di Turner sulla vita cerimoniale in centro Africa il principale esempio di
elaborazione dell’analogia teatrale. La drammatizzazione sociale, presente per Turner a tutti i
livelli della vita sociale, è finalizzata a risolvere il conflitto attraverso comportamenti attuati
pubblicamente; per contenerlo e renderlo ordinato ed evitare, scrive Geertz, che le cose si
sgretolino in finali tragici: emigrazioni, divorzi o assassinii nella cattedrale.
Lo spunto per la teoria è dato dall’etnografia condotta a Bali dove Geertz ha mostrato che la
parentela, la forma del villaggio, lo tato tradizionale, i calendari, il diritto e la lotta dei galli,
potevano essere letti come testi, enunciati, “messi in atto” per descrivere particolari modi di
essere al mondo. Il combattimento dei galli, esattamente come una forma artistica, è
considerato un testo in mezzo ad altri testi. Viene paragonato all’opera di Dostoevskij Delitto
e Castigo per la sua pertinenza nel prendere i temi fondamentali dell’esistenza – la morte,
l’umiltà, l’ira, l’orgoglio, la perdita la beneficenza, il caso – e ordinarli in una struttura
comprensiva che li renda significativi, visibili, tangibili e reali. Il combattimento dei galli
assume così il significato di una lettura balinese dell’esperienza balinese, un testo composto da
un vocabolario di sentimenti – il brivido, il rischio, la disperazione o la felicità – che per i
balinesi costituisce un’esperienza conoscitiva in cui apprendono l’ethos della loro cultura. Dato
che la soggettività non esiste realmente finchè non è organizzata, il combattimento dei galli
diventa l’elemento generatore e rigeneratore di quella soggettività. Geertz dimostra che i
prodotti culturali possono essere trattati come testi, considerando leggibili le istituzioni, i
costumi, i cambiamenti sociali. L’approccio è caratteristico della tradizione ermeneutica e
dell’applicazione della nozione di interpretazione al di là del materiale scritto. Come ricorda
Ricoeur, il problema specifico dell’ermeneutica si è costituito nell’interpretazione delle sacre

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scritture. La filosofia successiva ha dato ampio rilievo al problema dell’interpretazione, intesa
come modo di risalire al di là di ciò che è esplicito.
Geertz invita a interessarsi a come le interpretazioni dell’antropologo vengano costruite nella
relazione con quelle dei suoi interlocutori. Capire un testo non significa rifarsi alle intenzioni
dell’autore entrando nella sua testa. Vedremo come l’intelleggibilità richieda che l’azione
venga inserita “densamente” in una complessa rete di significati composta dal contesto
culturale in una complessa rete di significati composta dal contesto culturale dell’azione, quello
dell’attore e quello dell’interprete. Capire un testo significa, ermeneuticamente, elaborare una
chiave di lettura (costruire una lettura di) per fare emergere le significazioni in esso implicite.
La metafora del testo invita a considerare la scrittura come parte essenziale della pratica
etnografica. L’etnografo non solo interpreta ma deve produrre dei testi. L’interpretazione da
parte dell’etnografo di una particolare cultura è inevitabilmente una costruzione testuale. In
generale le metafore geertziane suggeriscono un’immagine dell’uomo visto come sottomesso
a regole plurali, inserito in un contesto denso di significai multipli, piuttosto che guidato da
forze, e invitano a utilizzare una prospettiva interpretativa ed ermeneutica. Geertz auspica che
le metafore non si escludano a vicenda e misura la loro efficacia nella capacità di sconfinare
l’una nell’altra – secondo l’esempio della sua considerazione dei rapporti sociali balinesi sia
come un testo, sia come un gioco solenne e sia come una “teatralità giocosa”. Invita l’interprete
a muoversi liberamente tra idiomi ludici, teatrali e testuali e di andare al di là delle applicazioni
metaforiche prevedibili per inaugurare nuove visioni sulla realtà attraverso una ricca etnografia
di casi.

CAPITOLO 2
La scienza dell’azione simbolica

2.1 Dal punto di vista dei nativi

La nozione di significato rappresenta il nucleo fondamentale e l’idea guida del pensiero


geertiziano. Geertz caratterizza in termini innovativi il proprio contributo alla disciplina per
aver spostato gli interessi dallo studio del comportamento e della struttura sociale
all’interpretazione dei significati: la sua svolta interpretativa dirige l’analisi verso una
concezione della vita sociale organizzata in termini di simboli (segni, rappresentazioni,
significanti) i cui significati devono essere compresi se si vuole capire quell’organizzazione e
formularne i principi. Unendo le esigenze dell’ermeneutica con la fenomenologia Geertz si
propone di elaborare una fenomenologia scientifica della cultura fondata sull’analisi delle
strutture di significato nei termini delle quali individui e gruppi di individui vivono e, in
particolare, dei simboli e dei sistemi di simboli attraverso i quali queste strutture vengono
formate, comunicate, alterate, riprodotte. Geertz propone l’elaborazione di una semantica delle
espressioni significanti che comprenda come la struttura di significato che informa l’esperienza
sia recepita dai membri rappresentativi di una particolare società in un particolare momento.
La sua “semantica dell’azione” pone quindi a fondamento delle teoria il concetto weberiano di
comportamento significativo così come è stato definito da Max Weber. L’approccio geertziano
coniuga le influenze derivanti da Weber e dalla fenomenologia con l’ermeneutica e con
indirizzi di ricerca molto differenti fra loro. La sua analisi etnografica si fonda sulle premesse
di attori che vivono in una particolare forma di vita, la loro relazione all’azione e ai significati
che Parsons attribuì al sistema culturale.

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Per comprendere che cosa sia l’interpretazione antropologica e fino a che punto è
interpretazione, nulla è più necessario di un’esatta comprensione di quello che significa (e
quello che non significa) dire che le nostre formulazioni dei sistemi simbolici di altri popoli
devono essere orientati rispetto agli attori. Reinterpretando il precetto di Malinowski di
afferrare le cose dal punto di vista dei nativi, Geertz pone come problema centrale dell’analisi
antropologica la comprensione del modo in cui i nativi pensano, sentono e percepiscono.
Elegge a obiettivo della sua etnografia l’analisi dei significati soggettivi che costituiscono le
azioni degli individui nel mondo sociale e considera l’azione umana a partire dalle descrizioni
intenzionali e dai modi in cui gli agenti interpretano il significato dei propri comportamenti.
L’azione non ha significato diretto, ma assume un significato simbolico, diventando simbolo
significativo, grazie all’attività dell’uomo. Geertz considera l’interpretazione come la struttura
ontologica originaria dell’uomo in quanto essere al mondo: l’imprimere un significato alla vita
è la condizione principale e primaria dell’esistenza umana. La condizione umana è una
condizione ermeneutica in quanto si definisce in una costante interpretazione dei propri atti e
di quelli degli altri. Non può capire l’azione umana chi assume la posizione di osservatore
esterno che vede dolo le manifestazioni fisiche di tali atti. Per capirla è necessario sviluppare
categorie volte a comprendere ciò che l’agente, dal proprio punto di vista, vuol significare con
le proprie azioni: comprensione della complessa rete di significati che fornisce senso
all’esistenza umana.
La “descrizione densa” consiste nella ricostruzione dei livelli di significato non espliciti delle
prospettive degli attori. Rappresenta la ricerca di un contesto entro cui eventi sociali,
comportamenti, istituzioni, processi, possano essere intellegibilmente, cioè densamente,
descritti. La regola metodologica richiede di orientare l’analisi rispetto agli attori, prendendo
in considerazione il loro punto di vista e ricostruisce i livelli di cultura su cui fondano i propri
significati. Geertz espone il significato dell’analisi etnografica densa comparando tic
involontari ad ammiccamenti: i primi sono semplice comportamento, mentre i secondi sono
comportamento significativo, l’oggetto specifico dell’etnografia. Per l’osservatore esterno i
due tipi di azione non hanno differenze. E’ solo rifacendosi alle prospettive dell’agente e
inserendo l’azione nel suo contesto o nella sua forma di vita che essa assume un significato. E’
solamente in funzione di una certa convenzione simbolica che possiamo interpretare un certo
gesto come capace di significare una certa cosa: il medesimo gesto di alzare il braccio può, a
seconda del contesto, essere inteso come un modo di salutare, di chiamare un taxi, o esprimere
un voto. La descrizione densa è qualcosa che Geertz ha applicato a differenti fenomeni,
prendendo i più particolari episodi e allargando la prospettiva per comprendere visioni generali
sulla cultura. Rappresenta l’allargamento del discorso da specifici tipi di comportamento (furti
di pecore, combattimenti fra galli, feste, bazaar) alla società e alla cultura. In un saggio raccolto
in Interpretazione di culture prende il combattimento dei galli come la chiave di lettura della
società balinese. La sua prospettiva è sostanzialmente linguistica e comunicativa. Geertz si
rivolge al linguaggio come radice del conoscere così come è concepito dalla filosofia analitica
e dall’ermeneutica. Non solo il linguaggio ha la proprietà di articolare l’esperienza, ma
conserva, altresì, mediante una sorta di selezione naturale, le espressioni più adatte, le
distinzioni più sottili e meglio appropriate dell’agire umano.
Non è possibile che il soggetto metta fra parentesi il proprio essere, la propria cultura o
dimentichi il proprio sapere e la propria soggettività per cogliere l’oggettività attraverso magie
etnografiche: “i resoconti della soggettività di altre persone - commenta Geertz – possono
essere costruiti senza ricorrere a pretese di capacità straordinarie di annullare il proprio sé e

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cose simili”. Non riusciamo a metterci nei loro panni. Geertz ritiene inattuabile una totale
immedesimazione, sia per la necessaria differenza che deve distinguere, fondandoli, i discorsi
antropologici da quelli dei nativi, sia perché gli antropologi, come tutti gli esseri umani, sono
ontologicamente fondati sulla loro cultura e sul loro sapere. Il suo approccio esclude
l’improbabile eventualità di diventare nativo. Considera come impraticabile e inevitabilmente
falsa l’idea di seguire i costumi dei nativi su cui l’osservazione partecipante ha fondato la
propria metodologia. Geertz ha invece analizzato etnograficamente le forme simboliche e
pubbliche disponibili nell’una o nell’altra comunità – parole, immagini, istituzioni,
comportamenti – nei termini in cui, in ciascun luogo, le persone si sono rappresentate nella
realtà a sé stesse e agli altri concependo la cognizione, l’emozione, la motivazione, la
percezione, l’immaginazione, la memoria, come questioni sociali. Ha posto il problema di
vedere le cose dal punto di vista del nativo in ermini differenti dal modello empatico. L’eroe
dell’antropologia culturale che ottiene i propri risultati per mezzo di capacità particolari
normalmente chiamate empatia penetrando sotto la pelle dei selvaggi si rivela, invece, un
contorto, preoccupato e ipocondriaco narcisista. Da diverse prospettive è stato evidenziato che
il concetto di osservazione partecipante contrasta con le basi epistemologiche su cui intende
fondarsi. La partecipazione viola la separazione fra soggetto e oggetto, fra osservatore e
osservato, caratteristica dell’osservazione nelle scienze naturali. Il metodo malinowskiano si
rivela un ossimoro. Diventa difficile risolvere gli elementi del paradosso: più l’antropologo
partecipa, meno gli sarà possibile osservare. Inoltre, la specificità del lavoro etnografico, il
continuo riflettere, prendere appunti, far domande, riempire questionari, far fotografie,
registrare e poi trascrivere, tradurre e interpretare, impediscono di essere completamente dentro
alla cultura che si vuole studiare. In aggiunta, la partecipazione implica parità sociale e una
relazione simmetrica e relativamente libera fra antropologo e nativo. La società trobriandese
era organizzata in lignaggi, fortemente stratificata e centralizzata politicamente. Solamente
sposando una donna trobriandese, entrando nella rete della parentela e impegnandosi con gli
altri uomini nelle attività agricole si sarebbe potuto vivere come un trobriandese. Ma questo
avrebbe impedito di essere contemporaneamente un antropologo. In realtà Malinowski si stabilì
all’interno del villaggio in una posizione autorevole e di prestigio, curato da un certo numero
di servitori. Il suo lavoro si basò fortemente ancor più che sulle osservazioni, sulle interviste,
poco tollerate e compensate con elargizioni di tabacco.

2.2 Lo spettro della macchina

Geertz rintraccia la fonte principale dell’equivoco empatico da parte dell’antropologia


contemporanea nella concezione cognitivista. Coglie le origini di questo pregiudizio nel
dualismo cartesiano che presume di poter dividere nettamente la vita umana in una parte fisica,
e perciò osservabile, e in una parte mentale, privata e inaccessibile all’osservazione. La mente
altrui sarebbe nota solo attraverso inferenze tratte dal comportamento osservato di un corpo.
La comprensione condurrebbe all’idea che l’antropologia sia una varietà di lettura della mente
a grande distanza. Non solo non è possibile ispezionare una mente come si ispeziona il mondo
delle cose estese, ma le leggi che governano le opere della mente e i loro rapporti con i
movimenti corporali sono sconosciute.
Ryle sostiene che la concezione dualistica si basa su una sorta di errore categoriale che
stabilisce un collegamento para-meccanico, presentando fatti della vita mentale per analogia a
quelli illustrati dalle scienze tecniche e naturali. Fare o dire qualcosa significante, secondo

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quella che Ryle chiama “la leggenda dei due mondi”, comporterebbe fare due cose, cioè
considerare appropriate proposizioni e poi metterle in pratica: significherebbe fare un po’ di
teoria e un po’ di pratica. Ryle confuta l’opinione che un individuo prima agisca e poi
conferisca significato al suo agire. Il conferimento di significato è un fatto primario e coincide
con la stessa organizzazione dell’azione. Geertz non considera la mente qualcosa di oscuro e
di privato: rifacendosi a John Dewey, la definisce come un insieme di disposizioni di un
organismo a compiere un determinato tipo di azioni. Da questo punto di vista la mente non è
la base archimedica a cui risalire causalmente nella spiegazione del comportamento secondo i
principi metodologici del cogito cartesiano. Al contrario, Geertz individua il mentale non in
qualcosa nascosto, ma in qualcosa di pienamente osservabile che esiste nel mondo della vita.
Le uniche manifestazioni da analizzare – e le uniche che possano essere considerate mentali –
sono le azioni e le reazioni umane, ciò che l’uomo dice, con il tono di voce o con i gesti.

2.3 La scienza empirica delle idee

Il principio dell’interpretazione soggettiva si riferisce all’accesso dei fatti sociali e al loro


accertamento. L’analisi coincide con la ricerca delle capacità e propensioni di cui l’azione è
l’attuazione: non cause occulte, ma abilità, abitudini, responsabilità, inclinazioni. Geertz ha
così elaborato una metodologia che chiama “epistemologia pratica” fondata sul passaggio
analitico da ciò che era precedentemente considerato come un problema di confrontabilità fra
processi psicologici di popoli diversi a una questione di commensurabilità di strutture
concettuali tra comunità discorsive. A tale scopo, recupera le considerazioni di G.H. Mead: il
significato non un a priori indipendente dal comportamento, ma viene anch’esso a formarsi
tramite l’interazione sociale per messo del comportamento. Pensiero come “traffico di simboli
significanti” per elaborare una metodologia scientifica positiva che comprende i pensieri.
L’analisi del fattore intenzionale è fondata da Geertz sulla considerazione del pensiero come
un’attività pubblica e intersoggettiva. Geertz sostiene che il pensiero consista nella costruzione
e manipolazione di sistemi simbolici, non in avvenimenti fantasmatici. Il pensiero viene così
identificato con l’utilizzo di elementi radicati in contesti di comunicazione, in pratiche e forme
di vita intersoggettive che si trovano nell’esperienza e che servono per conferirle significato:
linguaggio, arte, mito, teoria, rituale, tecnologia … che chiamiamo senso comune. Solo in
secondo luogo il pensare è una questione privata. Come G.H. Mead il pensiero è innanzitutto
un atto palese svolto con i materiali oggettivi della cultura comune. Sia il pensiero che il
comportamento sono espressioni dei valori dominanti e dei modelli di organizzazione di una
particolare comunità. Le classificazioni, le interpretazioni delle nostre esperienze sono
costruite secondo schemi essenzialmente sociali e intersoggettivi. Geertz riconosce
esplicitamente Wittgenstein come proprio maestro. Utilizza l’idea wittgensteiniana di “forme
di vita” come il complesso delle circostanze naturali e culturali che sono presupposte in ogni
conoscenza del mondo, la critica dell’idea di un linguaggio privato e la nozione di gioco
linguistico. Geertz invita, dunque, a comprendere il pensiero etnograficamente, descrivendo il
modo in cui assume il suo significato. Il suo approccio si configura come “scienza empirica
delle idee” in quanto le stesse sono visibili, udibili e tattili, cioè si possono esprimere in forme
dove i sensi possono rivolgersi ad esse in modo riflessivo. I significati delle motivazioni, delle
intenzioni, espressi simbolicamente, possono essere compresi attraverso un’indagine empirica
sistematica, alla stessa stregua del peso atomico dell’idrogeno e della funzione delle ghiandole

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surrenali. In questo modo trasforma lo studio della cultura in una scienza positiva come
qualunque altra.

CAPITOLO 3
Il circolo ermeneutico

3.1 Finzioni

La principale caratteristica delle revisioni geertziane delle scienze sociali si fonda sulla
dimensione ermeneutica in quanto teoria del segno e delle significazioni equivoche e
polisemiche con la sua enfasi tematica sull’interpretazione e sul carattere costruttivo della
conoscenza. L’orizzonte geertziano si costituisce inserendo il discorso nel rapporto fra
interpretazione e traduzione all’interno della dinamica del circolo ermeneutico. Per mezzo del
circolo ermeneutico Geertz integra la “descrizione densa” con il principio dell’azione
significante come unità i base dell’analisi in grado di veicolare informazioni che trascendano
la sua particolarità e rimandino al contesto generale. Geertz sostiene la sua centralità non solo
per l’interpretazione etnografica e quindi per la comprensione del modo di pensare di altre
persone, ma anche per l’interpretazione tout court, letteraria o storica e ne spiega il
funzionamento con una serie di esempi. Nella semantica del potere a Bali Geertz mette in
relazione la descrizione delle particolari forme simboliche e la loro contestualizzazione
all’interno della struttura di significato che le comprende. Per capire la cremazione di un
monarca balinese segmenta l’insieme di immagini relative alla cerimonia negli elementi
significativi di cui è composta e incorpora questi elementi nell’analisi del rito nel suo
complesso. La caratteristica principale del circolo ermeneutico riguarda l’aspetto costruttivo e
concepisce la circolarità a partire dall’anticipazione di senso che abbraccia la totalità: questa
diviene comprensione in quanto le parti, che sono determinate dal tutto, determinano a loro
volta l’intero. La presupposizione del significato o la pre-comprensione del testo nel suo
insieme orienta l’interpretazione delle singole parti che, a loro volta, modificano la
comprensione del tutto, tramite un procedimento in costante ridefinizione.
L’antropologo, dice Geertz, analogamente a un letterato, inventa i significati del discorso
sociale. Come le opere letterarie, i testi antropologici sono finzioni. In varie occasioni Geertz
usa l’espressione di Wittgenstein “i limiti del mio linguaggio determinano i limiti del mio
mondo”. Geertz ricostruisce il rapporto teoria-osservazione collocandolo all’interno
dell’epistemologia costruttivistica di Wittgenstein. “Un pensiero echeggia nel vedere”: il
vedere non è un processo fisico, la sola formazione dell’immagine retinica, ma è in realtà
un’impresa carica di teoria. Geertz cenna alle differenti modalità con cui le culture mettono in
forma la realtà, organizzandola in termini significativi e interpretandola secondo categorie
relative e costruzioni specifiche degli oggetti del mondo.

3.2 Soggettivismo e oggettivismo

Nell’ermeneutica geertziana funziona la relazione dinamica fra il sapere dell’antropologo e


quello del nativo. La dinamica del circolo ermeneutico identifica il lavoro dell’etnografo nel
trovare risorse nel proprio linguaggio, nella propria cultura per capire i fenomeni a lui alieni
senza imporre i propri pregiudizi su di essi e senza fermarsi ad essi. L’interpretazione non
consiste nel portare semplicemente a termine le proprie anticipazioni. Gadamer utilizza la

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metafora testuale per definire gli aspetti costruttivi della conoscenza. In generale, prima di
comprendere la frase procediamo all’elaborazione di una strutturazione preliminare che
costituisce la base per la comprensione successiva. Il metodo interpretativo si fonda
sull’oscillazione perpetua delle interpretazioni, richiedendo all’antropologo di porre in
relazione dialettica le proprie pre-comprensioni con le forme di vita che cerca di capire. Invita
a mettere in gioco e riformulare i modelli teorici di partenza, elementi costitutivi dell’orizzonte
dal quale l’antropologo interpreta la realtà e il linguaggio con cui dare senso al mondo. In
antropologia, la situazione del dover incontrare un altro “totalmente altro” è una condizione
ideologica, retaggio della neutralità scientista e del mito della conoscenza come
rappresentazione. In ogni lavoro sul campo c’è sempre un contesto che mette in relazione
l’antropologo con il suo terreno di osservazione. Non solo le caratteristiche contingenti e
specifiche della relazione fra interprete e interpretato, il contesto sociopolitico più generale, ma
anche l’insieme delle conoscenze pregresse, il sapere dell’antropologo e quello dei suoi
interlocutori. Le cose stesse possono essere comprese realizzando che il loro significato le
trascende e appare attraverso la nostra comprensione. E non possiamo capire noi stessi come
soggetti se non comprendiamo il fatto che siamo sempre formati dalla nostra esperienza, dalla
storia e dalla tradizione. Come afferma Geertz, “l’arte e l’attrezzatura per afferrarla si
fabbricano nella stessa bottega”. Secondo i principi del circolo ermeneutico, soggetto e oggetto
non sono estranei ma si implicano a vicenda. Il soggetto interpreta all’interno della propria
cultura un oggetto che ha significato nel suo essere colto da qualcuno. Aprirsi all’alterità non
significa né una obiettiva neutralità, né un oblio di se stessi basato sull’oggettività del metodo
nel tentativo di “segar via il ramo sul quale sono seduto”, secondo l’espressione di
Wittgenstein, oppure assumendo l’illusoria posizione di osservatore disincantato che sfugge
dai propri orizzonti, Secondo Gadamer, voler tenere i propri concetti fuori dal processo
interpretativo non è solo impossibile, ma è un controsenso. Il soggetto deve utilizzare il
massimo di sapere possibile per aprire il mondo al maggior numero di punti di vista, utilizzando
le teorie e i modelli come attrezzi nella cassetta di utensili wittgensteniana. Solo attraverso le
nostre precomprensioni possiamo comprendere “le cose stesse” e guadagnare l’accesso al
punto di vista del nativo senza diventare nativi. Essere aperti alle opinioni dell’altro implica
che queste siano situate all’interno dei propri sistemi di opinioni, o che il soggetto si situi in
relazione con esse. Non “trasposizioni fra anime” quindi, ma il “porre se stessi” nell’altra
situazione, offre un significato al rapporto conoscitivo con l’Altro. Se ti trasposizione si vuol
parlare, essa è piuttosto, usando la metafora di Gadamer, una fusione di orizzonti produttrice
di un innalzamento a una universalità superiore. Geertz esclude la possibilità di
immedesimazioni empatiche. Scarta la ricerca di appiattire lo sforzo interpretativo sulle
prospettive dei propri interlocutori, intesi come depositari di un’essenza culturale
incontaminata e pure, riducendo il punto di vista nativo a una prospettiva standardizzata e
universalizzante. Al contrario, la comprensione antropologica si fonda sulla necessaria
differenza che deve distinguere i discorsi antropologici da quelli degli informatori. Questo iato
fonda l’importanza e il ruolo dell’antropologo, sottraendolo all’ingenuo meccanismo empirista
di delegare ai propri informatori l’elaborazione di prospettive che l’antropologo sottraendolo
all’ingenuo meccanismo empirista di delegare ai propri informatori l’elaborazione di
prospettive che l’antropologo si limiterebbe a raccogliere immediatamente, nell’ingenua
pretesa che i membri di una cultura siano essi stessi autori delle interpretazioni antropologiche
in termini non solo “interni alla loro cultura, ma anche al linguaggio traduttore”. All’opposto,

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il compito principale dell’antropologo si definisce nella sua competenza professionale.
L’interpretazione è un atto creativo.

3.3 Dal punto di vista dell’antropologo

Geertz ritiene che le interpretazioni antropologiche, per loro natura, siano diverse dai resoconti
degli informatori. Lo scopo dell’antropologia interpretativa e quello delle scienze ermeneutiche
risiede nel raggiungimento di una chiarezza superiore rispetto all’immediata comprensione
dell’attore. Ciò che egli percepisce è ciò che essi percepiscono “con”, o “per mezzo di”, o
“attraverso”. I dati antropologici sono articolari e complessi, costruzioni di costruzioni,
interpretazioni di interpretazioni: ciò che chiamiamo i nostri dati sono in realtà le nostre
interpretazioni delle interpretazioni di altri su ciò che fanno loro e i loro compatrioti. Geertz
afferma che gli scritti antropologici sono essi stessi interpretazioni e, per di più, di secondo o
di terzo ordine (per definizione solo un indigeno fa quelle di primo ordine: è la sua cultura).
L’interpretazione è per sua natura sempre diversa rispetto al resoconto dell’interpretato. I
risultati a cui l’antropologo arriva sono molto stratificati, consistendo nella sistematizzazione
e nella testualizzazione di quello che l’etnografo ha registrato, di ciò che è stato in grado di
comprendere, di quello che i suoi interlocutori hanno voluto e saputo dire a partire da ciò che
essi hanno capito. “Comprendere non è mai solo un atto riproduttivo, ma anche un atto
produttivo…quando in generale si comprende, si comprende diversamente”.
Lo scopo dell’antropologia consiste nel mettere in relazione le interpretazioni dei nativi con le
interpretazioni scientifiche. Geertz elabora, a tale proposito, la distinzione classica fra categorie
culturali “emiche” ed “etiche” che, nell’antropologia cognitiva, designano rispettivamente
concetti interni al linguaggio o alla cultura-oggetto e i modelli teorici dell’antropologo.
Tuttavia, articola la relazione interpretativa tra concetti “vicini all’esperienza” e concetti
“distanti dall’esperienza”. Un concetto vicino all’esperienza è un concetto che chiunque
comprenderebbe prontamente quando utilizzato in modo simile da altri. Un concetto distante
dall’esperienza è un concetto che uno specialista di qualunque tipo utilizza per fare avanzare i
suoi obiettivi. Lo studio delle forme simboliche attraverso le quali le persone si rappresentano
a sé stesse e agli altri, non può essere portata avanti usando solamente concetti vicini
all’esperienza. Devono invece coinvolgere i concetti distanti che non necessariamente sono
conosciuti dalle persone analizzate. Solamente collocandosi dal punto di vista dell’antropologo
si può cogliere antropologicamente il punto di vista dei nativi e capire cosa loro pensano di
stare facendo. L’antropologo deve utilizzare entrambi i concetti, senza limitarsi al punto di
vista del nativo e senza imporre il proprio. Il punto critico è la comprensione del ruolo di
entrambi i concetti e delle modalità della loro interrelazione. L’immersione analitica nel mondo
privato degli interlocutori è scientifica in quanto elaborata dall’antropologo e accettata dalla
sua comunità di riferimento disciplinare. Questo avviene nella misura in cui riesce a tradurre il
linguaggio privato dei nativi nel linguaggio pubblico e specializzato dell’antropologia, in
accordo a canoni e criteri riconosciuti come scientifici. Comprendere non consiste
semplicemente nel collocare il punto di vista del nativo in una romantica pretesa di
uguaglianza, in una difficile orchestrazione polifonica o in un neutrale e immediato linguaggio
pidgin. La forza dell’interpretazione risiede nello scarto che consente all’analista di costruire
il senso. Le osservazioni di Geertz sulle relazioni fra linguaggi del senso comune elaborati
dagli attori sociali e costrutti di secondo grado sviluppati dagli antropologi funzionano in modo
analogo ai “tipi ideali” weberiani. I tipi ideali sono costrutti artificiali che rappresentano

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l’elemento nomologico senza essere leggi: costruiscono la possibilità degli eventi e la loro
configurazione razionale senza riprodurne la datità empirica. I tipi ideali sono astrazioni
formali, sono strumenti artificiali ed euristici, schematismi che configurano razionalmente le
condizioni di pensabilità del mondo, selezionando gli elementi rilevanti e permettendo, così, di
comprenderlo.
“Ogni traduzione – dice Gadamer – è un’interpretazione, anzi si può dire che essa è il
compimento dell’interpretazione che il traduttore ha dato della parola che si è trovato di fronte”.
Come la traduzione, l’etnografia rappresenta un modo di venire a termini con l’alterità. Implica
un trasferimento simbolico, il passaggio da una lingua all’altra, da una forma di vita all’altra,
da una cultura all’altra. In questo senso è un’operazione conoscitiva e interpretativa. L’atto di
traduzione, implicito in ogni azione d’interpretazione cross-culturale vede l’etnografo come
mediatore, secondo l’etimologia di entrambi i termini, fra un insieme distinto di categorie e
concetti culturali che interagiscono. L’intraducibile, radicando l’antropologo alla propria
cultura, mostra come l’esperienza dell’altro si realizzi solamente a partire da noi stessi ed
esibisce la riflessività come caratteristica intrinseca al discorso antropologico e alla sua
testualizzazione.

CAPITOLO 4
Autorità, autorizzazione, autore

4.1 Ironia etnografica

Geertz afferma esplicitamente che il lavoro etnografico non possa prescindere dalla ricerca sul
campo. L’etnografia costituisce l’attività originale e l’espressione culturale dell’antropologia,
la sua linfa vitale. Ogni antropologo stabilisce una relazione privilegiata con il proprio “campo”
come, per esempio, Malinowski con i trobriandesi, Boas con i kwakiutl, Evans-Pritchard con i
nuer e gli azande, Firth con i tikopia e Geertz soprattutto con i balinesi.
La dinamica della circolarità ermeneutica mette in rilievo il ruolo centrale e ineliminabile
assunto dall’autorità etnografica. Non indirizza solo a considerare la specifica autorità di
antropologo che il ricercatore deve costruire professionalmente sul campo per autorizzare il
proprio ruolo e i propri discorsi, il riconoscimento della competenza a fare domande e la loro
specifica qualità e pertinenza. Geertz sottolinea l’autorità che fonda la funzione di autore di
testi autorizzati dalla comunità scientifica. Pur riconoscendo le relazioni asimmetriche di potere
fra dominanti e dominati, Geertz evidenzia come, nella contemporaneità, l’autorità
dell’antropologo sia cambiata, non più legittimata dall’appartenenza a una potenza coloniale.
Possono però esservi nuove asimmetrie, derivanti da disparità economica, equilibrio
internazionale di forze militari, ecc. I cambiamenti del mondo che gli antropologi per lo più
studiano (la fine del colonialismo e la modificazione dell’imperialismo, la globalizzazione, le
migrazioni e il turismo intercontinentale) e di quello accademico (le modifiche nello statuto
scientifico del sapere e quindi delle concezioni delle culture e delle relazioni interculturali),
hanno messo in crisi gli assunti fondamentali su cui la scrittura antropologica si reggeva.
Soprattutto è venuta meno ciò che Geertz chiama la separazione “spaziale” e “morale” fra
ricercatore e interlocutori: gli antropologi non lavorano più in contesti isolati, in cui erano
padroni intellettuali di tutto ciò che vedevano attorno a loro e detenevano il monopolio della
scrittura. Come Geertz ebbe modo di sperimentare a Giava, gli stessi nativi mettono in
discussione il diritto di scrivere di etnografia. Questo costringe l’antropologo a negoziare una

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propria identità sul campo e a superare approcci paternalistici e deliri di onnipotenza che Geertz
definisce come “un appassionato desiderio di divenire personalmente prezioso per i propri
informatori”. Le finalità antropologiche sono per loro natura differenti dalle finalità native.
L’approccio negoziale non può prescindere dal fatto che è inevitabilmente condotto dal punto
di vista dell’antropologo. Partendo dall’irrisolvibile differenza fra antropologo e nativo, Geertz
invita a negoziare contingentemente sul campo la propria autorità etnografica, radicata
nell’appartenenza a una comunità linguistica e scientifica, filtro di tutta l’esperienza di ricerca.
La circolarità ermeneutica esige un controllo che ponga il soggetto in una prospettiva he vada
al di là della soggettività e dell’oggettività. L’etnografo pone se stesso come oggetto d’analisi
e l’osservazione di sé si affianca all’osservazione dell’oggetto in un’esperienza che Kilani,
citando Lévi-Strauss, avvicina all’autopsicoanalisi dello psicoanalista.
La negoziazione sul campo è influenzata non solo dall’orientamento teorico o dal ruolo
istituzionale del ricercatore, ma anche dalla storia personale, dalla sua personalità, dal suo
genere, dal suo coinvolgimento emotivo, politico e ideologico e dalle differenti circostanze he
incontra. Questi fattori, a loro volta, sono determinati dalle specificità della comunità nella sua
relazione con il contesto generale inglobante e dalle caratteristiche degli interlocutori. Geertz
ritiene altrettanto importante l’esperienza che gli informatori hanno dell’antropologo e quindi
l’osservazione dell’osservatore. La competenza dell’antropologo consiste nella capacità di
superare le difficoltà per creare un contesto che possa consentire a lui e ai suoi interlocutori di
mettere a disposizione le proprie competenze specifiche e partecipare al lavoro dialogico e
negoziale. La condizione del lavoro sul campo è fondamentalmente relazionale e solo
superficialmente osservativa, designa sia uno spazio geografico, sia il luogo in cui si sviluppa
l’attività dell’antropologo, sia l’oggetto della ricerca – la nozione di “campo” diviene il luogo
simbolico di costruzione di senso, ciò che determina le caratteristiche specifiche di
un’esperienza condivisa. Ciò che gli informatori raccontano nel dialogo etnografico è detto non
dal centro del loro mondo, ma dallo spazio liminale dell’incontro: i “fatti etnografici” non
possono che essere accordi temporanei sul significato fra l’antropologo e i suoi interlocutori in
una relazione transitoria che produce una comprensione parziale, contingente e dinamica. Sul
campo, l’antropologo e l’informatore partecipano a una working fiction in cui condividono un
mondo di significati che potrebbe crollare in ogni momento e invitare gli interlocutori a
pensarsi come abitanti di realtà separate e reciprocamente escludentisi. In tal senso la situazione
del campo perde quella sua connotazione scientistica di laboratorio di produzione della verità
e diventa inevitabilmente “ironica”, definita da Geertz come “il modo in cui la realtà si fa beffa
delle visioni meramente umane di essa e riduce fino a deriderli i grandi atteggiamenti e le
grandi speranze”. L’ironia antropologica riflette e modella la convinzione che tutte le
concettualizzazioni siano limitate, che la costruzione del fatto etnografico sia qualche cosa di
dinamico, parziale e contingenti e, quindi, che ciò che è socialmente riconosciuto come verità
sia intrinsecamente contestuale, instabile e contraddittorio.

4.2 Il problema della firma

Geertz ha inaugurato le contemporanee prospettive sulla scrittura come parte integrante del
lavoro di comprensione e messa in forma degli oggetti antropologici. Definisce l’etnografia
anche attraverso la testualizzazione di tale prassi. Nota come la stessa credibilità della
disciplina sia mediata dalla scrittura. Geertz ha posto il problema della “trascrizione
dell’azione” e della “fissazione del significato” al centro della riflessione antropologica.

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L’etnografo iscrive il discorso sociale, lo annota: nel farlo lo trasforma da avvenimento fugace,
che esiste solo nell’attimo in cui si verifica, in un resoconto che esiste nei suoi scritti e che si
può consultare. L’antropologo, attraverso la scrittura decodifica una cultura codificandola per
un’altra. Registra il “dire” e lo trasforma in “detto”, finendo con lo “scrivere” il “detto” e
adattarlo alla comunità scientifica del sapere. L’etnografia si configura come un lungo processo
di comprensione che inizia molto prima di andare sul campo e continua dopo che si è partiti.
Tale processo di comprensione può essere simbolizzato dalla differenza temporale che separa
le note e i diari dalla testualizzazione finale “lo scarto fra l’accattivarsi gli altri, là dove stanno
e vivono e il descriverli là dove non sono”. Questa differenza fra il tempo dell’esperienza e il
tempo del racconto finale è stato riassunto da Geertz attraverso lo iato tra “l’essere là” (a
ricercare e scrivere sul campo) e “l’essere qui” (a pubblicare il racconto definitivo del campo).
Il tempo di scrittura, come anche quello della ricerca, non è unico e immediato. Costituisce, al
contrario, una processualità dinamica e pervasiva che segna le modalità specifiche
dell’apprendimento della conoscenza antropologica. Il lavoro di scrittura finale del testo si
conclude sempre a diversi anni di distanza dalle ultime fasi del lavoro di campo a cui si
riferisce. Le temporalità etnografiche, molteplici e interrelate fra loro in maniera complessa,
sono articolate dalla scrittura che attraversa le ricerche in tutte le fasi, a partire dalla stesura dei
confusi appunti sul campo fino alla loro trasformazione in un testo coerente e leggibile.
Il sapere antropologico si realizza in questa distanza, trasformando l’esperienza vissuta in una
conoscenza generale e astratta, rapportabile a un pubblico lontano. L’etnografia può essere
dunque pensata come una “metanarrazione” o una “narrazione di secondo ordine” che possiede
un certo grado di indipendenza dal lavoro sul campo su cui si basa.
La riflessione geertziana considera le diverse procedure schematiche di testualizzazione come
elementi indispensabili per organizzare l’esperienza di campo dell’antropologo e per
trasformarla in un prodotto intellettuale: traducono i discorsi e gli enunciati legati alla
contingenza della situazione d’interlocuzione in testi, l’esperienza in racconto, gli esempi in
casi significanti. Inducono a superare le concezioni del lavoro etnografico nei termini di un
semplice passaggio dall’orale allo scritto e a considerare come l’etnografia sia un movimento
di continua rielaborazione dello scritto.
Da un tato i materiali e i dati su cui lavora l’antropologo sono inevitabilmente prodotti testuali.
Tali testi, necessariamente parziali, costituiscono una prima forma di comprensione e una delle
principali fonti di dati nell’analisi successiva. Sono testi liminali in continua trasformazione,
situandosi a cavallo fra il lavoro sul campo e il lavoro a tavolino. Presentano materiali già
interpretati che vengono poi letti e reinterpretati differenti volte nel processo di scrittura finale.
Tae scrittura è posta al centro dell’analisi come elemento indispensabile per organizzare
l’esperienza di campo dell’antropologo, per ordinare gli eventi e i testi e per costruirne il senso
in un resoconto finale. La sua finalità è quella di persuadere, attraverso l’autorità di chi scrive,
di essere veramente penetrati in un’altra forma di vita, di essere davvero stati là e aver riportato
a casa qualcosa di sensato. La stessa costruzione degli appunti non si fonda tanto su ciò che è
memorizzabile, quanto su ciò che l’autore può costruire in una narrazione coerente.
In tal senso l’etnografo non può rinunciare alla propria autorità, che autorizza i suoi discorsi,
selezionandoli e si manifesta inesorabilmente nella scrittura, fondando la legittimità e
l’autorevolezza della sua funzione di autore: “nella costruzione del testo: il resoconto diventerà
credibile in quanto diventi credibile la persona stessa che lo costruisce; per essere convincente
come “io testimone” sembra, è l’io stesso che deve diventare convincente”. In questo consiste
per Geertz il lascito più coerente di Malinowski: non riguarda la tecnica di osservazione sul

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campo, né la teoria sociale e neppure quell’oggetto santificato che è la realtà sociale, ma il
problema del discorso in antropologia: come autor-izzare una presentazione autorevole.
Geertz prende in considerazione l’importanza di ciò che Foucault chiama la funzione
dell’autore. Egli coniuga la distinzione foucaultiana fra autori come produttori di testi e
fondatori di discorsività (che autorizzano più di un libro e cioè una teoria, una traduzione o una
disciplina, dando la possibilità e le regole per la formazione di altri testi) con la distinzione fra
“autore” (che assorbe i perché del mondo e ne fa un come scrivere, in termini intransitivi) e
“scrittore” (che usa il linguaggio in termini transitivi come semplice strumento, senza costituire
una prassi. L’antropologo è un intellettuale di professione che deve comunicare fatti e idee
attraverso una struttura verbale seducente.
L’autorità dell’autore determina la qualità dei discorsi, selezionandone la pertinenza
antropologica, la traducibilità nel linguaggio specializzato della disciplina e nelle relative
pratiche di scrittura, definite da codici specifici, generi accademizzati, temporalmente e
politicamente definiti, sempre più lontani da storie di avventura o di viaggio, biografie
giornalismo o speculazioni culturali. Produrre un’etnografia richiede decisioni su cosa dire e
come dirlo che sono influenzate dalla comunità scientifica a cui si rivolge: a livello di scrittura
la relazione è inevitabilmente gerarchica. Lo scopo precipuo dell’etnografia è di parlare di
qualcosa per qualcuno. Per quanto cerchi di rimpiazzare il monologo con il dialogo, il discorso
rimane sempre asimmetrico. La descrizione è potere. E la descrizione degli altri non è
facilmente separabile dalla loro manipolazione. Ciò che Geertz ha chiamato il “problema della
firma”, cioè l’affermazione della presenza dell’autore all’interno del testo si coniuga con
l’invito a produrre un testo polifonico, fondato, ermeneuticamente sulle negoziazioni fra
modelli teorici e scritturali dell’antropologo e quelli dei suoi interlocutori. Questo richiede di
collocare l’autore nel suo scritto attraverso la specificazione del discorso, l’uso della prima
persona e l’inserzione di memorie personali e autoriflessive. Paradigmatica per la costruzione
dell’autorità dell’autore e per l’uso delle memorie biografiche e riflessive, è divenuta la
narrazione dell’episodio dell’irruzione della polizia, mentre Geertz e sua moglie stavano
assistendo a un combattimento dei galli, accaduto nel 1958. Illustra le difficoltà iniziali per
accreditare il proprio ruolo e superare la diffidenza e i sospetti che i nativi avevano dimostrato
nei loro confronti: “eravamo professori americani; il governo ci aveva autorizzati; eravamo lì
per studiare la cultura; avevamo intenzione di scrivere un libro per raccontare di Bali agli
americani”. Da quel momento avevamo instaurato il tipo di relazioni che avrebbero permesso
loro di svolgere il lavoro etnografico, la cui restituzione testuale si apre proprio con il racconto
dell’episodio. Ogni antropologo può raccontare storie analoghe e sottolineare l’importanza
della costruzione della propria autorità sul campo, la sua natura mutevole e l’impossibilità di
non averne una.

4.3 L’antropologo come autore

Il cosiddetto “presente etnografico”, ufficialmente inaugurato da Malinowski nell’opera del


1922, utilizzato per la scrittura e la descrizione etnografica, domina formalmente la
sospensione della coscienza storica al fine di ricostruire l’immagine statica di una società
tradizionale o primitiva. Geertz si oppone a questo e anche alle sperimentazioni di scrittura
etnografiche contemporanee, fondate sulla dispersione dell’autore. Dal punto di vista
ermeneutico questi esperimenti non riescono a rendere pienamente il senso della circolarità e
della dialogicità del lavoro etnografico; tendono a riprodurre forme di realismo e oggettivismo

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etnografico da cui non riescono a emanciparsi. Geertz rifiuta quello che chiama “il positivismo
del testo” che cela l’autore dietro a una narrazione compiacente di essere la neutrale e
immediata rappresentazione di stati di cose nel mondo in cui la funzione dell’etnografo si
risolve in quella di un onesto mediatore. Eliminando l’antropologo dal discorso, o limitandone
il ruolo a quello dell’intervistatore, negano la dinamicità dell’incontro, finendo per produrre
un’immagine statica del proprio oggetto di indagine. Pur affermando che tutte le etnografie
sono fabbricate, per così dire, a casa propria, poiché sono descrizione di chi scrive e non i chi
è descritto, Geertz rifiuta ciò che definisce come una sorta di ventriloquo etnografico che
assume l’esperienza dell’etnografo piuttosto che il suo oggetto, come principale argomento di
attenzione analitica.
Nella sua complessità, il modello della circolarità ermeneutica geertziano invita a mostrare le
negoziazioni fra modelli concettuali dell’antropologo e del nativo. Considerando il lavoro sul
campo come il fondamento e il segno distintivo della disciplina, invita a non rimuovere
dall’analisi questa attività, così come la sua relazione con il processo di scrittura. In base ai
principi del circolo ermeneutico, la restituzione testuale di un’esperienza sul campo non può
trascurare di riprodurre la processualità dell’apprendimento della conoscenza antropologica
secondo un’ottica riflessiva e negoziale. Nonostante queste premesse teoriche abbiano segnato
la svolta interpretativa operata da Geertz nelle condizioni della rappresentazione culturale e
abbiano influenzato in modo rilevante il dibattito contemporaneo delle scienze sociali, anche
la scrittura etnografica geertziana permane all’interno del dualismo fra soggetto e oggetto non
riuscendo a far emergere l’interrelazione sul campo fra l’antropologo e i suoi interlocutori e a
indicare il processo attraverso il quale i significati sono prodotti. Costruendo testi che sono
costruzioni delle costruzioni di altre persone, le sue interpretazioni sono applicate a materiali
passivi, finendo per generare ciò che Deweyer definisce come modello contemplativo fondato
su relazioni univoche fra un osservatore, detentore del metodo e oggetti indipendenti. Si è
rilevato come l’etnografia di Geertz faccia emergere i significati ma non i soggetti.

CAPITOLO 5
Il ruolo dell’antropologo

5.1 Il concetto semiotico di cultura

L’antropologia geertziana concepisce la cultura come una finzione simbolica mediante la quale
si possono attribuire al gruppo una definizione del sé collettivo, colta nella sua costante
reinvenzione a seconda delle circostanze e degli obiettivi. Geertz elabora un approccio che
intende superare le teorie derivate dalla concezione tyloriana. Fino a Talcott Parsons, il
concetto dominante di cultura nella scienza sociale americana identificava la cultura con il
comportamento appreso. Questo concetto non si può dire sbagliato.
La concezione geertziana della cultura come “traffico di simboli significanti” è meno vasta e
pervasiva di quella di Parsons e più concretamente legata alle cose del mondo. Nel saggio del
1973 – Verso una teoria interpretativa della cultura – presenta la propria definizione semiotica:
“il concetto di cultura che esporrò è essenzialmente un concetto semiotico. Ritenendo, insieme
con Max Weber, che l’uomo è un animale sospeso fra ragnatele di significati che egli stesso ha
tessuto, credo che la cultura consista in queste ragnatele”.
La cultura risulta comprendere non tanto complessi modelli concreti di comportamento –
costumi, usi, tradizioni, abitudini – quanto piuttosto una serie di significazioni che operano

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come meccanismi di controllo – progetti, prescrizioni, regole, programmi, codici genetici – per
dirigere il comportamento. Lo studio della cultura è lo studio della totalità di questi significati
– “agglomerati ordinati di simboli significanti” – che sono la dotazione simbolica che l’uomo
ha a disposizione per orientarsi nel mondo. Comparando il lavoro dell’antropologo a quello del
critico letterario, Geert elabora l’analogia testuale: la cultura è vista come “un insieme di testi,
anch’essi degli insiemi, che l’antropologo si sforza di leggere sopra le spalle di quelli a cui
appartengono di diritto”. Una volta divise la struttura sociale e la cultura, l’antropologia si è
sempre sforzata di rimetterle insieme, cercando di risolvere i conseguenti problemi di priorità
causale. Geertz critica la posizione dicotomica, egemone nell’antropologia nord-americana,
dominata dall’approccio struttural-funzionalista. “La cultura viene considerata come se
derivasse interamente dalle forme di organizzazione sociale (approccio caratteristico degli
strutturalisti inglesi e di molti sociologi americani) o le forme dell’organizzazione sociale sono
considerate come incarnazioni comportamentali di modelli culturali (approccio di Malinowski
e di molti antropologi americani). Una revisione dei concetti della teoria funzionalista così da
metterli in grado di trattare più efficacemente i materiali storici potrebbe ben cominciare con
un tentativo di distinguere analiticamente tra gli aspetti culturali e gli aspetti sociali della vita
umana e di trattarli come fattori indipendentemente variabili e tuttavia come reciprocamente
interdipendenti.
“La cultura non è un potere, qualcosa a cui si possano causalmente attribuire avvenimenti
sociali, comportamenti, istituzioni o processi; essa è un contesto, qualcosa entro cui tutti questi
fatti possono essere descritti in maniera intellegibile”.
Geertz considera cultura e struttura sociale come modelli concettuali che comprendono aspetti
differenti della realtà. La prima mostra il sistema di significati e di simboli nei cui termini ha
luogo l’interazione sociale. La struttura mette invece in luce il processo incessante dei
comportamenti interattivi, il modello dell’interazione sociale stessa. Una considera l’azione
sociale rispetto al suo significato per quelli che la compiono, l’altra la considera nei termini del
suo contributo al funzionamento di un qualche sistema sociale.
La metafora testuale invita a considerare la cultura come un insieme di significati e quindi a
collocarsi in una prospettiva ermeneutica, interessata non solo a come vengano costruite le
interpretazioni dei propri interlocutori, ma anche quelle dell’antropologo.
“La cultura, questa sorta di documento agito, è quindi pubblica. Una volta che il
comportamento umano è visto come azione simbolica, la questione se la cultura sia
comportamento strutturato o forma mentale, o anche le due cose in qualche modo mescolate,
non ha più senso”.
Il concetto di cultura costituisce il ramo wittgensteiniano sul quale siamo seduti e che non
possiamo recidere.

5.2 Politiche culturali

Prendere in considerazione la cultura come modello teorico che permette di comprendere la


realtà, significa pensarla come una categoria della pratica. Il lavoro dell’antropologo viene così
identificato nella decostruzione delle costruzioni degli attori sociali nelle loro molteplici
determinazioni ed effetti pervasivi e nell’esame degli spazi di scambio negoziali, quindi
politici, nei quali la cultura viene definita e utilizzata.

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Le dinamiche attivate assumono una consistenza molto concreta per coloro che vi si
identificano, costituendo un modello dietro a cui vi è una realtà che realizza il sentimento di
una comune appartenenza a una tradizione, funzionale alla progettazione di azioni comuni.
Le politiche di costruzione delle nazioni si sono fondate su processi omogeneizzanti e
omologanti. Geertz ha l’immagine di un mondo che assomiglia a una calca di differenze in
costante movimento, piuttosto che un mondo di stati nazionali tutti d’un pezzo che, dall’alto di
una mongolfiera, possono essere comodamente riconosciuti e ordinati in blocchi e
superblocchi.
Geertz menziona il ruolo sostenuto dall’antropologia nella costruzione di entità incontaminate.
Il caso forse più eclatante del coinvolgimento della disciplina nelle dinamiche essenzializzanti
è rappresentato dal ruolo giocato da antropologi e studiosi nel fornire le basi ideologiche del
regime dell’apartheid e per la divisione del paese in comunità etniche, concepite come ontical
human unit. Utilizzando gli strumenti dell’antropologia, così come furono elaborati in epoca
coloniale, gli ideologi del National Party scorsero nel sistema di segregazione razziale il
rispetto delle singole tradizioni culturali locali, conservate nella loro autenticità e purezza e al
riparo da possibilità di contaminazione. Lo stesso Ministro della Cooperazione e Sviluppo che
diresse le politiche dell’apartheid a partire dal 1978, aveva ricevuto il Dottorato in antropologia
presso l’Università di Oxford. Rifiutandosi di considerare la realtà come formata da “unità
incorniciate, spazi sociali con bordi definiti”, Geertz promuove una concezione complessa delle
culture e dei rapporti interculturali in cui gli approcci diversi alla vita emergono come mescolati
insieme all’interno di spazi maldefiniti, spazi sociali i cui bordi non sono fissi, ma irregolari e
difficili da localizzare.
Geertz si contrappone all’idea di un mondo come un mosaico formato da monoculture
omogenee e dai confini ben definiti. All’interno dei singoli stati, questa ideologia ha promosso
politiche multiculturali fondate sull’esclusione delle minoranze in funzione della difesa
dell’identità nazionale. Aumentando la frammentazione, il multiculturalismo si è rivelato come
il lato oscuro della monocultura. L’omogeneizzazione nazionale è ottenuta attraverso
l’annullamento integrativo o escludente della differenza.
“Che cos’è un paese? E’ una quantità di popoli aventi entità, importanza e carattere diversi, che
vengono riuniti in una comune struttura economica e politica attraverso una cornice narrativa
sovrastante di tipo storico, ideologico, religioso o quant’altro. Così si dissolvono o bloccano
tutti i livelli di differenziazione, tutte le dimensioni di integrazione che si trovano tra la più
piccola comunità universalmente accettata (una data cultura o gruppo etnico) e quella più
grande (nazione o stato). La tendenza è di considerare autoescludentesi le identità multiple se
ne può avere solo una, altrimenti non si è visibili all’interno delle nicchie create dalle politiche
pubbliche. Questo uso del concetto di cultura, enfatizzando i confini e la mutua distinzione e
selezionando ciò che divide invece dell’intrinseca compenetrazione fra culture, risponde ai
precisi intendimenti politici dei differenti stati nazionali. Da queste prospettive il
multiculturalismo può essere considerato come il modo in cui lo stato nazionale descrive e
pensa se stesso. Espelle la dimensione del cambiamento e dell’articolazione interna, se non
come effetto di interventi e enti patogeni esterni come l’immigrazione, ma curiosamente non
la globalizzazione considerata come fenomeno interno. Riferisce la differenza esclusivamente
a una inverosimile cultura extra-comunitaria omologata come unica diversità all’interno della
società nazionale e usata come capro espiatorio di tutti i problemi. Spesso promuove – spesso
nella contrapposizione assimilatrice cultura egemonica/cultura subalterna – un superamento
della concezione del diritto basata sull’idea che le politiche per tali gruppi siano specifiche,

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alternative e separate dai problemi di cittadinanza. A differenza della legge classica che ragiona
in termini di individui e di società, cittadini e stato, le istituzioni, definite da diversi autori con
il termine foucaultiano biopotere, operano in termini di corpi indistinti e de-localizzati, da
nutrire, sfamare, vestire, curare secondo le strategie e le categorie diagnostiche esportabili in
tutti i contesti. In nome della sicurezza, dell’accoglienza, del soccorso o dei diritti umani
proclamati come universali, i cittadini sono sostituiti da semplici corpi.

5.3 La sovversione antropologica

La prospettiva geertziana invita a riformulare le dicotomie del discorso modernista (modernità-


tradizione, centro-periferia, globalità-localismo, ecc.) in una molteplicità di articolazioni
complesse, patchwork onnipresenti, come un grande assemblaggio di diversità giustapposte.
Oggi si tende a usare il termine villaggio globale per definire questo fenomeno di
interconnessioni su vasta scala e di complesse dipendenze. Articolazioni e traffici di culture
impongono di ripensare le culture tradizionali nel contesto del loro coinvolgimento
trasformativo con la modernità, non in termini omologanti, ma come società vernacolari nate
dall’interrelazione fra antico e nuovo.
Il Terzo Mondo sottosviluppato e arretrato ha messo in discussione in modo da esporre a un
crescente bisogno di giustificazione la concezione europea. Ha mostrato come lo stato
nazionale sia una struttura culturale immensamente eterogenea, spesso quasi accozzaglie
arbitrarie di popoli, delimitati da confini tracciati in passato dai giochi della politica europea.
Geertz da un lato rifiuta di considerare il globale o l’ibrido come l’unione o la mescolanza di
segmenti separati e distinti, dall’altro invita a comprendere il locale come qualcosa che si crea
continuamente nella quotidianità dell’esperienza e del rapporto con i più vasti contesti
inglobanti. La dinamica del circolo ermeneutico esclude la dicotomizzazione fra locale e
globale, così come la loro identificazione come due facce discrete e contrapposte dello stesso
fenomeno. Scarta l’ideologia della purezza e dell’autenticità che cerca di imporsi con
preoccupante forza a favore della considerazione dei modi in cui locale e globale rappresentino
una fusione di orizzonti e una forma di coappartenenza. Se ammettessimo che la diversità si
sta attenuando, secondo Geertz, gli antropologi dovrebbero imparare a cimentarsi con
differenze più sottili e a produrre scritti meno spettacolari ma più acuti. Il fine del contributo
dell’antropologo si realizza nel riconoscimento della natura composita della realtà sociale e
culturale e nella considerazione della complessità delle diverse componenti della società. Non
si tratta di un semplice invito a favore del cosmopolitanismo, o di una celebrazione delle
differenze, ma di una presa di coscienza della natura interculturale di ogni cultura e di ogni
società.
“Per vivere in un collage bisogna in primo luogo imparare a selezionare i suoi elementi, a
determinare che cosa sono (ciò che di solito comporta determinare da dove provengono e quali
sono le loro caratteristiche) e come, nella pratica, essi si relazionano l’un l’altro, senza nel
contempo oscurare il senso della propria collocazione e della propria identità all’interno di
esso”.
Da una prospettiva geertziana l’antropologia assume la funzione di allargare la coscienza di un
certo gruppo di persone nei riguardi delle forme di vita d’altri gruppi. Geertz rileva come siano
stati gli antropologi fra i primi a insistere che il mondo non si divide fra “pio e superstizioso”,
che l’ordine politico è possibile senza un potere centralizzato, che vi sono dipinti nel deserto e
sculture nella giungla, che i principi della giustizia possono essere strutturati senza essere

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codificati, che le norme della razionalità non furono stabilite in Grecia, l’evoluzione della
moralità non si fermò in Inghilterra. Sostiene la necessità di convincere la nostra società a
considerarsi responsabile solamente nei confronti delle sue tradizioni e non anche della legge
morale.

CAPITOLO 6
Relativismo e antirelativismo

6.1 Anti-antirelativismo

Geertz considera le proprie posizioni teoriche come tentativi di andare al di là di due approcci:
l’oggettivismo e il relativismo. Il relativismo rappresenta una reazione alla ricerca oggettiva di
universali cross-culturali. L’antirelativismo è il rifiuto del “lassismo morale”, del tout
comprendre c’èst tout pardoner e di un relativismo che attribuisce troppa importanza alla
differenza, la diversità, la stranezza, la discontinuità, l’incommensurabilità, l’unicità e così via.
Geertz giudica molto meno sicuro un mondo pieno di gente che felicemente celebra i propri
eroi e demonizza i propri nemici piuttosto che un mondo pieno di genti così appassionatamente
innamorate delle culture di ogni altro da aspirare solo a celebrarsi a vicenda. La verità e
necessità dell’anti-relativismo sono garantite dall’accusa ai suoi oppositori di impedire la
possibilità della scienza, della morale e della politica.
La posizione di Geertz a proposito del relativismo è piuttosto articolata. Da un lato si dichiara
in antitesi con ciò che definisce come relativismo ateorico, fondato sull’impossibilità di
elaborare teorie generali, di apprendere l’immaginazione di un altro popolo o di un altro
periodo storico e assumere posizioni morali e politiche. D’altro canto, se per relativismo si
concepisce l’attrazione per il particolare, l’immagine prospettica della conoscenza e la
negazione di metodi e standard universali, allora l’antropologia di Geertz può essere compresa
come una forma sofisticata del relativismo boasiano. Lui stesso si colloca in modo complesso,
all’interno del relativismo insieme a Erodoto e Montaigne e in compagnia di Thomas Khun,
Michel Foucault, Nelson Goodman. In più occasioni considera il relativismo come una sorta di
“nevrosi accademica” originatasi da un impulso connaturato alla disciplina e alla natura dei
suoi oggetti, più che dalle opzioni teoriche di Boas o Herskovits.
La concezione moderna della scienza ha guidato l’antropologia verso un approccio nomotetico
e classificatorio. L’impianto ipotetico-deduttivo fornisce un modello di spiegazione che,
facendo appello a un’essenza sovrastorica nei cui confini far rientrare i fenomeni umani,
sussume la particolarità e annulla la diversità: “come nel caso della “Natura umana”, la
decostruzione dell’alterità è il prezzo da pagare”.
Lo stesso metodo comparativo sia che usi il vocabolario dell’evoluzionismo, dell’ecologia
culturale, del materialismo o dello strutturalismo, ha rappresentato uno sforzo scientifico di
spiegare le differenze cruciali fra gruppi umani in termini di un linguaggio oggettivo che le
potesse trascendere e interpretare come varianti di uno schema universale. La storia del
pensiero antropologico mostra come la ricerca di “universali empirici” o di “punti invariabili
di referenza” sia andata non solo a discapito della specificità dei fenomeni, omologati
all’interno di grandi classi, ma sia stata anche fonte di confusioni e contraddizioni.
Geertz non nega la possibilità di elaborare caratteristiche universali. Non viene posta in
discussione la possibilità di effettuare comparazioni, quanto la loro qualità. Ciò che è
importante non è tanto comparare istituzioni o comportamenti altrui con i nostri, come se fosse

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un fatto naturale, quanto il trovare analogie e metafore che permettano di elaborare analogie e
comparazioni. Non comparazioni fra standard, ma metafore inaspettate: lo stato come teatro o
il combattimento dei galli come un testo. Ciò che è importante è utilizzare la diversità, il
paragonare cose non paragonabili.

6.2 Conoscenza locale

Geertz ritiene che l’essenza di ciò che significa essere umani si riveli più chiaramente in quei
tratti della cultura che sono specifici piuttosto che in quelli universali. Così Geertz invita a
considerare l’importanza di imparare cose singolari. Secondo Geertz possiamo cogliere la
specificità dei fenomeni non nella comparazione delle somiglianze quanto piuttosto nel
confronto delle differenze e delle particolarità, cercando i rapporti sistematici tra i fenomeni
diversi, piuttosto che le identità sostanziali tra quelli simili. “Se vogliamo scoprire in che cosa
consiste l’uomo, possiamo trovarlo solo in ciò che sono gli uomini: e questi sono soprattutto
differenti”. Il pensiero ermeneutico viene definito come “modo di dare un senso particolare a
cose particolari in luoghi particolari” e la scienza è identificata “dalla sua capacità di trovare le
peculiarità e trarre da esse proposizioni generali”. La pratica dell’etnografia diventa il luogo di
vitalità dell’analisi geertziana. Nel concreto, nel particolare, nel microscopico trova quelle
verità generali che possono sfuggire nel grande. Il risultato è una antropologia interpretativa
nook-and-cranny (angolo e nicchia), fondata su casi particolari.
In antropologia il problema del rapporto fra teoria generale e casi particolari è stato affrontato
da due punti di vista che Geertz respinge: il modello microcosmico del tipo “il cielo in un
granello di sappia”; oppure il modello dell’esperimento naturale, per cui una remota località
diventa un “caso probante”. Nelle cittadine e nei paesetti si trova la vita della cittadina e del
paesetto: il luogo dello studio non è l’oggetto dello studio. Gli antropologi non studiano i
villaggi, studiano nei villaggi.
L’approccio è wittgensteiniano: partendo dal concetto di somiglianze e differenze di famiglia,
Wittgenstein osserva e descrive diversi giochi, elaborando un concetto generale di gioco
fondato su complicate reti sovrapposte di corrispondenze e difformità. L’approccio si fonda
sulla dinamica del circolo ermeneutico: le teorie sono guide per trovare i fatti che a loro volta
modificano la teoria in un processo generalizzante che è costantemente dinamico e aperto. Si
raggiunge la descrizione densa quando si riesce a coordinare le parti con il tutto. Geertz sostiene
che è necessario scegliere ciò che in una cultura colpisce l’attenzione e dopo colmarla
“densamente”, con dettagli ed elaborazioni teoriche per giungere a comprendere la natura della
società. Geertz, come Weber, rifiuta la ricerca di leggi e di regolarità positive e propone che
l’antropologia culturale si interessi a delucidare i principi generali attraverso un fitto
addensamento di fatti particolari e minuziose descrizioni che incorporino l’universale
attraverso il particolare. Weber utilizza il tipo ideale per cogliere il tipo reale, il generale per
comprendere il particolare, senza appiattire uno sull’altro. Geertz riconosce che il numero dei
modelli generalmente accettati da una data società, sebbene molto vasto, è tuttavia limitato dal
fatto che certi tipi ricorrono da una società all’altra. Questi modelli, che chiama “necessità
orientative diffuse”, sono usati per la comparazione circostanziata dei fenomeni.

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6.3 Il conflitto delle interpretazioni

La dinamica del circolo ermeneutico esclude la possibilità di verifiche conclusive, sostituendo


alla verità come rapporto rappresentativo e nomologico con il dato, la verità dell’essere storico
e linguistico. La teoria è un’ipotesi che organizza i fatti in una veduta. Una teoria non può
falsificarne un’altra perché si tratta di due organizzazioni eterogenee e incommensurabili dei
dati d’osservazione. Ciò che è importante nella riflessione geertziana non è tanto il grado di
prossimità al valore di verità, quanto il potere ontologico della configurazione di mostrare,
dando una forma, un mondo possibile di fenomeni.
L’etnografia rappresenta un accordo temporaneo sul significato fra l’antropologo e i suoi
interlocutori in una relazione contingente e transitoria che inevitabilmente produce una
comprensione parziale ed essenzialmente contestabile. Si configura come il prodotto di una
negoziazione con le prospettive che l’analista ha attribuito ai propri interlocutori. Viene
elaborata all’interno di spazi negoziali in continua effervescenza. Lo scopo dell’antropologia,
dice Geertz, è “l’ampliamento del discorso umano” piuttosto che la sua chiusura attraverso
qualche concetto di verità oggettiva. Una delle caratteristiche dell’analisi culturale è
l’incompiutezza e la controvertibilità. La critica alle leggi universali non comporta
necessariamente la rinunzia all’impresa scientifica. L’accettazione di criteri differenti da quelli
fissati dalla concezione moderna della scienza non implica un rilassamento nel rigore, ma un
riconoscimento che vi possano essere modalità differenti e plurali per l’evoluzione scientifica.
La scienza di Geertz si muove all’interno di una circolarità ermeneutica. Una data lettura dei
significati intersoggettivi di una società, istituzioni o pratiche, è valida perché riesce a dare
senso al suo oggetto.
Se un resoconto è relativo al modo di leggere la situazione o l’azione da parte dell’interprete,
questa lettura può essere spiegata o giustificata riferendola ad altre letture e alla loro capacità
di dare senso al tutto. Il criterio di valutazione si riferisce alla coerenza e all’accordo fra il senso
che l’autore riesce a instaurare fra le parti del testo. L’adeguatezza delle interpretazioni è
valutata in base al testo stesso, attraverso “l’accordarsi dei particolari con il tutto”. Qualora la
spiegazione risulti implausibile, non sia compresa, o non si sia persuasi, non esiste una
procedura di verifica su cui si possa ricadere. Si possono solamente continuare a offrire
interpretazioni in un circolo interpretativo, richiedendo, eventualmente, all’interlocutore di
elaborare maggiormente le intuizioni o di cambiare i propri orientamenti. Imprigionata
nell’immediatezza del proprio dettaglio, l’etnografia, dice Geertz, non offre prove.
Il punto di vista geertziano invita a prendere in considerazione come la capacità persuasiva
coincida con la “funzione dell’autore”, con l’autorevolezza con cui l’antropologo riesce ad
autorizzare ciò che viene enunciato: nella nostra ingenua disciplina, forse some al solito in
ritaro dal punto di vista epistemologico, importa molto chi parla; la scrittura, dando forma agli
eventi, configurala relazione fra autore e fruitori del testo.
Geertz risolve il tema del “problema della firma”: considera l’affermazione della presenza
dell’autore nel testo nei termini della costruzione di un’autorità funzionale a legittimare i
discorsi. Spesso l’autore esercita una tale forza sui testi a rendere estremamente difficile
confutare quanto detto, imprigionando il lettore in efficaci modelli concettuali. L’idea che “la
descrizione culturale è conoscenza modellata”, dice Geertz, “costringe ad assumervi
personalmente le responsabilità di ciò che dite o scrivete, perché dopotutto siete voi che lo
avete detto o scritto, ossia non vi consente di addossare tale responsabilità alla realtà, la natura,
il mondo o a qualche altra vaga e capace riserva di verità incontaminate”.

24
Postfazione di Ugo Fabietti

L’antropologia era, per Geertz, un “ampliamento del discorso umano”, un tentativo mai
concluso di cogliere il modo in cui, sul campo, si stabiliscono relazioni comunicative capaci di
far emergere oggetti nuovi di riflessione per l’antropologia, una scienza come lui amava dire,
“in divenire”.
Il modello di analisi di Geertz fa emergere i significati, ma non i soggetti. L’immedesimazione
non comporta mediazione, invece la riflessività, intesa nel senso di una interpretazione che si
fonda su una “unità ermeneuticamente prodotta tra l’etnografo, in quanto soggetto della
conoscenza e la gente studiata in quanto oggetto di conoscenza”, può raggiungere lo scopo.
Riflessività significa, in questo caso, sentire come l’altro. In questo senso, esperienza e
interpretazione non sono separabili, perché se è vero che nel testo etnografico e nel lavoro
teorico i due aspetti della ricerca sono distinguibili nella situazione etnografica (il campo) essi
appartengono allo stesso processo di conoscenza.
Il Quilombo di Frechal è, in un certo senso, un’ideale dello studio su Geertz e al tempo stesso
critica, applicazione etnografica.

25
IL METODO E L’ANTROPOLOGIA
Il contributo di una scienza inquieta

Roberto Malighetti
Angela Molinari

1. I QUESTIONARI
IL METODO NELLA SCIENZA MODERNA
Dalla metà dell’800, buona parte del pensiero europeo si è sforzata di applicare il metodo delle
scienze della natura allo studio della realtà umana. Il criterio di demarcazione tra saperi che
possono essere chiamati scientifici sta nell’adozione del metodo sperimentale delineato a
partire dalla rivoluzione scientifica del 1600. Galileo Galilei impone allo scienziato di
concentrarsi sugli aspetti quantificabili dei fenomeni, i soli misurabili con gli strumenti adatti.
La funzione di controllo e classificazione dei dati rilevati era stata anticipata dal metodo
induttivo e dalle tavole di Bacone. Questi strumenti avranno una grande influenza in
antropologia, sia con Tylor e le sue “correlazioni statistiche” e “variazioni concomitanti”, che
con Malinowski e “la documentazione statistica mediante la prova concreta”.
Newton inoltre accenna, in modo polemico, alla supposta inferiorità della cultura umanistica e
questo fatto è un’ipoteca da cui le scienze sociali faticano ancora oggi a smarcarsi.
Il dualismo cartesiano rompe la millenaria solidarietà tra uomo e natura, certificando il
contemporaneo atto di nascita del soggetto moderno e del moderno concetto di natura, entrambi
incommensurabili al passato. Da un lato, la teoria fissa le condizioni secondo cui un fenomeno
può essere seguito (dedotto) nella necessità del suo svolgimento e quindi controllato
anticipatamente con il calcolo. Dall’altro, per valere come fenomeno naturale, l’oggetto deve
poter rientrare negli standard quantitativi anticipatamente prefissati.
Nel ‘600 il dominio indiscusso dei modelli descrittivo-esplicativi della matematica e della
fisica incoraggia la “meccanizzazione del mondo”, che trova in Cartesio uno dei suoi assertori
più convinti. L’abolizione dell’anima – che già Cartesio concepisce come mente – fa del corpo
vivente la sola entità necessaria per spiegare le particolarità dell’essere umano. Spiegare
significa comprendere le condizioni del prodursi dei fenomeni.
UNA SCIENZA NATURALE DELLA SOCIETA’
Con il positivismo, c’è una totale fiducia nell’inevitabilità del progresso. Auguste Comte fu un
convinto assertore dell’idea di progresso, un teorico del positivismo e anche il fondatore della
sociologia. Compte interpreta la storia come storia della scienza. Identifica nelle conquiste del
sapere del suo tempo il vertice dell’evoluzione dell’umanità. La scienza non è un prodotto della
storia ma il principio del suo svolgimento, il motore del cambiamento, il senso stesso del
divenire. Secondo Karl Lowith, la filosofia positiva di Comte rappresenta la riedizione
moderna della “storia della salvezza”. Lo sviluppo storico dell’umanità ha il suo punto di
partenza unitario e determinato nella “razza bianca” dell’Occidente cristiano. “Positivo” deriva
dal latino ponere, cioè quello che è certo, concreto, reale. Lo studio oggettivo del soggetto
individuale è impossibile, meglio escludere la psicologia dalle scienze che violare la
separazione tra osservatore e osservato. Se non esistono “fatti psichici” esistono invece i “fatti

1
sociali”, oggetto della nuova scienza empirica di cui Comte si ritiene il fondatore. Per
sottolineare la continuità metodologica della nuova disciplina con le scienze della natura,
Comte la chiama “fisica sociale”. Gli esseri umani sono sistemi biologici come gli altri. La loro
complessità giustifica l’esistenza di una disciplina autonoma in grado di comprenderli. A
differenza delle scienze inorganiche, biologia e sociologia muovono dal complesso al semplice,
dal tutto alla parte, dalla società all’individuo. Comte applica alla sociologia la distinzione
fondamentale fra statica e dinamica. La statica sociale studia le leggi dell’organizzazione
sociale, le sue strutture invarianti. L’ottimismo progressista di Comte si aggiunge all’altra
nozione base della seconda metà dell’800: l’idea di evoluzione. L’antropologia per lui sarebbe
stata una costola della dinamica sociale. Quando si affermerà come disciplina autonoma
concorrerà al medesimo fine di indicare la “legge fondamentale di sviluppo della società
umana”. L’omogeneità fra soggetto e oggetto, entrambi appartenenti alla realtà umana, non
intacca la modalità oggettivante dell’approccio, la separazione tra osservatore e osservato, la
neutralità dell’operazione osservativa. I fatti culturali sono dati empirici trovati nel mondo,
accessibili all’osservazione diretta e passibili di formalizzazione. Nello schema di Comte,
l’osservazione e l’esperimento sono più consoni alle “scienze dei corpi bruti” (astronomia,
fisica e chimica), mentre la sociologia privilegia i metodi delle “scienze dei corpi organizzati”
(le varie branche della fisiologia), cioè la comparazione e la storicizzazione.
Charles Darwin dichiarò di aver condotto le proprie ricerche seguendo scrupolosamente i
dettami di Bacone. La prospettiva evoluzionista degli esordi ha dato maggiore enfasi al
momento sistematico e generalizzante, senza riguardo alle modalità con cui i dati venivano
raccolti. Al contrario, l’etnografia moderna di impronta malinowskiana ha affrontato le
questioni metodologiche connesse alle fasi iniziali della ricerca. La problematizzazione “dal
basso” trasformò radicalmente le ambizioni nomotetiche dell’evoluzionismo.
IL MODELLO EVOLUZIONISTA
La nuova scienza delle società primitive viene elaborata nel clima positivistico
dell’evoluzionismo. La teoria dell’evoluzione fornisce un potente schema sintetico per
organizzare i dati raccolti, metafora biologica e organica sugli stadi di sviluppo delle società,
dalle strutture semplici a quelle complesse. Le argomentazioni darwiniane ebbero un’enorme
ripercussione sulle scienze sociali in formazione, in particolare sull’antropologia. Nell’essere
traslati alla realtà umana, questi principi persero l’originaria connotazione naturalistica per
acquisire valenze ideologiche e politiche estranee al pensiero del loro creatore. Quella di
Darwin è una teoria biologica, espressione di un approccio naturalistico, in cui il termine
“evoluzione” ha un connotato neutro, significando unicamente “trasformazione”.
L’evoluzionismo di Herbert Spencer, al contrario, fornì un’interpretazione estensiva del
darwinismo in chiave cosmica, una dottrina filosofica sistematica scaturita dalla
sovrapposizione tra il concetto biologico di evoluzione e quello sociologico di progresso. Egli
applica in forma induttiva il darwinismo alla classificazione di tutti i sistemi politici noti, che
vengono così ordinati gerarchicamente in cinque stadi evolutivi. Il gradino più basso è
rappresentato dalle società semplici senza nessun capo, il secondo stadio è costituito dalle
società dirette con un capo permanente; il terzo da quelle composte da una gerarchia; a seguire
gli stati politici e infine le società moderne.
La nozione di evoluzione ha una matrice naturalista anche in Comte, essendo la sociologia il
necessario sviluppo della biologia. L’influenza dell’illuminismo lo porta, però, a isolare più
selettivamente il motore del cambiamento storico nell’elemento intellettuale, che a sua volta

2
causa un mutamento di natura sociale. L’umanità è invariabilmente destinata ad attraversare
tre peculiari forme di intelligenza: lo stadio teologico, considerato l’infanzia del genere umano
e contraddistinto dalla credenza in esseri sovrannaturali; lo stadio metafisico, corrispondente
all’adolescenza del pensiero, caratterizzato dalla spiegazione dei fenomeni con l’ausilio di
astratti concetti filosofici; infine lo stadio positivo, epoca della piena maturità intellettuale,
contrassegnato dal trionfo delle scienze. La progressione sul piano sociale è costruita da Comte
ricalcando la storia dell’Occidente europeo: a uno stadio militare (forme di belligeranza
medioevali), segue lo stadio legale (modello stati assoluti dell’ancien régime francese), sino ad
arrivare allo stadio industriale (massima espressione del progresso umano).
La dimensione autocelebrativa del positivismo sociale ed evoluzionistico venne subito
strumentalizzata dalla borghesia che legittimarono “scientificamente” il liberismo economico
attraverso il cosiddetto darwinismo sociale, ponendo le basi per una differenza in termini di
inferiorità e di superiorità. Venne legittimato il dominio del Regno Unito e giustificato il
progetto colonialista con l’idea di facilitare il progresso delle società rimaste indietro.
L’antropologia si inserisce in questo quadro epistemologico, complementare a quello della
sociologia. Mentre l’antropologia si concentra sull’analisi delle società primitive, la sociologia
si focalizza su quelle industriali dell’occidente. La presunzione di aver raggiunto lo stadio
finale del progresso umano fa sì che i selvaggi studiati dagli antropologi siano considerati i
rappresentanti contemporanei della preistoria dell’umanità. Il documento etnografico è
equiparato al reperto archeologico. La prospettiva evoluzionistica ha debellato le concezioni
teologiche del creazionismo e del degenerazionismo. L’interpretazione laica della storia
universale come passaggio da un originario stato selvaggio alla barbarie e da questa alla civiltà
era sostenuta dalla fiducia nella razionalità scientifica e impugnata contro l’oscurantismo della
Chiesa cattolica e dell’ancien régime. L’universale dotazione del lume della ragione si traduce
nella formula più rigorosa dell’unità psichica del genere umano, che differenzia nel grado, ma
non nel possesso, le facoltà intellettuali della specie. Entro tale contesto il termine evoluzione
comincia a significare anche pluralità culturale. Se tutti i popoli possono essere riconosciuti
come produttori di cultura, la grande varietà esistente tra i gruppi sociali dipende dal livello di
sviluppo psichico raggiunto.
GLI INFORMATORI A DISTANZA
La separazione fra teoria e dati da una parte e fatti e valori dall’altra, assume che l’osservatore
rispecchi in maniera fedele e diretta la realtà, con inconfutabile oggettività dei dati. Questa
impostazione ha prodotto una contrapposizione tra il momento descrittivo della ricerca,
l’etnografia, e il sapere teorico di ordine superiore, epistemologicamente denso e complesso
prodotto dall’antropologia. La ricerca antropologica è concepita come un movimento dal
particolare al generale, fondato su due momenti indipendenti e gerarchicamente ordinati:
l’etnografia come fase di raccolta e di analisi dei materiali, successivamente il momento
scientifico comparativo, nomotetico e generalizzante. La separazione fra etnografia e
antropologia si esprime nella forma più netta alla fine del XIX secolo mediante una precisa
differenziazione di ruoli e di compiti fra raccoglitori-osservatori ed esperti teorici.
Le informazioni raccolte seguono le indicazioni di questionari delle istituzioni antropologiche
come l’Ethnological Society e il Royal Anthropological Institute of London e la Société
Ethnologique de Paris.
Si riteneva che l’oggettività fosse garantita dalla neutralità dell’osservatore e dall’assenza di
pregiudizi. Walter Baldwin Spencer, uno dei principali informatori a distanza dell’epoca, fu un

3
naturalista della generazione postdarwiniana. La rilevanza del suo ruolo è collegata al progetto
scientifico promosso dal museo Pitt Rivers di Oxford. L’obiettivo del museo mirava a costituire
una collezione di cultura materiale che permettesse di mostrare l’evoluzione di diverse
tipologie di oggetti, dalle loro forme più primitive a quelle contemporanee.
Howitt e Fison, attivi in Australia fra il 1872 e il 1908, costituiscono l’altro esempio più
significativo del ruolo degli etnografi corrispondenti. Collaborarono oltre che con Morgan e
Frazer, anche con Tylor. Per raccogliere materiale di prima mano da inviare agli studiosi in
Europa, Howitt elaborò personalmente dei questionari, utilizzati in seguito da altri raccoglitori
australiani interessati agli aborigeni. Anche Spencer e Gillen, oltre a operare come informatori,
redassero alcune opere importanti, frutto della loro frequentazione degli aborigeni australiani.
I saggi di Spencer e Gillen sono stati considerati un’anticipazione dello stile monografico
moderno, come fu riconosciuto dallo stesso Malinowski. La figura dell’antropologo
“armchair” esprime pienamente l’impostazione metodologica positivista all’epoca dominante.
Da un lato, lo studioso elabora le leggi evolutive del progresso umano comparando tra loro
società lontane e fino a quel momento sconosciute, senza però averne una conoscenza diretta.
Dall’altro il “corrispondente”, senza alcuna competenza teorica pregressa, raccoglie i preziosi
dati che sarebbero stati poi utilizzati dagli antropologi. A lui è semplicemente richiesto di
coniugare la propria neutralità con le liste di domande fornite dai lontani teorici. Molta poca
attenzione era dedicata alle modalità di raccolta e alle difficoltà implicate nella ricerca delle
informazioni. La figura dell’antropologo armchair trova la sua collocazione naturale
all’interno del periodo evoluzionista della disciplina. Seguendo il modello di Darwin, e
soprattutto di Spencer, gli antropologi più rappresentativi dell’epoca, come Tylor, Morgan o lo
stesso Frazer, utilizzano i popoli esotici per studiare l’evoluzione dell’uomo. Un manufatto,
un’usanza o un rituale vengono scorporati dal loro orizzonte di senso. Sono inseriti in un
sistema di classificazione universale, in cui le variabili, di per sé insignificanti, interessano
unicamente per le loro correlazioni.
I QUESTIONARI
La creazione di importanti enti di ricerca ebbe un’influenza rilevante nel consolidare la
distinzione tra antropologi armchair e corrispondenti sul campo. Lo strumento principale fu il
“questionario antropologico”, redatto dai più importanti antropologi dell’epoca. L’intento era
raccogliere informazioni su culture e società considerate in via di estinzione sotto l’impatto
della civiltà europea. Tale urgenza influenzò le modalità di raccolta delle informazioni e quindi
la loro qualità. I primi elenchi di domande appaiono nel XVI secolo e si diffondono a seguito
dell’impulso dei grandi viaggi esplorativi dei secoli successivi. Di struttura scarna ed
essenziale, i questionari erano destinati a guidare con rigidità normativa la raccolta dei dati e a
indirizzare lo sguardo degli osservatori-compilatori.
Nel 1839 la British Association for the Advancement of Science (BAAS), fondata ne 1831 a
Londra, istituì una commissione incaricata di elaborare una serie di domande da inviare a
viaggiatori o residenti nelle parti del globo abitate da “razze minacciate” di cui si temeva
l’imminente scomparsa. In quello stesso anno, in Francia venne fondata la Societé
Ethnologique de Paris. Tra gli esiti del lavoro della commissione ci fu anche la fondazione,
nel 1843, dell’Ethnological Society of London. In continuità con le esperienze precedenti,
l’obiettivo della nuova istituzione era collezionare “fatti etnologici” che permettessero di
documentare la condizione delle razze che stavano scomparendo e di promuovere
l’avanzamento dell’etnologia. Anche singoli studiosi, come Frazer e Morgan, redassero

4
autonomamente i loro questionari per corrispondere più efficacemente alle loro specifiche
esigenze di ricerca. Morgan, già conosciuto per i suoi studi sulla discendenza presso le
comunità irochesi nel 1862 preparò una Circular allo scopo di sistematizzare la raccolta delle
terminologie di parentela in Asia e in Oceania. Le sue liste di domande persuasero anche Fison
e Howitt, in Australia, a elaborare personalmente i loro questionari. Frazer, attraverso il
questionario, si proponeva di accumulare del materiale da utilizzare nelle ricerche comparative
che stava svolgendo su magia, religione e totemismo fra i popoli primitivi.
Si dovette attendere il 1872 perché una spedizione decidesse di dotarsi di un questionario
specificamente antropologico, costruito ad hoc per l’occasione da un’istituzione specializzata.
Il governo inglese pianificò una missione nell’Artico e decise di rivolgersi all’Anthropological
Institute. Nel 1874, la BAAS e il Royal Anthropological Institute of Great Britain and Ireland,
che sostituì la Ethnological Society chiusa nel 1871, produssero la più importante
pubblicazione di questo tipo: le Notes and Queries on Anthropology. Le Notes and Queries
furono redatte in quattro distinte edizioni (1874, 1892, 1899, 1912) e poi semplicemente
ristampate. Segnarono la ricerca per più di mezzo secolo, diventando un riferimento
imprescindibile per i corrispondenti che collaboravano con gli antropologi armchair. Le
differenti edizioni interpretano il graduale sviluppo delle teorie e dei metodi di ricerca che,
culminati nel lavoro di Malinowski, esercitarono una decisiva influenza sull’antropologia. La
prima edizione delle Notes and Queries era molto più estesa dei questionari precedenti e uscì
nel 1874, a soli tre anni dal Primitive Culture, l’opera di Tylor che aveva sancito la centralità
del concetto di cultura per il sapere antropologico. Le Notes and Queries furono profondamente
influenzate da questo scritto e muovevano dalla convinzione programmatica che l’antropologia
fosse una scienza naturale fra le altre. Il manuale del 1874 è organizzato in tre sezioni
autonome: la prima intitolata “Costituzione dell’Uomo (Antropologia Fisica)”, la seconda
“Cultura” e l’ultima “Miscellanea”. L’influenza di Tylor è ravvisabile non solo nella
valorizzazione dell’importanza e specificità della cultura, ma nella sua stessa concezione come
un “insieme scomponibile di parti”. La sezione “Cultura” è infatti suddivisa in settantacinque
voci, ciascuna dedicata a un argomento specifico. Tylor si occupò personalmente di diciotto
voci, corredando i quesiti con alcune istruzioni che avrebbero dovuto garantire l’obiettività
delle informazioni raccolte. Una sezione sul matrimonio fu redatta da John Lubbock: la
precisione con cui ha costruito la sua lista è lodevole, ma tale meticolosità finì per scoraggiare
la raccolta dei termini di parentela anziché favorirla. Un indizio embrionale della crescente
professionalizzazione del lavoro di ricerca e del suo ruolo all’interno dell’antropologia si può
cogliere dalla variazione del sottotitolo della seconda edizione dell’opera che uscì nel 1892.
In questa fase l’etnografia non è ancora identificata con la ricerca sul campo, ma coincide con
alcuni specifici interessi tematici all’interno del più ampio settore di studi identificato come
“antropologia”. Charles Hercules Read, direttore del Dipartimento di Etnografia del British
Museum, nell’introduzione alla sessione sull’etnografia introduce per la prima volta un tema
di grande portata, allorchè si riferisce all’uso delle informazioni antropologiche da parte del
governo. Anticipa, in tal senso, l’ipotesi di un impiego della disciplina da parte
dell’amministrazione coloniale.
La commissione che produsse la nuova edizione del 1892 fu sempre diretta a Tylor. Molte
domande furono riviste, alcune parti aggiunte. Nessuna, tuttavia, fu specificamente dedicata
alla metodologia di raccolta dei materiali. Lo spazio dedicato all’analisi delle relazioni sociali
rimase ancora piuttosto ridotto. L’edizione del 1892 rappresenta la definitiva consacrazione di
questo manuale quale strumento imprescindibile per la ricerca sul campo. Il suo successo fu

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tale che venne ripubblicata, senza sostanziali cambiamenti, già nel 1899. Tylor, presidente della
commissione editoriale, rimase la figura dominante, a cui si affiancò Pitt Rivers, mentre Frazer
partecipò con una piccola sezione sul totemismo. Conclusosi il periodo delle grandi
esplorazioni, missionari e viaggiatori furono gradualmente sostituiti da ufficiali coloniali in
qualità di corrispondenti degli antropologi. Mentre i primi continuarono a prestare maggiore
attenzione ai sistemi di credenze e al linguaggio, i resoconti degli amministratori si
focalizzarono soprattutto sull’ambito legislativo e istituzionale.
La terza edizione del1898 segna il passaggio dai teorici come Tylor, Pitt Rivers e Lubbock, ai
ricercatori naturalisti, tra cui Haddon, Seligman e Rivers, che diedero vita alle due Torres Strait
Expeditions. L’edizione del 1912 è particolarmente significativa perché segna la definitiva
professionalizzazione del metodo e delle stesse Notes and Queries. Diretta dall’antropologa e
folklorista Barbara Freire-Marreco e da J.L. Myres, questa edizione ribadisce la funzione delle
Notes and Queries presentandosi non come una guida per i viaggiatori, ma come un manuale
per una nuova generazione di antropologi che fondano le loro ricerche su una solida
preparazione nei metodi delle scienze esatte. Gli oggetti dell’antropologia e le stesse domande
sono mutati. Per soddisfarle, i metodi devono essere più precisi e rigorosi, anche rispetto al
posizionamento dell’osservatore. Il libro è diviso in quattro sezioni: antropologia fisica,
tecnologia, sociologia, arti e scienze. Nel capitolo sulla cultura l’influenza di Tylor resta
dominante, come nelle edizioni precedenti.
L’edizione del 1929 introduce per la prima volta alcune sezioni di economia e diritto. Compare
anche un ringraziamento a Malinowski, che viene citato nella lista dei collaboratori. Invero
l’antropologo a quel tempo aveva già abbandonato la sua iniziale adesione alle teorie e ai
metodi di Rivers. Di fatto, rifiutò il riconoscimento, respinse il valore dell’intera impresa e
accusò i redattori di aver plagiato le sue idee sul mito.
STATISTICA E METODO COMPARATIVO
La definizione del concetto antropologico di cultura come sommatoria di tratti discreti e
scomponibili serve a Tylor per elaborare una scienza naturale dell’evoluzione culturale. I
differenti livelli di sviluppo dell’umanità sono stabiliti attraverso la “correlazione statistica” e
le “variazioni concomitanti” di variabili opportunamente selezionate. Questa prima
applicazione della statistica al metodo antropologico, successivamente sviluppata da altri
contributi, si fonda sui presupposti delle possibilità limitate e dell’unità psichica del genere
umano. Mira a elaborare un modello di classificazione delle popolazioni umane ispirato alle
tassonomie naturalistiche. Il modello su cui si fonda la proposta metodologica di Tylor è la
distribuzione statistica di frequenza delle variabili. La distribuzione indica il numero di volte
in cui si presenta il fenomeno studiato. Le variabili rappresentano una serie di caratteristiche
rilevate in una popolazione di riferimento. Le variabili prescelte sono le usanze matrimoniali e
le regole di discendenza adottate dai gruppi sociali. Privilegiando il numero dei casi raccolti
rispetto al loro approfondimento idiografico, l’antropologo armchair organizza il flusso dei
dati inviati dai corrispondenti. Mettendo in relazione i risultati, Tylor inferisce che l’evitamento
rituale dei membri della famiglia della moglie da parte del marito è in relazione con la residenza
uxorilocale. Allo stesso modo, l’evitamento rituale dei membri della famiglia del marito da
parte della moglie è in relazione con la residenza virilocale. Tylor arriva a quei numeri
applicando le formule matematiche della statistica. Il calcolo stabilisce quante volte un certo
tipo di evitamento e un certo tipo di residenza sono entrambi presenti in un contesto per effetto
della pura casualità. Stabilita l’esistenza di una relazione statistica tra i due costumi, spetta poi

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all’antropologo interrogarsi sulle motivazioni che ne sono all’origine. Come lui stesso
sottolinea, il punto chiave del metodo risiede nella possibilità di offrire un reale fondamento
scientifico alla conoscenza antropologica. Qualora si incontri un costume che sembri confutare
una relazione emersa dall’analisi statistica dei casi raccolti esso viene interpretato come una
“sopravvivenza” di un’epoca precedente. La specificità del contributo metodologico di Tylor
consiste nella formulazione di leggi evolutive di portata universale attraverso un’accorta
comparazione di variabili culturali, sulla base di relazioni statisticamente rilevanti.
L’approccio di Lewis Henry Morgan si discosta da quello tyloriano, sia per la scarsa attenzione
agli aspetti puramente metodologici e tecnici, sia per l’obiettivo precipuo di individuare i livelli
di complessità delle diverse tecniche di sussistenza. Il suo lavoro di comparazione si fonda, da
un lato, sulle ricerche condotte in Europa, Asia, America e Oceania utilizzando un questionario
da lui ideato e compilato da informatori a distanza. Dall’altro adopera i dati da lui direttamente
raccolti in alcune riserve indiane, in particolare presso le tribù del Kansas e del Nebraska, delle
Montagne Rocciose e del Nuovo Messico. I risultati prodotti da questo duplice lavoro servono
per comparare diversi sistemi di parentela. Nei sistemi di parentela “classificatori”, del tipo
irochese, i parenti consanguinei in linea collaterale non vengono distinti da quelli in linea
diretta: il fratello del padre non viene differenziato da quest’ultimo ed è designato ugualmente
con il termine “padre”. Nei sistemi di parentela del tipo “descrittivo”, come quello occidentale,
i parenti consanguinei in linea collaterale vengono invece identificati in modo diverso rispetto
a quelli in linea diretta. Secondo Morgan, le nomenclature di parentela designano differenti fasi
di sviluppo della società umana, e, come nel caso delle sopravvivenze di Tylor, permettono di
stabilire gli stadi dell’evoluzione. Il tipo di organizzazione sociale fondato sulla parentela è
considerato specifico del periodo “barbarico”, mentre lo sviluppo di una società fondata su
rapporti di tipo “politico” segna l’inizio della “civiltà”. Lo schema di Morgan raffigura
l’evoluzione della famiglia, considerata la base della società, nel passaggio dalla logica
classificatoria a quella descrittiva: dalla “promiscuità originaria” in cui è impossibile
riconoscere regole per l’accoppiamento e il riconoscimento dei figli si arriva, con la civiltà,
alla famiglia monogamica in cui è possibile descrivere con precisione i rapporti tra i suoi
membri. L’evoluzione della famiglia prevede un’analoga transizione articolata temporalmente:
“la famiglia consanguinea”, in cui il matrimonio avviene anche tra fratelli e sorelle; “la famiglia
punalua”, in cui vige il divieto di matrimonio tra fratelli e sorelle; “la famiglia sindiasmiana”,
nella quale le coppie nascono e si sciolgono spontaneamente; “la famiglia patriarcale”, in cui
l’autorità suprema spetta al capo di sesso maschile; e, infine, “la famiglia monogamica”, in cui
vige una formale uguaglianza fra i coniugi.

2. IL LAVORO SUL CAMPO


L’ETNOGRAFIA PROFESSIONALE MODERNA
Gli storici della disciplina considerano il decennio iniziato nel 1880 come il periodo di
separazione tra l’etnografia professionale moderna e le precedenti esperienze di contatto fra gli
europei e le popolazioni primitive. Il nuovo panorama politico-culturale e la crescente
insoddisfazione per il materiale di seconda mano promossero, nel contesto britannico, una
nuova generazione di ricercatori. Essi concepivano il campo in termini coerenti coi paradigmi
metodologici delle scienze naturali, dove gli scienziati conducevano personalmente
l’osservazione e raccoglievano fatti e specimens. Esperti con una formazione di tipo
naturalistico lavoravano all’interno di grandi spedizioni multidisciplinari, spesso navali, per
l’esplorazione conoscitiva di vaste aree o regioni (surveys). In seguito, si sviluppò una

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distinzione fra survey e lavoro intensivo, focalizzato su un gruppo particolare, per prolungati
periodi di tempo. Prima della rivoluzione etnografica di Bronislaw Malinowski vi furono alcuni
importanti precedenti dell’osservazione rigorosa in prima persona. La più antica è senza dubbio
l’esperienza francese della Société des Observateurs de l’Homme alla fine del Settecento. Negli
Stati Uniti di metà Ottocento l’etnografia enciclopedica di Henry Rowe Schoolcraft e,
soprattutto, il lavoro sul campo di Frank Hamilton Cushing contribuirono in modo pioneristico
alla definizione della ricerca sul campo. Decisive per le questioni metodologiche furono le
successive proposte dei nuovi etnografi naturalisti delle Torres Strait Expeditions e in
particolare l’intensive method di Alfred Haddon, a cui sembra si debba il primo utilizzo in
antropologia del termine fieldwork e il metodo genealogico di William Rivers.
L’ANTROPOLOGIA COMPARATA E LA SCIENZA D’OSSERVAZIONE
Fondata dal pedagogo Louis Francois Jauffret nel 1799, la Société des Observateurs de
l’Homme aveva il proposito esplicito e programmatico di promuovere lo studio scientifico del
genere umano nella sua variabilità fisica, sociale, culturale e linguistica, applicando con rigore
il metodo dell’osservazione già ampiamente sperimentato nelle scienze della natura. Il suo
contributo anticipa di alcuni decenni la piena affermazione dei temi chiave che
caratterizzeranno l’antropologia evoluzionista britannica: la proposta dei popoli selvaggi quale
nuovo oggetto di ricerca scientifica, l’importanza della comparazione e l’idea di una scala
evolutiva entro cui ordinare e classificare la diversità umana. De Gérando auspica che le
informazioni sui popoli selvaggi siano raccolte in prima persona da soggetti adeguatamente
formati e consapevoli delle finalità della ricerca e non da generici esploratori. La brevità dei
soggiorni, lo scarso rigore nell’annotazione delle particolarità, il fatto che non venissero
organizzate in tabelle per evidenziarne le regolarità, l’osservazione di singoli individui a
discapito di una visione d’insieme erano, secondo De Gérando, i principali ostacoli che
impedivano la comprensione di una società nel suo complesso.
Una corretta progressione scientifica impone un passaggio graduale e controllato dal
particolare all’universale, dagli effetti osservati ai princìpi nomologici che li sottendono.
Considerando il rapporto fra il ricercatore e i suoi interlocutori, De Gérando sottolinea come
sia decisamente fuorviante giudicare i costumi dei selvaggi sulla base di analogie tratte dai
nostri propri costumi. Far ragionare il selvaggio secondo il nostro modo di ragionare allontana
il viaggiatore filosofo da quei fatti fondati sull’esperienza a cui dovrebbe invece attenersi, senza
giustapporre all’osservazione giudizi derivanti da un codice morale non necessariamente
condiviso dai popoli primitivi. Conquiste o eventi bellicosi non sono ritenuti accadimenti
neutri: essi sono tali da influenzare non solo le possibilità e le modalità di osservazione, ma
anche l’atteggiamento più o meno disponibile manifestato dai selvaggi nei confronti dello
studioso che si reca sul campo. De Gérando sfiora così questioni che in seguito l’antropologia
tematizzerà riconoscendo la natura non neutrale dell’esperienza di campo, le asimmetrie di
potere che la costituiscono, oltre al ruolo delle più ampie relazioni politiche entro cui si
contestualizza l’incontro etnografico. Un altro importante aspetto messo in evidenza nelle
“Considerazioni” (testo di De Gérando) riguarda un problema che diverrà centrale nella
fondazione dell’etnografia moderna, ovvero la questione linguistica. Le sue affermazioni
esprimono una prospettiva metodologica che preconizza l’approccio empatico sviluppato di un
secolo dopo da Malinowski e cioè l’importanza dell’immersione dello studioso nel contesto
analizzato sino a smettere di essere un elemento di disturbo nella vita tribale e diventando, anzi,

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parte e porzione della loro vita. L’adozione di un rigoroso metodo di osservazione servì a
Volney per stendere il resoconto di un viaggio in Medio Oriente compiuto tra il 1782 e il 1785.
Le problematiche affrontate negli scritti della Société hanno un valore prevalentemente storico,
anticipatorio dei successivi sviluppi dell’antropologia e del metodo etnografico. L’importanza
attribuita all’osservazione diretta basata su rigorosi dettami scientifici, il ruolo delle spedizioni
conoscitive di natura multidisciplinare, così come lo studio di popolazioni lontane ed esotiche
per arrivare a una più completa comprensione del genere umano, sono solo alcune delle
tematiche che riemergeranno quasi un secolo dopo rispetto a questi scritti pionieristici. Il
promettente programma scientifico della Société venne infatti bruscamente interrotto nel 1805
a seguito del mutato clima politico dell’epoca. Le decisioni napoleoniche portarono alla
soppressione di istituzioni come la Société, giudicate inutili o persino dannose. In generale,
tuttavia, le indicazioni metodologiche di De Gérando e Volney rimasero sostanzialmente
estranee all’atto di nascita dell’antropologia. Nel 1871, anno della pubblicazione di Primitive
Culture di Edward Burnett Tylor, c’era un consenso quasi unanime sulla necessità di scindere
la figura dello studioso dedito all’elaborazione di teorie di portata generale da quella
dell’osservatore inviato sul campo senza alcuna particolare preparazione accademica
pregressa.
IL METODO INTERNO
Negli Stati Uniti l’antropologia si professionalizzò molto prima che in Gran Bretagna, come
risposta all’ampliamento degli insediamenti continentali interni. A differenza dei
contemporanei europei, gli antropologi statunitensi non indagarono contesti esotici e
geograficamente lontani. Si focalizzarono sulle culture indigene autoctone, studiandone le
origini, lo sviluppo e le interrelazioni. Le conquiste verso ovest e la costruzione di ferrovie
rappresentarono dei fattori facilitanti per lo sviluppo della ricerca. Negli Stati Uniti la
distinzione tra teorici e raccoglitori fu meno netta che nell’antropologia britannica. I ricercatori
si concentrarono su problemi particolari, suggeriti da musei e istituzioni promotrici le ricerche
allo scopo di colmare le lacune nel materiale etnografico. Negli Stati Uniti la ricerca sugli
indiani fu sostenuta dal governo federale. Gran parte delle indagini, condotte inizialmente da
funzionari, missionari ed esperti a diretto contatto coi nativi, fu pubblicata dal Bureau of
American Ethnology (BAE) di Washington e dalla Smithsonian Institution. In questo contesto,
un precursore illustre dell’etnografia professionale fu Henry Rowe Schoolcraft. Le sue
spedizioni esplorative fra le tribù nordamericane risalgono alla prima metà dell’Ottocento.
Schoolcraft assunse un approccio enciclopedico allo studio di red men, espressione che usava
per riferirsi a quelle che chiamava tribù native. Si concentrò soprattutto sull’aspetto linguistico.
Produsse una propria lista di domande. Le sue indicazioni vennero seguite negli anni successivi
da diversi ricercatori. Uno degli istituti statunitensi che maggiormente si distinse nella
promozione della ricerca sul campo fu il Bureau of American Ethnology (BAE). Fondato dal
governo nel 1879, fu collocato all’interno della Smithsonian Insitution allo scopo di raccogliere
e pubblicare informazioni sugli indiani. I lavoratori sul campo del Bureau erano subordinati ai
teorici di Washington, che pubblicavano e sintetizzavano i risultati negli Annual Reports of the
Bureau. La raccolta di informazioni avveniva, infatti, soprattutto attraverso l’uso di questionari
e di guide. Tuttavia, il Bureau impiegò anche individui che svolgevano personalmente le loro
ricerche. In tal senso, la figura predominante è quella di Frank Hamilton Cushing. Per il suo
lavoro etnografico fu considerato un anticipatore del metodo dell’osservazione partecipante.
Cushing esordì come rappresentante del National Museum per la prima spedizione

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archeologica e genericamente etnologica del BAE per il sud-ovest. Nel corso della spedizione,
Cushing decise di rimanere fra gli zuni, preoccupato principalmente di salvare una forma di
vita in estinzione. Le sue doti personali gli permisero di essere accolto all’interno della società
zuni e di diventare membro di una ristretta cerchia iniziatica di sacerdoti. Le sue difficoltà e
l’iniziazione al sacerdozio zuni sono entrate a far parte della tradizione dell’antropologia
americana. L’esperienza di Cushing, divenuta mitica, rappresenta la realizzazione di ciò che
Lévi-Strauss paventava, cioè l’assorbimento definitivo dell’osservatore da parte dell’oggetto
osservato, l’esaudimento del desiderio di going native che caratterizza le interpretazioni
empatiche di ciò che viene definito la pratica dell’osservazione partecipante. Ciò che Cushing
chiama internal method è costituito da una combinazione di analisi linguistica, osservazioni
quotidiane e intuizioni personali. Iniziò quasi subito a osservare direttamente gli zuni, vincendo
la loro diffidenza e ostilità. Si stabilì tra loro e imparò la loro lingua. I risultati ottenuti dal
Bureau of American Ethnology spinsero la British Association a istituire nel 1884 una
Committee per promuovere una ricerca sugli indiani canadesi, in particolare sulle tribù del nord
ovest. La Committee preparò una Circular of Inquiry a uso di funzionali governativi, missionari
e viaggiatori. Tylor ne fu il principale ideatore. La Committee sulle tribù del nord ovest del
Canada fu solo una fra quelle che vennero istituite in quegli anni. La sua importanza si deve
soprattutto ai ricercatori che vennero selezionati per le ricerche. Inizialmente fu scelto il
reverendo E.F. Wilson, successivamente gli subentrò Franz Boas. Il suo lavoro fra gli eschimesi
tra il 1883 e il 1884 e sulla costa del nord ovest (1895) attirò l’attenzione di Hale e della
Committee.
Boas si discostava in maniera significativa dal modello degli antropologi armchair. Si
considerò un grande sostenitore della ricerca sul campo, molto scettico rispetto all’effettiva
qualità dei dati raccolti attraverso le surveys. Boas si schierò decisamente contro la prospettiva
metodologica evoluzionista. I suoi rilievi critici si indirizzarono soprattutto alle comparazioni
su larga scala prodotte dagli antropologi armchair. Secondo Boas, nell’intento di scoprire leggi
universalmente valide dello sviluppo sociale, gli evoluzionisti avevano erroneamente
considerato le similarità culturali come la prova di un’uniforme modalità di funzionamento
della mente umana, piuttosto che come il segno tangibile dell’esistenza di connessioni storiche
tra popoli differenti. Boas riteneva che la debolezza di questo tipo di comparazioni risiedesse
proprio nella convinzione che fenomeni etnologici simili fossero dovuti alle medesime cause,
trascurando di considerare la possibilità che le similitudini osservate potessero essere il
prodotto di motivazioni o condizioni differenti. La proposta di Boas invitava, invece, a
concentrarsi sull’osservazione diretta, in un’area geografica ristretta, degli elementi di
specificità culturale di un singolo gruppo sociale, prendendo in considerazione le relazioni
intrattenute con le tribù circostanti. Avverso alle comparazioni ad ampio raggio fondate sul
determinismo riduzionistico delle scienze naturali e sostenitore di un’antropologia come
scienza idiografica e storiografica, Boas si schierò a favore di uno studio contestuale della
cultura. Tuttavia, focalizzò l’interesse su tratti culturali specifici – un particolare oggetto, una
credenza o una pratica – intesi come atomi, non ulteriormente scomponibili, di totalità culturali
tra loro confrontabili. A eccezione di un viaggio nell’isola di Baffin (Canada nordorientale)
nell’area degli eschimesi centrali compiuto nel 1883, Boas non praticò le sue ricerche per
periodi considerevoli. I suoi studenti applicarono le tecniche statistiche ai dati culturali,
soprattutto negli studi regionali. Tutti si interessarono alle lingue native amerindiane e alla loro
importanza per la ricerca etnografica. Alcuni studiosi, come White, contestano la visione di
Boas come raffinato ricercatore sul campo, sostenendo che dall’esame dei dati emerge che il

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tempo effettivamente trascorso a diretto contatto con la vita dei propri interlocutori fu molto
scarso. Nel complesso, il comparativismo su scala ridotta promosso da Boas non fu decisivo
per la riformulazione del metodo etnografico. Il suo apporto all’antropologia americana si deve
soprattutto all’introduzione della prospettiva idiografica, focalizzata sulla comprensione delle
particolarità anziché sulla formulazione di leggi. Essa fu ripresa e sviluppata criticamente da
illustri allieve, come Ruth Benedict e Margaret Mead ed esercitò un’influenza importante
sull’antropologia interpretativa di Clifford Geertz. Rimane tuttavia evidente che anche le
esperienze pionieristiche di osservazione diretta compiute negli Stati Uniti contribuirono a
mettere in discussione la netta divisione di ruoli tra antropologi armchair e corrispondenti sul
campo. Parteciparono a delineare un diverso approccio alla ricerca, non più focalizzato su
comparazioni su larga scala, ma sull’acquisizione di competenze specifiche su casi di studio
relativamente circoscritti.
FIELDWORK. LO STUDIO INTENSIVO DI AREE LIMITATE E IL METODO
GENEALOGICO
In Gran Bretagna il tratto distintivo dei nuovi etnografi fu la formazione specialistica,
prevalentemente di tipo naturalistico. L’applicazione sistematica del metodo sperimentale finì
comunque per innescare un cambiamento di tipo qualitativo che portò a una ridefinizione
dell’oggetto dell’antropologia. Il fatto che gli studiosi si recassero personalmente sul terreno di
osservazione e dovessero confrontarsi con le tecniche di raccolta ebbe il duplice effetto di
restringere la loro area di indagine e incrementare la precisione e la profondità delle ricerche.
Un forte sviluppo alla pratica etnografica fu prodotto dall’opera di Alfred Cort Haddon.
Haddon iniziò a interessarsi di antropologia in seguito alla partecipazione a una spedizione di
ricerca di biologia marina da lui organizzata fra il 1888 e il 1889 nello Stretto di Torres, situato
fra Australia e Nuova Guinea. Haddon si considerava un etnologo e perseguiva finalità
scientifiche tipicamente darwiniane. Inizialmente appoggiò le sue ricerche sulle Notes and
Queries e sulle Questions on the Customs, Beliefs and Languages of the Savages di Frazer. La
grande quantità di informazioni raccolte nel corso della prima spedizione fu pubblicata al suo
ritorno nel Journal of the Anthropological Institute, secondo le categorie stabilite dalle Notes
and Queries on Anthropology. Questa esplorazione ottenne un tale successo da consentire a
Haddon di pianificare, con l’Università di Cambridge, una seconda spedizione allo Stretto di
Torres, questa volta espressamente dedicata alla raccolta di dati di tipo etnografico. La seconda
spedizione (1898-1899) fu un evento di capitale importanza nella storia dell’antropologia.
Haddon era favorevole all’introduzione dei metodi della psicologia sperimentale, al fine di
misurare le capacità mentali e sensoriali dei popoli primitivi. Raggruppò un cospicuo numero
di studiosi, ciascuno con definite specificità disciplinari. All’équipe riunita da Haddon
parteciparono, fra gli altri, William Rivers, il medico Charles Seligman, incaricato di studiare
la medicina primitiva, il musicologo Charles Myers, il linguista Sidney Ray e il fotografo
Wilkin. La ricerca produsse sei volumi di dati etnografici e numerosi articoli, oltre al materiale
utilizzato da Haddon per i suoi resoconti e, in seguito, dai collaboratori. Queste pubblicazioni,
più la raccolta dei preziosi reperti conservati nel Museo etnografico di Cambridge,
consacrarono definitivamente il riconoscimento dell’antropologia sul piano accademico.
L’esito principale della missione non fu tanto teorico, quanto metodologico. Haddon
incoraggiò fortemente il fieldwork e asserì la necessità di usare osservatori formati e field-
anthropologists, favorendo il passaggio dal tipo di ricerca quantitativa e generalizzante propria
della survey a quello che lui stesso riassunse nella formula the intensive study of limited areas.

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Dichiarò che il senso e la pratica corretta dell’intensive study coincidevano con gli studi
esaustivi di un gruppo limitato, tracciando tutte le ramificazioni delle loro genealogie nel modo
sintetico adottato dal Dr. Rivers nelle isole dello stretto di Torres e fra i Toda. L’elaborazione
dei procedimenti per rendere più precisa e sistematica la raccolta dei dati era finalizzata alla
volontà di fondare l’antropologia su basi scientifiche. Rivers ammise con chiarezza che non
solo i fatti, ma anche il modo in cui venivano raccolti aveva una decisiva importanza.
Rivers si ispirò a queste prime esperienze di ricerca per produrre una prima elaborazione di
quello che chiamò “metodo genealogico”. Il procedimento mirava a ricostruire la struttura
sociale di qualsiasi gruppo a partire dall’analisi delle terminologie di parentela. Il metodo
fornisce uno schema entro cui collocare i membri di una comunità e a cui riferire una vasta
gamma di informazioni etnografiche. I dati genealogici possono essere utilizzati per analizzare
i modelli di eredità, le migrazioni, i ruoli rituali, la demografia e altro ancora: informazioni
comportamentali e biografiche, lo studio della magia, della religione, dell’antropologia fisica
e della linguistica. Il metodo genealogico esercitò un impatto determinante sulla disciplina
allorchè venne affidata a Rivers la redazione di una delle quattro sezioni che componevano le
Notes and Queries del 1912.
Partendo dal presupposto che la parentela costituisca lo strumento di accesso privilegiato e
maggiormente formalizzabile alle regole del mondo sociale, Rivers consiglia di impiegare il
minor numero possibile di sostantivi indicativi di una relazione. L’ideale consiste
nell’utilizzarne solo cinque: padre, madre, figlio (distinto fra maschio e femmina), marito e
moglie.
A differenza delle precedenti edizioni delle Notes and Queries, Rivers dedica molto spazio alle
effettive modalità di conduzione della ricerca sul campo. In particolare, pone grande enfasi
sull’importanza di acquisire adeguate competenze linguistiche al fine di evitare l’uso di
interpreti. Il ricercatore sul campo è invitato ad appropriarsi delle terminologie con cui i nativi
definiscono la realtà, evitando di imporre loro la propria categorizzazione del mondo. Ispirato
a un approccio positivistico, il concrete method di Rivers indica un modo rapido ed efficace
per collezionare fatti concreti non contaminati dalle astrazioni evoluzionistiche europee. Il fatto
di studiare problemi astratti, sui quali le idee del selvaggio erano vaghe, attraverso fatti concreti
nei quali è maestro, permette di formulare le leggi che regolavano la vita di persone che
probabilmente neanche loro avevano mai formulato. Rivers si preoccupò di specificare il modo
di individuare gli informatori migliori, come relazionarsi alle persone intervistate e sottolineò
l’importanza delle note prese sul campo. Sollecita a registrare immediatamente le informazioni,
descrivere il contesto in cui avviene un’azione, trascrivere i nomi degli informatori coinvolti.
Mappe, disegni, schizzi, anche fatti dai nativi. Riconoscendo la legittimità di una scala di valori
alternativa, considera del tutto comprensibile lo scarso interesse degli indigeni per le domande
dell’antropologo e non come una prova della loro inferiorità. In Rivers è il confronto con il
metodo, non con l’altro, a contrassegnare la scientificità della ricerca.
La monografia The Todas, scritta nel 1906 a seguito di un lavoro sul campo di circa cinque
mesi, fu a lungo considerata il modello di ciò che poteva essere un testo etnografico basato
sulla nuova metodologia di ricerca sul campo. Per questo motivo, da un punto di vista storico,
Rivers è ritenuto il padre dell’antropologia britannica, colui che ha stimolato la nascita della
scuola funzionalista.
Dopo le ricerche compiute allo Stretto di Torres, Rivers e Seligman divennero figure di
riferimento per la disciplina. Seligman fu maestro di Malinowski. Nel 1922, anno della sua

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morte, coincidente con la data di pubblicazione delle celebri monografie di Malinowski e di
Radcliffe-Brown, entrambi suoi allievi, era il più importante antropologo britannico.
Fu Malinowski, comunque, ad assumere il compito di portare a compimento la riflessione
metodologica avviata dai suoi maestri e superarne i limiti.

3. L’OSSERVAZIONE PARTECIPANTE
IL MITO FONDATIVO
Il lavoro sul campo di Malinowski nelle isole Trobriand, dal giugno 1915 al maggio del 1916
e fra il 1917 e il 1918, rappresenta, per la tradizione antropologica, una sorta di esperienza
archetipica, oggetto di una considerevole elaborazione mitopoietica. Il testo “Argonauti del
Pacifico occidentale” del 1922 viene riconosciuto come l’ideazione del metodo
dell’osservazione partecipante. Frazer, a cui venne affidata la prefazione dell’opera, riconobbe
l’alto valore scientifico del materiale raccolto nel libro. A differenza di Cushing, Boas o Rivers,
la ricerca sul campo di Malinowski fu preceduta da una specifica formazione professionale in
antropologia. Malinowski studiò alla London School of Economics con Westermarck e
Seligman e si tenne in contatto con gli antropologi di Cambridge, Haddon e Rivers. Il suo
ingresso sul campo fu preparato dal maestro Seligman, a cui fu dedicato il testo del 1922.
Quest’ultimo riuscì a ottenere che Malinowski fosse assunto come segretario della sezione
antropologica della British Association per una spedizione in Australia nel 1914. Nei suoi diari,
pubblicati postumi nel 1967 dalla seconda moglie, Malinowski riconosce prontamente i limiti
del suo primo lavoro sull’isola di Mailu (Nuova Guinea). Nelle sue visite al villaggio utilizzò
le categorie delle Notes and Queries e il metodo genealogico di Rivers. La svolta decisiva nel
percorso biografico e intellettuale di Malinowski si compie con la ricerca nell’arcipelago delle
Trobriand, in Papua Nuova Guinea. Nel luglio del 1914 Malinowski si trovava a Melbourne
per un congresso. Essendo polacco e quindi cittadino dell’impero austro-ungarico fu
formalmente internato, ma in un modo che non solo gli permise di svolgere la sua ricerca sul
campo, ma la incentivò. Nel 1915 pubblicò il primo resoconto del suo lavoro nelle Trobriand,
riguardante la credenza negli spiriti dei defunti. Malinowki introduce una significativa
differenziazione fra i “fatti” e il “metodo” della loro raccolta.
OGGETTO, METODO E FINALITA’ DELLA RICERCA
L’oggetto principale di Argonauti del Pacifico occidentale è un particolare sistema di
transazione commerciale che coinvolge un gran numero di comunità entro un ampio cerchio di
isole, secondo modalità e tempi determinati. Si scambiano collane di conchiglie rosse
(soulawa) e bracciali di conchiglie bianche (mwuali). Oltre a risultati di tipo metodologico,
l’etnografia di Malinowski ha inaugurato l’antropologia economica e orientato il suo sviluppo.
La sua influenza su Mauss fu decisiva in quanto egli generalizzò il fenomeno comprendendolo
nella categoria di dono cerimoniale e articolando componenti economiche, comportamenti
ostentatori e simbolici, reti di alleanze politiche.
Per Malinowski il coinvolgimento personale è usato come prova di rigore scientifico. Con la
stesura degli Argonauti l’etnografia ripresenta con forza la propria identità di scienza
sperimentale. La mera esibizione delle prove dell’avvenuto soggiorno presso popolazioni
considerate lontane e esotiche conferisce alle analisi un’autorevolezza che si fonda sulla
conoscenza scientifica e diretta dell’oggetto di ricerca. La qualità dei dati raccolti è strettamente
correlata alla solidità della preparazione teorica e metodologica del ricercatore. I dati,
oggettivamente esistenti a prescindere dallo sguardo di chi li osserva, possono essere raccolti

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solamente da un approccio scientifico e quindi utilizzati esclusivamente da studiosi formati sia
sul piano teorico che metodologico. Malinowski paragona il ruolo dell’impresa etnografica
all’importanza dell’esperimento nelle scienze naturali, dove l’avanzamento del sapere avviene
in forma empirica, grazie all’osservazione diretta del mondo sensibile attraverso la rigorosa
applicazione di procedure condivise. Egli esorta il ricercatore all’impegno di esplicitare la
metodologia a lavoro concluso, al fine di rendere credibili e verificabili i risultati raggiunti.
L’importanza di Malinowski rimane legata alla considerazione dell’etnografia come scienza
sperimentale e alla convergenza fra la figura del teorico e quella del ricercatore. Per quanto
essenziale, la ricerca sul campo è concepita come subordinata alla successiva elaborazione
teorica. L’etnografia, definita come l’insieme dei risultati empirici e descrittivi della scienza
dell’uomo, rimane ben distinta dall’etnologia, che rimanda invece alle teorie speculative e
comparative. Esaurito il momento etnografico, puramente descrittivo, subentra il livello
superiore propriamente teorico. Secondo Malinowski, il passaggio dalla fase sperimentale di
ricerca a quella nomotetica di costruzione di leggi con valore scientifico deve avvenire
attraverso una metodologia di tipo induttivo (procedimento logico).
Egli illustra le “tre pietre angolari del lavoro sul terreno”: in primo luogo l’etnografo deve
conoscere princìpi, finalità e risultati della moderna ricerca scientifica, inoltre, deve vivere fra
le persone che studia, infine, deve applicare alcuni metodi specifici per raccogliere, elaborare
e definire i dati.
L’insistenza sulla necessità che l’etnografo possieda una formazione scientifica che demarchi
la distanza della nuova etnografia dai precedenti dilettanteschi è funzionale al conseguimento
della finalità principale della ricerca etnografica, ovvero districare le leggi e le regolarità di
tutti i fenomeni culturali. La teoria fornisce quindi all’etnografo non idee preconcette, ma
problemi, cioè ipotesi da passare al caglio dei fatti. Scopo dell’antropologia è quello di
introdurre la legge e l’ordine in ciò che sembrava caotico e bizzarro. Il secondo principio
metodologico enunciato da Malinowski – vivere proprio in mezzo agli indigeni – mira a
coniugare l’osservazione rigorosa dei fatti sociali con la partecipazione dell’etnografo alla vita
tribale, secondo un approccio divenuto noto come osservazione partecipante.
Come già sostenuto da Rivers, anche Malinowski ritiene che gli individui agiscano in base a
princìpi e assunti culturali impliciti. Diventa dunque necessario sfruttare qualunque occasione,
qualunque avvenimento o fatto concreto che produca spontaneamente un commento
sull’accaduto, poiché solo in questo modo si possono raccogliere le informazioni che
permettono di risalire agli assunti della vita culturale di un popolo.
Le condizioni appropriate per il lavoro etnografico consistono nel tagliarsi fuori dalla
compagnia di altri uomini bianchi. Il metodo delinea uno stile di lavoro più che un insieme di
prescrizioni dettagliate. Escludendosi dalle relazioni con altri uomini bianchi, l’etnografo
verrebbe a porsi spontaneamente in armonia con l’ambiente circostante. L’osservazione
partecipante è un’esperienza di comprensione che utilizza il tempo e l’isolamento come
premessa della pratica della ricerca scientifica. Vivendo senza altri uomini bianchi,
l’antropologo entra in un rapporto naturale con i suoi interlocutori. Il fatto di inserirsi nella vita
del villaggio azzera la possibilità di essere un elemento di disturbo nella vita tribale. L’obiettivo
finale è cogliere il punto di vista del nativo a partire da un’esperienza empatica immediata e
soggettiva, successivamente tradotta nel linguaggio impersonale e neutrale proprio della
scienza. L’etnografo impegnato nell’osservazione partecipante diventa così uno specchio
senz’ombre che riflette una realtà data, esposta agli strumenti dell’obiettivazione scientifica.
La terza indicazione fornita da Malinowski – applicare un certo numero di metodi particolari

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per raccogliere, elaborare e definire le proprie testimonianze – ha l’obiettivo di tradurre in
termini operativi i primi due princìpi metodologici. Lo strumento privilegiato per conseguire
tale scopo è il metodo della documentazione statistica mediante la prova concreta. Come nel
caso di Tylor, la statistica sostiene la scientificità e il rigore del metodo proposto. Il lavoro sul
campo deve servire a trasporre l’iniziale carta mentale che permette al ricercatore di effettuare
i suoi rilevamenti e progettare la sua rotta, in una tavola sinottica (riassuntiva e schematica)
attraverso cui i dati raccolti sono organizzati nel loro insieme complessivo. Una delle tavole
più esemplificative è dedicata alla magia del kula ed è compilata ordinando tutti i rituali
osservati secondo quattro variabili: temporalità (periodo in cui si svolge e durata
approssimativa), luogo di svolgimento, attività propiziate attraverso la sua esecuzione, breve
descrizione della magia messa in atto e sue specifiche finalità. L’uso di tali strumenti richiama
il rigore del metodo baconiano, che integra l’osservazione con la registrazione dei fenomeni
attraverso l’uso di tavole. Disporre di una quantità sufficiente di dati tra loro confrontabili è
della massima importanza per ottenere una visione coerente e completa della società e della
cultura studiata.
Malinowski invita a dirigere l’osservazione reale, priva di pregiudizi e imparziale dei
comportamenti reali degli attori sociali a quei fenomeni che chiama gli imponderabili della vita
reale. Sono i dettagli minuti della quotidianità che si considerano indispensabili per penetrare
l’atteggiamento mentale che vi si esprime. Per tale fine, è indispensabile che l’etnografo
aggiorni con regolarità un “diario etnografico” in cui raccoglie tempestivamente, in maniera
minuziosa e particolareggiata, le effettive modalità di comportamento dei nativi nella
quotidianità, nonché le eventuali deviazioni dalle norme sociali consuetudinarie. Una volta
delineati la costituzione tribale e gli elementi culturali cristallizzati insieme ai dati della vita
quotidiana e del comportamento usuale, occorre dotare il corpo sociale di uno spirito, cioè
attingere a giudizi, opinioni ed espressioni degli indigeni. Il quadro della realtà sociale potrà
dirsi completo solo quando verranno raccolti anche i documenti della mentalità indigena.
Il punto di vista del nativo è il prodotto di un’astrazione intellettuale che trascende le opinioni
dei soggetti e la variabilità del loro posizionamento. Per suo tramite si raggiunge il terzo
obiettivo della ricerca etnografica, lo studio dei modi di pensare e sentire stereotipati.
Postulando la presunta omogeneità delle società primitive, il nativo appare una figura
sostanzialmente indifferenziata per età, genere e status sociale, a cui non viene riconosciuta
una specifica individualità.

LA MONOGRAFIA FUNZIONALISTA

Da più parti si è sostenuto che il valore metodologico del lavoro di Malinowski consiste
nell’aver inquadrato il piano strettamente operativo all’interno del paradigma funzionalista.
Diversi autori considerano il funzionalismo una teoria del lavoro sul campo, oltre che una teoria
generale. Malinowski inaugurò una pratica antropologica interessata a una rappresentazione
totalizzante della cultura. La natura di questo olismo consiste nel fornire l’immagine globale
di un modo di vita osservato da vicino. Invita a concettualizzare gli elementi della cultura, non
per elaborare un catalogo o un’enciclopedia, ma per stabilire delle connessioni sistematiche fra
loro. Malinowski si distanzia definitivamente da Rivers, che pure era un suo riferimento
fondamentale. Il metodo concreto del suo predecessore risulta, rispetto a quello funzionalista,
troppo rigido e schematico per considerare l’oggetto di indagine da un punto di vista
complessivo.

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Malinowski sostiene che il primo scopo della ricerca sia quello di fornire un profilo chiaro
dell’assetto della società indagata, che spieghi in che modo i suoi vari elementi costitutivi
configurino un insieme complesso e articolato. La prospettiva funzionalista implica un
approccio in cui le singole parti non sono analizzate in maniera settoriale, ma nelle loro
interrelazioni reciproche e sistematiche al fine di ricostruire la totalità del sistema sociale preso
in esame. A partire da questi presupposti, l’oggetto privilegiato degli Argonauti, lo scambio
Kula, è visto nelle sue componenti tecnologiche, sociali, politiche, economiche e magiche. La
comparazione di tratti culturali decontestualizzati, consegnati alla ragione nomotetica
dell’evoluzionismo e al suo progetto di una grande scienza dell’uomo, diventa irrealizzabile.
In questa prospettiva il concetto stesso di cultura viene a coincidere con quello di società. Ogni
comunità tribale si suppone dotata in maniera omogenea di un’essenza culturale.
Gli Argonauti rappresentano il prototipo della formula monografica, la plasticità di un genere
legato alla teoria funzionalista che aspira alla restituzione olistica di una totalità socioculturale.
La monografia etnografica designa una particolare forma di produzione testuale consistente
nella ricostruzione di un intero modo di vita nella sua globalità, scomposto e analizzato secondo
un formato standard e attraverso una serie di astrazioni teoriche che ne coprono i molteplici
aspetti. Al fine di ottenere la restituzione testuale olistica di un modo di vita estraneo,
Malinowski utilizza un registro descrittivo di tipo osservativo-visuale che si fonda su una
scrittura improntata al realismo o naturalismo etnografico. La forma discorsiva è per lo più
impersonale e mira a restituire l’obiettiva neutralità dell’autore. Restituisce un oggetto
antropologico statico, chiuso nel proprio spazio e nel proprio tempo. L’approccio sincronico è
evidente nell’uso del presente etnografico inaugurato da Malinowski nell’opera del 1922. Tale
convenzione per la scrittura e la descrizione etnografica presenta le attività degli individui
usando il tempo presente, come se stessero avendo luogo. La società è colta da un tipo di
sguardo che trascende le coordinate spazio-temporali ed è identificata con un’essenza
invariante. La concezione realista dell’osservazione derivata dalle scienze naturali, da un lato
considera gli oggetti come empiricamente e direttamente osservabili, dall’altro presenta un
soggetto contemplante imperturbabile a qualsiasi influenza esterna o interna. La conformità
dell’opera di Malinowski agli standard della ricerca scientifica fu sancita dal riconoscimento
del Social Science Research Council statunitense nel 1926, a soli quattro anni dalla sua prima
edizione. Da allora il metodo dell’osservazione partecipante divenne sinonimo di etnografia e
della moderna ricerca antropologica.

L’EQUIVOCO EMPATICO

La pubblicazione, nel 1967 a 25 anni dalla morte, dei due diari segreti di Malinowski produsse
un’immagine diversa sulla sua figura e sulla sua ricerca. Dai diari emerge che inglobare il
ricercatore all’interno del contesto di analisi non era stato senza conseguenze sulla conduzione
della ricerca. Da un lato occulta il coinvolgimento personale, lo confina nei diari; dall’altro
traduce l’esperienza di ricerca nella formula prescrittiva, depurata e astratta dell’osservazione
partecipante. Dai diari emerge l’effige di un contorto, preoccupato e ipocondriaco narcisista,
accusato di razzismo per il frequente utilizzo del peggiorativo nigger riferito ai nativi. I diari
ci fanno capire che l’esperienza sul campo di Malinowski fu attraversata da un profondo
disagio, segnata dalle difficoltà e dalle frustrazioni del lavoro, dallo smarrimento e dalla
depressione. Le tanto agognate immersioni nella vita tribale apparivano un’impresa molto
ardua da sostenere, innanzitutto sul piano psicologico e relazionale, dal momento che, come

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ammette egli stesso negli Argonauti, dopotutto il nativo “non è il compagno naturale per
l’uomo bianco”. Il problema più significativo posto dalle note private di Malinowski resta,
tuttavia, di natura metodologica. L’osservazione partecipante, una volta ricondotta ai
fondamenti epistemologici che dovrebbero sostenerla, si rivela impossibile da praticare.
L’osservazione partecipante non riesce a risolvere il delicato equilibrio fra soggettività e
oggettività su cui si fonda. L’esperienza personale dell’etnografo, specie quella della
partecipazione e dell’empatia, è riconosciuta come centrale nel processo di ricerca, ma è
fortemente limitata dagli standard impersonali dell’osservazione e della distanza oggettivante.
Il metodo si basa sulla separazione fra soggetto e oggetto, fra linguaggio e realtà. Suppone una
concezione realista dell’osservazione derivata dalle scienze naturali, in cui il soggetto è neutro
e gli oggetti empiricamente dati e direttamente osservabili. L’espressione “osservazione
partecipante” si rivela essere un ossimoro: partecipare e allo stesso tempo osservare sono
pratiche incompatibili. La ricerca dell’oggettivizzazione non consente la partecipazione,
giacché quest’ultima viola la separazione tra osservatore e osservato. Da un lato l’antropologo
è chiamato a immergersi in una nuova forma di vita culturale, imparando un codice di
comportamento adeguato e acquisendo empaticamente un sentire il più vicino possibile e
quello dei nativi; dall’altro deve mantenersi distaccato dal suo oggetto di studio per raccogliere
i dati etnografici in maniera oggettiva. L’etnografo si trova di fronte a un paradosso perché più
partecipa, meno gli sarà possibile osservare. La partecipazione comporta il coinvolgimento
emotivo, laddove l’osservazione richiede il distacco. Inoltre, un’eventuale immedesimazione
empatica, lo coinvolgerebbe come nativo, non certo come antropologo, selezionando quindi
discorsi diversi che appartengono e sono legittimati dal posizionamento indigeno.
L’etnografia di Malinowski mantiene un punto di vista esterno e oggettivo e intende i fatti
culturali come cose da osservare immediatamente. Non è l’immedesimazione empatica lo
strumento epistemologico attraverso il quale Malinowski ha condotto la sua ricerca. Il punto di
vista del nativo non viene costruito a partire da una comunione di vissuti, ma dal computo
statistico delle variabili. Malinowski è stato più un osservatore che un partecipante e, ancor di
più, un intervistatore mal tollerato perché bianco e ricco. La grande differenza rispetto alle altre
esperienze di ricerca, così come le inchieste etnografiche del passato, consiste nel fatto che
nelle isole Trobriand le interviste hanno avuto luogo all’interno del villaggio. Dai diari
apprendiamo che non prese parte alle spedizioni kula. Quando gli fu concesso di prendervi
parte, un cambiamento della direzione del vento costrinse le canoe a tornare indietro. Questo
fu imputato dai nativi alla sua sfortunata presenza e gli precluse la possibilità di partecipare al
rituale che costituisce l’oggetto specifico della sua monografia.
Bisogna inoltre considerare che la partecipazione presupporrebbe una situazione di parità
sociale e una relazione simmetrica fra antropologo e nativo. Questa conduzione, tuttavia, è
inattuabile in gran parte dei contesti etnografici, a maggior ragione in quelli dominati dai
rapporti coloniali. Fra il mondo melanesiano e l’amministrazione coloniale britannica vi erano
barriere di status, ricchezza e potere. I diari di Malinowski rivelano un clima di tensione sociale
e la scarsa collaborazione dei nativi. Inoltre, le presenze da lui evocate – funzionari,
commercianti, missionari – ci restituiscono l’immagine di un campo affollato. Rivelano come
la condizione di completo isolamento sia del tutto teorica e immaginaria, lontana dall’effettiva
realtà di una qualsiasi esperienza di campo, compresa la sua.
Nelle isole Trobriand la società era organizzata in lignaggi, fortemente stratificata e
centralizzata politicamente. Lo stesso Malinowski definisce aristocratico lo status dei nativi
con cui intrattiene prevalentemente i suoi rapporti. Inoltre, stando a quanto si legge nella

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monografia, solo sposando una donna trobriandese, ossia entrando nella rete di parentela e
impegnandosi con gli altri uomini nelle attività agricole, avrebbe potuto vivere come un
trobriandese. Malinowski si stabilì all’interno del villaggio come un membro d’élite e assunse
una posizione elevata nella gerarchia sociale, servito e riverito da un certo numero di servitori.
Così collocato, era in grado di osservare e interloquire con alcuni informatori privilegiati, ma
non certo di partecipare alle loro attività. L’approccio di Malinowski ai nativi deriva dal suo
status di superiorità e asimmetria piuttosto che dal dialogo e dall’interazione. Parla
dell’interlocutore come oggetto, ma non con lui come soggetto. Come tutti gli etnografi della
sua epoca considera i suoi oggetti di studio come esemplari zoologici. Nel suo metodo
etnografico la superiorità dell’antropologo è indiscussa ed enfatizzata. Per tutta la sua vita si
riferì ai trobriandesi come selvaggi e Stone Age men, o anche attraverso l’epiteto razzista
nigger.

LA RIVOLUZIONE ETNOGRAFICA MALINOWSKIANA

Le sue pubblicazioni, insieme ai suoi corsi alla London School of Economics, fra il 1921 e il
1934, e a Yale fino alla sua prematura morte nel 1942, a soli 58 anni, formarono la generazione
dei moderni etnografi. Sotto la sua influenza l’etnografia cambiò di significato venendo a
definire ciò che è comunemente inteso con questo termine, vale a dire la prolungata attività di
lavoro sul campo condotta da un singolo ricercatore e culminante in un testo monografico.
Questo divenne il segno distintivo dell’antropologia. Nella stessa Gran Bretagna, come
sostiene Leach (1984), la nuova antropologia fu inizialmente ostacolata dalle classi dirigenti di
Oxford e Cambridge, ostili alle posizioni malinowskiane. La generazione di antropologi che
successivamente dominò la disciplina accolse con entusiasmo l’assunto che lo studio della vita
culturale e sociale delle società primitive richiedesse un periodo di intenso lavoro sul campo di
tipo individuale. A costoro si aggiunsero gli allievi di Radcliffe-Brown.
La produzione dell’antropologia anglofona, britannica e statunitense, almeno fino agli anni 70
del 900, può essere compresa come un tentativo di applicare le astrazioni teoriche di Radcliffe-
Brown alle pratiche comprensive e dettagliate del metodo malinowskiano. Le attività degli
individui non costituiscono l’oggetto di studio dell’antropologia di Radcliffe-Brown: la ricerca
si concentra, piuttosto, sulla forma della vita sociale, intesa come realtà empirica oggettiva
accessibile all’osservazione diretta, immediata e non problematica. Per questi motivi, i
contributi strettamente metodologici di Radcliffe-Brown sono poco significativi. La sua
attenzione è interamente rivolta all’esigenza di costruire una scienza della società umana a
discapito della riflessione sulla ricerca etnografica. La nuova generazione di monografisti sorta
all’ombra della London School of Economics fu molto sensibile all’influenza teorica di
Radcliffe-Brown e spostò l’attenzione dalla cultura alla struttura sociale. Emblematici, a tale
riguardo, i lavori di Evans-Pritchard sulla stregoneria fra gli azande (1937) e fra i nuer (1940),
fondati su prolungati periodi di lavoro sul campo fra interlocutori ostili e riluttanti. Tuttavia,
proprio l’accuratezza del lavoro di campo, la cospicua mole dei dati raccolti e la loro rigorosa
contestualizzazione, allontanarono progressivamente Evans-Pritchard dalle ambizioni
generalizzanti. In uno scritto del 1965, intitolato “Il metodo comparativo nell’antropologia
sociale”, critica non solo il comparativismo degli evoluzionisti e le classificazioni dei tratti
culturali basate sul principio delle variazioni concomitanti, ma anche l’approccio di Radcliffe-
Brown fondato sul concetto di continuità strutturale, secondo il quale la struttura profonda delle
società umane permarrebbe sostanzialmente invariata nel tempo, rendendo possibile, attraverso

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la comparazione di strutture sociali diverse, l’identificazione di princìpi comuni. Secondo
Evans-Pritchard, al contrario, la comparazione, pur restando necessaria, va circoscritta nelle
applicazioni e limitata nelle sue pretese esplicative, essendo funzionale non alla formulazione
di leggi, ma alla comprensione delle specificità socioculturali. Alla ricerca delle uniformità
sostituisce, come finalità dell’antropologia sociale, la spiegazione delle differenze e propone
l’adozione di un approccio di tipo storico.
Negli USA, la contaminazione tra settori disciplinari diversi era favorita dal particolare
contesto accademico di Chicago, dove sociologia e antropologia condivisero il medesimo
dipartimento sino al 1929 e protrassero un fertile scambio anche negli anni successivi. La
Scuola Ecologica di Chicago utilizzò gli strumenti metodologici dell’antropologia
malinowskiana per studiare la città, intesa come un mosaico di piccoli mondi culturali, ritenuti
chiusi e circoscritti, analogamente alle società primitive studiate dagli etnologi.
Le ricerche compiute tra il 1924 e il 1925 dai sociologi Robert e Helen Lynd sulle pratiche
religiose di una piccola cittadina americana di provincia diedero un impulso decisivo
all’avvicinamento del metodo etnografico allo studio di fenomeni culturali propri delle società
industrializzate. Gli studi nati dell’intersezione tra interessi sociologici e antropologici
indirizzarono l’attenzione verso le società complesse e, in particolare, verso le comunità
contadine dell’America Latina, sino a quel momento trascurate dalla ricerca antropologica, che
Robert Redfield definirà folk society. A testimonianza dell’importanza delle nuove
contaminazioni disciplinari, la stessa antropologia sociale britannica sviluppò negli anni ’50 e
’60 una corrente di studi sul fenomeno urbano, concentrando l’attenzione sulle città minerarie
dell’Africa Centrale. Queste analisi, riconducibili soprattutto alla Scuola di Manchester guidata
da Max Gluckman, furono influenzate in maniera predominante, sul piano teorico, dallo
struttural-funzionalismo di Radcliffe-Brown.
La convergenza fra l’antropologia britannica e statunitense sulle modalità del lavoro di campo
e sulle tecniche di ricerca si intensificò dopo il secondo conflitto mondiale, quando molti
studiosi iniziarono a condurre ricerche intensive al di fuori degli USA.
Urry ritiene che la prima etnografia americana ispirata, seppur vagamente, all’osservazione
partecipante malinowskiana fu la ricerca iniziata dalla Mead nel 1926. In realtà il suo lavoro
assunse caratteristiche piuttosto diverse da quello malinowskiano, sia per gli specifici interessi
psicologici, estranei al funzionalismo, sia per le modalità di raccolta dei dati, sia per l’ignoranza
delle lingue indigene, sia per le tecniche impiegate. Le scelte metodologiche della Mead
provocarono molte critiche da parte dei colleghi boasiani, a cui lei stessa replicò.
La psicologia e la psicoanalisi esercitarono un forte impatto sia teorico che metodologico
sull’antropologia statunitense tra le due guerre. Paul Radin, per esempio, fece largo uso delle
storie di vita (1926), una forma di intervista in cui un soggetto viene invitato a ricostruire il suo
passato individuando gli eventi più significativi rispetto al tema proposto, sotto la guida solo
blandamente direttiva del ricercatore. Bisognerà attendere le sollecitazioni critiche di Clifford
Geertz, in gran parte elaborate in contrapposizione alle prospettive malinowskiane, per
configurare un interessante e originale contributo metodologico da parte dell’antropologia
statunitense.
In Francia la riflessione metodologica fu ostacolata dalla presenza di una forte ideologia della
divisione del lavoro fra raccoglitori di dati sul campo e teorici. I francesi mirano alla
costruzione di un quadro teorico sulla base di ipotesi deduttive. Conseguentemente,
l’antropologia francese non attribuì un’analoga rilevanza alla ricerca sul campo. Le stesse
ricerche di Lévi-Strauss si fondarono su spedizioni analoghe a quelle realizzate nel secolo

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precedente, piuttosto che su una solida ricerca sul campo in senso malinowskiano. Le figure
più significative per lo sviluppo dell’etnografia come Marcel Mauss, non fecero ricerca sul
campo, o comunque non produssero una riflessione metodologica rilevante. La concezione del
“fatto sociale totale” e il conseguente approccio olistico portano Mauss a privilegiare il lavoro
di gruppo e i metodi documentari multipli condotti da una varietà di osservatori specializzati.
Il “Manuale di etnografia” (1947) di Mauss non riesce a emanciparsi dalle Notes and Queries
e dall’intensive method, da cui fu pesantemente influenzato. Mauss organizzò il suo
insegnamento di etnografia all’Institut d’Ethnologie tra il 1925 e il 1940 e formò il personale
amministrativo destinato ai territori d’oltremare alla luce della ricerca sociologica
durkheimiana. Gli stessi primi importanti lavoratori sul campo della tradizione francese,
Arnold Van Gennep e Marcel Giaule, si collocano comunque al di fuori delle linee tracciate
dal metodo malinowskiano. Da un lato, Van Gennep applicò il metodo comparativo di matrice
britannica al folklore europeo; dall’altro Griaule inizialmente tradusse la sua decisa passione
per la ricerca sul campo in una forma combinata di viaggio e di esplorazione scientifica. Primo
professore di antropologia generale in Francia, nel 1943, fu molto influente fra gli anni ’30 e
’50. Agli inizi delle sue ricerche riprodusse il metodo di Mauss, interessato a cogliere i fatti
sociali totali e le integrazioni funzionali fra parti e tutto. Il suo rapporto con Ogotemmeli,
anziano cacciatore del popolo dogon, inaugura un nuovo stile di ricerca, che riconosce
l’importanza e l’autorità degli informatori e adotta una posizione mista fra quella dell’iniziato,
del portavoce e dell’interprete che trascrive, traduce e commenta. Non riuscì a inaugurare un
indirizzo metodologico o a fondare una scuola.
In Cina, dove l’antropologia si sviluppò a stretto contatto con l’antropologia europea, il
principale promotore di tale influenza fu Fei Xiaotong. Studente della London School of
Economics, consentì il titolo di Dottore di ricerca sotto la guida di Malinowski. Fei coniuga
l’etnografia di Malinowski con lo struttural-funzionalismo di Radcliffe-Brown, che insegnò
all’università cinese nel 1935, e con l’ecologia umana di Park, che lavorò nella stessa università
nel 1932.

4. IL CIRCOLO ERMENEUTICO

UN APPROCCIO FENOMENOTECNICO

Le sollecitazioni hanno prevalentemente investito le collusioni della disciplina con l’impresa


coloniale e con l’espansionismo occidentale. Le accuse di essere child of imperialism o applied
colonialism si sono estese alla complicità in programmi governativi neocolonialisti: il progetto
Mari del Sud, il progetto Camelot, la partecipazione di antropologi alla guerra in Vietnam e in
Thailandia. Alcuni autori hanno preconizzato la fine dell’antropologia come conseguenza della
progressiva e inesorabile estinzione di un oggetto di studio identificato in società statiche e
isolate. L’American Anthropological Association ha elaborato i Principles of Professional
Responsability, segnalando l’importanza etica e politica dell’incontro etnografico. Testi come
Reinventing Anthropologiy, o quello che può esser considerato il suo corrispettivo britannico,
Anthropology & the Colonial Encounter, hanno esortato la disciplina a farsi carico dei problemi
del mondo contemporaneo, allargando gli orizzonti allo studio delle culture di potere e delle
istituzioni dominanti e a considerare le dimensioni politiche della pratica etnografica. Lo
sviluppo della cosiddetta antropologia femminista, concentrandosi sull’influenza
dell’appartenenza di genere sulle condizioni di produzione del sapere, ha portato alla ribalta le

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questioni cruciali del posizionamento del ricercatore. La consapevolezza dell’asimmetria fra i
sessi e della subordinazione femminile ha altresì prodotto la rilettura di molti classici in chiave
femminista, incluso il lavoro di Malinowski.
La pubblicazione, nel 1973, di una raccolta di saggi di Clifford Geertz dal titolo
“Interpretazione di culture” ha avuto un ruolo strategico nel processo di ridefinizione
disciplinare. Da un lato riflette sull’asimmetria che caratterizza l’incontro etnografico;
dall’altro nota come la storia stessa dell’etnografia renda difficile sostenere il “ruolo
(autocelebrativo) che lei stessa si è dato di tribuno di tali voci nel mondo contemporaneo”.
Combinando il lavoro sul campo con sofisticate riflessioni sulla disciplina, l’opera di Geertz
ha posto le basi teoriche di un’antropologia che affronta la crisi dei paradigmi totalizzanti
attraverso gli stimoli provenienti da diversi campi del sapere. Reagendo al rapporto mimetico
con le scienze naturali, si oppone allo sforzo positivistico di applicare la nozione di metodo
elaborata dalle scienze cosiddette esatte allo studio dell’uomo.
Il contributo geertziano interroga direttamente gli scienziati sociali che ostentano per le loro
discipline la conquista di un saldo fondamento empiricamente verificabile su cui erigere un
costante e progressivo sviluppo della conoscenza scientifica della società. Invita a
problematizzare i tentativi di costruire teorie generali che sussumano i particolari e la
preminenza del modello di spiegazione ipotetico-deduttivo. La critica investe, in particolare,
l’universalismo e il fondazionalismo lévi-straussiano e la ricerca da parte dell’etnoscienza di
elaborare un linguaggio descrittivo neutro. Ritiene che queste ambizioni si fondino su
concezioni e su modelli obsoleti, provenienti dagli stati iniziali della rivoluzione scientifica.
L’adozione di un modello di scientificità riduzionista e oggettivista, a cui le scienze umane
cercano di riferirsi per dare intelligibilità al comportamento umano, ha prodotto una tendenza
alla naturalizzazione e all’ipersemplificazione.
La meccanica quantistica insegna che in ogni misurazione c’è un’interazione finita tra oggetto
e strumento, il cui valoro resta indeterminato: non è possibile misurare contemporaneamente
la posizione e la velocità di una particella, né condurre esperimenti a prescindere dalle
condizioni specifiche dell’osservabilità sperimentale. Come suggerisce Heisenberg, ciò che
osserviamo non è la natura in se stessa, ma la natura esposta ai nostri metodi d’indagine. Da
questa prospettiva gli oggetti delle scienze, sia umane che naturali, non si offrono a un metodo
neutrale di osservazione e rappresentazione. Sono piuttosto costrutti artificiali, risultato di
complesse procedure di messa in forma. Ciò che conosciamo, afferma Geertz, non sono i dati,
ma i fatti. L’approccio geertziano produce, a questo livello, il cambiamento paradigmatico più
significativo, sia dal punto di vista teorico sia metodologico. Interrogando le condizioni di
produzione della conoscenza, impegna l’antropologia all’elaborazione di “un’antropologia
della conoscenza antropologica”, sottraendola alle mimesi di modelli astratti di scientificità.
Gli esperimenti in laboratorio o il lavoro sul campo sono pratiche di costruzione
dell’oggettività, in cui la presenza del soggetto determina le condizioni di costruzione
dell’oggetto. Alla base di queste concezioni costruttivistiche vi è l’idea comune che il sapere
sia prospettico. L’orizzonte è di tipo semantico: il linguaggio costruisce gli oggetti, formando
e trasformando i significati.
Geetrz richiama, a tale proposito, la nota espressione di Wittgenstein secondo cui “i limiti del
mio linguaggio determinano i limiti del mio mondo”. Secondo Cassirer, solo per mezzo dei
simboli noi scorgiamo e in essi possediamo ciò che chiamiamo realtà. La capacità simbolica è
il denominatore comune ai diversi modi di obiettivare e dar senso alla realtà. Il vedere non è
un immediato processo fisico, la formazione dell’immagine retinica, ma un’impresa carica di

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teoria. Geertz sostiene che ogni percezione consapevole sia un atto di riconoscimento, un
accoppiamento in cui un oggetto è identificato sullo sfondo di un simbolo appropriato, di un
modello sotto cui viene sussunto. Egli colloca le posizioni costruttiviste all’interno della
definizione delle scienze umane come scienze interpretative. L’attività conoscitiva diventa
un’attività formatrice, che dà senso e valore ai fenomeni anziché rappresentarli oggettivamente.
Gli oggetti del conoscere non sono enti dotati di proprietà indipendentemente dal punto di vista
di chi li conosce, ma il prodotto di una costruzione che coinvolge soggetto e oggetto. Il soggetto
conoscente, da parte sua, non è un essere neutro ma un agente linguistico e storico, vincolato a
un insieme di precomprensioni concettuali e strumentali senza le quali la comprensione non
sarebbe possibile. L’antropologo, analogamente a un letterato, inventa, costruisce i significati
del discorso sociale. Ciò che i nativi offrono all’interlocutore non sono verità culturali
essenziali: ciò che chiamiamo i nostri dati sono in realtà le nostre interpretazioni delle
interpretazioni di altri su ciò che fanno loro e i loro compatrioti.
La natura secondaria delle interpretazioni antropologiche demarca la distanza da un’idea
positivistica della conoscenza: i testi antropologici, come quelli scientifici, non sono
riproduzioni fotografiche di realtà oggettivamente esistenti, ma verità parziali, cioè di parte e
incomplete che hanno la natura dell’artificio.

IL PARTICOLARE E IL GENERALE

La concezione moderna della scienza ha orientato l’antropologia verso un approccio


nomotetico e classificatorio. La storia del pensiero antropologico mostra come la ricerca di
universali empirici o di punti invariabili di referenza sia andata non solo a discapito della
specificità dei fenomeni, omologati entro grandi classi, ma sia stata anche fonte di confusioni
e contraddizioni. Secondo Geertz la linea che divide ciò che si suppone sia naturale, universale
e costante nell’uomo e ciò che invece è convenzionale, locale e variabile è così difficile da
identificare che tracciare questo confine significa falsificare o travisare gravemente la
situazione umana. Geertz non nega la possibilità di individuare caratteristiche generali. Non
mette in discussione la possibilità di effettuare comparazioni, quanto la loro qualità. Considera,
invece, le possibilità creative che si aprono dall’affiancare paradigmi incommensurabili, forme
di vita e tradizioni diverse, senza abdicare a capire le loro specificità. L’importante non è tanto
comparare i comportamenti altrui con i nostri, come se fosse un fatto naturale, quanto trovare
analogie e metafore inaspettate. La definizione di ciò che significa uomo si rivela più
chiaramente nelle peculiarità e nelle bizzarrie, ossia nei tratti specifici di una cultura, piuttosto
che in quelli universali. Secondo Geertz possiamo cogliere la specificità dei fenomeni non nella
comparazione delle somiglianze, quanto piuttosto nel confronto delle differenze e delle
particolarità, cercando rapporti sistematici tra fenomeni diversi, piuttosto che identità
sostanziali tra quelli simili.
Il pensiero ermeneutico viene definito come un modo di dare un senso particolare a cose
particolari in luoghi particolari e la scienza è identificata dalla sua capacità di trarre
proposizioni generali da fenomeni particolari. Per questi motivi, la pratica etnografica è il luogo
di maggiore vitalità dell’analisi geertziana. I suoi apporti teorici derivano dalla pratica e
indirizzano alla pratica e all’analisi particolareggiante. Il risultato è un’antropologia nook-and-
cranny (angolo e nicchia) fondata su casi particolari. Trova nel concreto, nel particolare, nel
microscopio quelle verità generali che possono sfuggire a uno sguardo più ampio. Geertz
sollecita l’elaborazione di un pensiero sociale che riesca a comprendere la complessità della

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differenza, superando facili riduzionismi, vuoti universalismi o preoccupanti naturalizzazioni.
Il contributo dell’antropologo si realizza nel riconoscimento della natura composita della realtà
sociale e culturale, e nella considerazione della complessità prospettica e polifonica dei diversi
punti di vista. L’antropologia geertziana riconosce, nell’immensa variazione naturale delle
forme culturali, non solo la grande risorsa della disciplina, ma anche il terreno del suo dilemma
teorico più profondo. Il suo approccio cerca di produrre generalizzazioni fondandole su analisi
particolareggiate, che non annullino il particolare entro grandi classi omogenee. Per illustrare
il suo approccio, Geertz ricorre alla metodica dell’inferenza clinica: invece di sottoporre una
serie di segni significanti e cerca di collocarli entro una struttura intellegibile. Inserisce un
insieme di segni in un contesto interpretativo che possa dare loro significato. L’obiettivo
dell’antropologia consiste, dunque, nell’elaborare una nuova diagnostica, una scienza che
determini il significato delle cose per la vita che le circonda. Geertz sostituisce alla ricerca di
leggi e regolarità positive, che tolgono alle particolarità consistenza e spessore, il fitto
addensamento di fatti ben precisi a delucidazione di princìpi generali, descrizioni minuziose
che incorporano l’universale attraverso il particolare. Geertz nega la possibilità di elaborare
una definizione essenziale dei fenomeni culturali. Usa somiglianze e differenze per produrre
generalizzazioni mobili, in costante modificazione. Tali generalizzazioni sono probabilistiche,
possono presentare eccezioni o contraddizioni, oppure possono essere approssimazioni
soggette a clausole come per esempio di regola.

LO STATUTO SCIENTIFICO DEL SAPERE

L’interpretazione pone un problema di verifica e di scelta fra una molteplicità di teorie,


paradigmi e programmi di ricerca. Se la teoria è un’ipotesi che organizza i fatti in una veduta,
non si può parlare di verifica o di falsificabilità. Una teoria non può falsificarne un’altra poiché
si tratta i due organizzazioni eterogenee e incommensurabili dei dati d’osservazione. Il carattere
prospettico e costruttivo della conoscenza non contempla la possibilità di verifiche conclusive.
Propone verità parziali in luogo della verità come rapporto rappresentativo e nomologico con
il dato. Come afferma Ricoeur, la prospettiva costruttivista considera l’essere non tanto sotto
la forma positiva del dato, quanto in quella del poter essere. Il problema epistemologico è
formulato al di fuori del modello scientista dell’oggettività, quello che Geertz chiama il punto
di vista di Dio. Da questa posizione l’etnografia rappresenta un accordo temporaneo sul
significato fra l’antropologo e i suoi interlocutori in una relazione contingente e transitoria che
inevitabilmente produce una comprensione parziale e intrinsecamente contestabile. Geetrz
identifica lo scopo dell’antropologia nell’ampliamento dell’universo del discorso umano,
piuttosto che nella sua chiusura attraverso qualche concetto di verità oggettiva. Due delle
caratteristiche fondanti l’analisi culturale cono l’incompiutezza e la controvertibilità.
L’accettazione di criteri differenti da quelli fissati dalla concezione moderna della scienza non
implica necessariamente un allentamento del rigore. Riconosce, invece, che vi possano essere
modalità differenti e plurali per lo sviluppo scientifico. Siamo osservatori posizionati.
Seguendo le correnti contemporanee della filosofia postempirista, Geertz preferisce parlare di
valutazione piuttosto che di verifica, aderendo a una logica argomentativa probabilistica e di
incertezza. Come dice Gadamer, l’adeguatezza delle interpretazioni è valutata in base al testo
stesso, attraverso l’accordarsi dei particolari con il tutto. Qualora la spiegazione risulti
implausibile, non intelligibile, o poco persuasiva, non esiste una procedura di verifica a cui
riferirsi. Si può solo continuare a offrire interpretazioni. Il conflitto di interpretazioni può essere

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risolto solamente richiedendo all’interlocutore di elaborare maggiormente le proprie intuizioni
o di cambiare i propri orientamenti. Imprigionata nell’immediatezza del dettaglio, l’etnografia,
dice Geertz, non offre prove. Nelle controversie che nascono dal fronteggiarsi di paradigmi
rivali non ci sono criteri osservativi, verifiche, conferme o falsificazioni che possano risolvere
la disputa. Lo studio delle scienze dell’uomo è inseparabile dall’esame delle posizioni fra cui
gli uomini devono scegliere. Nella prospettiva di Geertz la capacità persuasiva viene a
coincidere con la funzione dell’autore, cioè con l’autorevolezza e la coerenza con cui
l’antropologo riesce ad autorizzare e articolare i suoi enunciati. La scienza assume quindi una
posizione sociologica che cambia via via che affluiscono nuove informazioni. La discontinuità
del cambiamento scientifico si realizza nell’alternanza fra periodi paradigmatici normali e
periodi di fiammate rivoluzionarie. Sottraendo la scienza al dominio della verità e la verità al
dominio del metodo, Geertz disloca la questione epistemologica nel campo dell’etica e della
politica. La natura prospettica della conoscenza e l’esclusione di verifiche esaustive portano a
considerare l’atto interpretativo come atto morale, fondato sull’assunzione di una
responsabilità di scelta fra una pluralità di paradigmi e teorie rivali. Geertz si oppone all’idea
che la verità sia depositata in qualche luogo o in un tempo definito. La trasversalità e l’obliquità
del suo approccio particolareggiante portano a sovvertire le verità codificate e
istituzionalizzate. La funzione critica della disciplina fonda il ruolo sociale e politico
dell’antropologo. L’antropologia realizza così la sua importante vocazione di coniugare,
decentrandole, le relazioni fra Sant’Uffizio, Copernico, Bruno, Galilei con le possibili forme
di vita, le variegate modalità di organizzare i gruppi sociali, trattare i bisogni, esercitare il
potere.

AL DI LA’ DI OGGETTIVITA’ E SOGGETTIVITA’

L’antropologia interpretativa si costituisce inserendo il rapporto fra interpretazione e


traduzione all’interno della dinamica del circolo ermeneutico. Tale circolarità è
fondamentalmente metodica. Il soggetto conosce il proprio oggetto a partire da sé e si
comprende come soggetto attraverso il rapporto con l’oggetto: linguaggio come luogo di
apertura del senso. Da un punto di vista etnografico il circolo ermeneutico costituisce un
importante meccanismo che costringe l’antropologo a prendere in esame e risolvere i problemi
metodologici, teorici ed etici che sorgono nel quadro dell’interazione coi propri interlocutori e
le proprie pratiche di scrittura. Il compito dell’etnografo consiste nel trovare risorse esplicative
nel proprio linguaggio senza imporre i propri pregiudizi, evitando gli errori derivati da pre-
supposizioni che non trovano conferma nell’oggetto. La comprensione consiste
nell’elaborazione e articolazione di anticipazioni che possono convalidarsi solo in rapporto alle
cose stesse. L’interpretazione implica la continua revisione delle ipotesi preliminari sulla base
del senso più immediato da essa esibito, in base a ciò che risulta dall’ulteriore penetrazione del
testo. Il metodo interpretativo invita a esercitare una continua oscillazione fra le interpretazioni.
Esige che l’antropologo ponga in relazione le proprie precomprensioni con le forme di vita che
cerca di comprendere. Induce a mettere in gioco e a riformulare i modelli teorici di partenza.
Le cose stesse vengono comprese realizzando che il loro significato le trascende e appare
attraverso il nostro intendimento. L’altro si mostra a tal punto solo in base a ciò che è nostro –
sostiene Gadamer – che l’uno e l’altro elemento non sono più nettamente distinguibili.
Secondo i principi del circolo ermeneutico, soggetto e oggetto si implicano a vicenda. Il
soggetto interpreta, all’interno del proprio orizzonte, un oggetto che ha significato nel suo

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essere colto da qualcuno. Il soggetto è riconosciuto come soggetto storico, inserito in una forma
di vita e ontologicamente fondato sulla sua cultura e sul suo sapere. Geertz si appropria della
prospettiva ermeneutica ritenendo che l’essere e la cosa, prima di ogni contrapposizione
oggettivante tra soggetto e oggetto, siano legati dall’evento storico della pre-comprensione. La
circolarità definisce la coappartenenza entro cui l’interprete è mediato con il proprio oggetto.
Le interpretazioni dell’antropologo e quelle dell’indigeno si fondono e si richiamano: le une
non possono essere comprese indipendentemente dalle altre. Interpretare significa mettere in
gioco i propri pre-concetti quali orizzonti da cui si comprende la realtà e come linguaggio con
cui si dà il senso al mondo. Se ci collochiamo nella situazione dell’altro, lo capiremo, cioè
prenderemo coscienza dell’alterità, dell’irriducibile individualità dell’altro proprio in quanto
porremo noi stessi nella sua situazione. Aprirsi all’alterità non significa né una obiettiva
neutralità, né un oblio di se stessi basato sull’oggettività del metodo “segando il ramo sul quale
sono seduto” (Wittgenstein), oppure assumendo l’illusoria posizione di un osservatore
disincantato che sfugge dai propri orizzonti. Mantenere i propri concetti al di fuori del processo
interpretativo è impossibile, ma soprattutto è un controsenso, dato che interpretare significa
proprio far entrare in gioco i propri preconcetti. Il soggetto deve dunque utilizzare il massimo
di sapere possibile per aprire il proprio mondo al maggior numero di punti di vista, utilizzando
le teorie e i modelli come gli attrezzi di una cassetta di utensili (Wittgenstein).

DAL PUNTO DI VISTA DEL NATIVO

Geertz elegge a obiettivo della propria etnografia l’analisi dei significati soggettivi che
costituiscono le azioni degli individui nel mondo sociale. Coniugando le indicazioni
dell’ermeneutica con la sociologia comprendente e la fenomenologia, Geertz si propone di
elaborare una fenomenologia scientifica della cultura fondata sull’analisi delle strutture di
significato nei termini delle quali individui e gruppi di individui vivono e, in particolare, dei
simboli e dei sistemi di simboli attraverso cui queste strutture vengono formate, comunicate,
alterate, riprodotte. Essendo il significato non intrinseco alla realtà, ma attribuito ad essa, la
spiegazione delle sue proprietà va ricercata in quello che fa colui che l’impone – negli uomini
che vivono in società. L’analisi geertziana indaga il punto di vista dell’attore collocando
l’azione in relazione alla configurazione di ideali, attitudini e valori su cui si fonda. La
“descrizione densa” consiste nella ricostruzione dei livelli di significato non espliciti delle
prospettive degli attori e della molteplicità delle complesse strutture concettuali che le
informano. Rappresenta la ricerca di un contesto entro cui eventi sociali, comportamenti,
istituzioni, processi possano essere intelligibilmente, cioè densamente descritti. Ciò richiede di
orientare l’analisi rispetto agli attori, prendendo in considerazione il loro punto di vista e di
ricostruire le stratificazioni culturali su cui fondano il senso del loro agire. Geertz espone il
significato dell’analisi etnografica densa comparando tic involontari e ammiccamenti: i primi
sono semplici gesti mentre i secondi sono esempi di comportamento significativo, ovvero
l’oggetto specifico dell’etnografia. Per l’osservatore esterno i due tipi di azione sono identici.
Solo rifacendosi alle prospettive dell’agente e inserendo l’azione nel suo contesto o nella sua
forma di vita, essa può assumere un significato. La prospettiva geertziana è sostanzialmente
linguistica e comunicativa. I fenomeni culturali, come la lingua, ricevono il loro significato dal
contesto. La lingua è un sistema in cui tutti i termini sono solidali e in cui il valore dell’uno
non risulta che dalla presenza simultanea degli altri. Comprendere non significa rifarsi alle
intenzioni dell’autore per mezzo di rapporti empatici o ripetizioni del sé, epoché, bracketing,

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identificazioni empatiche o riduzioni fenomenologiche. Non è possibile che il soggetto annulli
e metta fra parentesi il proprio essere e la propria cultura, o dimentichi il proprio sapere e la
propria soggettività. Geertz ritiene inattuabile l’immedesimazione. Da un lato anche gli
antropologi, come tutti gli esseri umani, sono ontologicamente fondati sulla loro cultura e sul
loro sapere; dall’altro, rifacendosi a una serie di autori molto eterogenei, Geertz considera il
pensiero umano fondamentalmente intersoggettivo, sociale e pubblico: un traffico di simboli
significanti. La concezione geertziana della dimensione sociale e pubblica del pensiero esclude
la possibilità di immedesimazioni empatiche. Geertz coglie le origini di questo pregiudizio nel
dualismo cartesiano e nella presunzione di poter dividere nettamente la vita umana in una parte
fisica e perciò osservabile come ogni altro processo fisico e in una parte mentale, causa della
prima, privata e inaccessibile all’osservazione. La mente altrui sarebbe nota solo attraverso
inferenze tratte dal comportamento osservato di un corpo, i cui moti sarebbero segni di certi
stati mentali per analogia con quanto sappiamo noi stessi. Non solo non è possibile ispezionare,
ma le leggi che governano le opere della mente e i loro rapporti coi movimenti del corpo sono
sconosciute. Non è possibile confermare con l’osservazione la similarità del rapporto fra i moti
di due corpi e gli atti delle rispettive menti. Le sole manifestazioni da analizzare – e le uniche
che possano essere considerate mentali – sono le azioni e le reazioni umane, ciò che l’uomo
dice, con il tono di voce o con i gesti. Sebbene per giudicare il senso di un’azione sia necessario
guardare al di là dell’azione stessa, ciò non significa andare in cerca di luoghi segreti come
duplicati nascosti nell’azione esplicita. Geertz considera la mente come l’insieme delle
disposizioni di un organismo a compiere un determinato tipo di azioni. Il mentale non è
qualcosa di nascosto, ma è pienamente osservabile ed esiste nel mondo della vita.
Il principio dell’interpretazione soggettiva si riferisce all’accesso ai fatti sociali e
all’accertamento dei dati. Geertz ha così elaborato una metodologia che chiama epistemologia
pratica, fondata sul passaggio analitico da quello che era considerato un problema di
confrontabilità fra processi psicologici di popoli diversi alla commensurabilità di strutture
concettuali tra comunità discorsive. La comprensione dell’agire consiste nel poter determinare
un riferimento ad altro. Geertz sostiene che il pensiero consista nella costruzione e
manipolazione di sistemi simbolici piuttosto che in avvenimenti fantasmatici. Il pensiero viene
così identificato con l’utilizzo di elementi radicati in contesti di comunicazione, pratiche e core
di vita intersoggettive che si trovano nell’esperienza e servono per conferirle significato:
linguaggio, arte, mito, teoria, rituale, tecnologia, diritto e quell’agglomerato di massime, ricette
pregiudizi e storie plausibili che i vanitosi chiamano senso comune. Solo in secondo luogo il
pensare è una questione privata. Geertz utilizza diverse fonti per considerare l’intersoggettività
come centro della soggettività umana e per sottolineare il radicamento dell’azione nel
linguaggio e nelle pratiche di comunicazione socialmente determinate. Sia il pensiero che il
comportamento sono espressioni di valori dominanti e i modelli di organizzazione di una
particolare comunità. Il pensiero come atto privato è una capacità derivata. Il modo in cui
impariamo a contare o a leggere mentalmente è sufficiente a dimostrarlo. Geertz invita a
comprendere il pensiero etnograficamente, descrivendo in quali modalità venga ad assumere il
suo significato. Trasforma lo studio del pensiero nello studio degli uomini che pensano.
Fondendo l’analisi culturale e sociale all’interno della semiotica, Geertz ha così reimpostato lo
studio delle intenzioni e delle idee considerandole sociologiche.
I significati di motivazioni e intenzioni, espressi simbolicamente seppur in modo vago e
sfuggente, possono essere compresi attraverso un’indagine empiria sistematica, alla stessa
stregua del peso atomico dell’idrogeno e della funzione delle ghiandole surrenali. In tal modo

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Geertz elabora una scienza empirica delle idee: “le idee non sono materiale mentale
inosservabile. Sono significati veicolati. I veicoli sono i simboli”.

DAL PUNTO DI VISTA DELL’ANTROPOLOGO

Il metodo ermeneutico si fonda su una fusione di orizzonti che produce l’innalzamento a una
universalità superiore. Tale prospettiva negoziale è inevitabilmente condotta dal punto di vista
dell’antropologo. L’approccio invita a considerare l’inevitabile differenza che distingue i
discorsi antropologici da quelli degli informatori. Geertz ritiene che le interpretazioni
antropologiche, per loro natura, siano diverse dai resoconti degli informatori. La forza
dell’interpretazione risiede ermeneuticamente nello scarto che consente all’analista di costruire
un senso che trascenda il suo autore. Come sostiene Gadamer, comprendere non è mail solo un
atto riproduttivo, ma anche un atto produttivo, quando in generali si comprende, si comprende
diversamente. Lo scopo dell’antropologia interpretativa e quello delle scienze ermeneutiche
risiede nel raggiungimento di una chiarezza ulteriore rispetto all’immediata comprensione
dell’attore, L’immersione analitica nel mondo privato degli interlocutori è scientifica in quanto
elaborata dall’antropologo e accettata alla comunità di riferimento disciplinare. Geertz articola
la relazione interpretativa attraverso la distinzione tra “concetti vicini” all’esperienza e
“concetti distanti” dall’esperienza. La dinamica del circolo ermeneutico invita a non
prescindere dal punto di vista dell’attore, ma neppure a fermarsi a esso. Solo collocandosi dal
punto di vista dell’antropologo si può cogliere antropologicamente il punto di vista dei nativi
e capire cosa loro pensano di stare facendo. L’antropologo deve utilizzare entrambi i concetti,
senza limitarsi al punto di vista del nativo e senza imporre il proprio. La forza
dell’interpretazione risiede nello scarto che consente all’analista di costruire il senso. Il punto
di vista del nativo è una prospettiva specifica, necessariamente parziale. I nativi sono interpreti
originali della loro cultura. Nel momento in cui i nativi sono assunti come informatori, la loro
voce è già redatta dalla scrittura antropologica. I dati antropologici sono articolati e complessi,
costruzioni di costruzioni, interpretazioni di interpretazioni. Gli esiti a cui l’antropologo arriva
sono molto stratificati, consistendo nella sistematizzazione e nella testualizzazione di quello
che i suoi interlocutori hanno voluto e saputo dire a partire da ciò che essi hanno capito. Geertz
afferma non solo che gli scritti antropologici sono essi stessi interpretazioni e per di più di
secondo o di terzo ordine (per definizione solo un indigeno fa quelle di prim’ordine: è la sua
cultura). Menziona, inoltre, la possibilità di lavori antropologici di quart’ordine o superiori,
basati cioè su altri lavori antropologici. La dinamica della comprensione ermeneutica emerge
chiaramente nel concetto di traduzione che Clifford Geertz identifica come modello
dell’interpretazione antropologica. La traduzione è un’interpretazione che comporta
un’irrimediabile differenza fra il discorso originario e la sua riproduzione. Tradurre è portare
nel testo una nuova luce: la traduzione, come ogni interpretazione, è una chiarificazione
enfatizzante. Chi traduce deve assumersi la responsabilità di tale enfatizzazione. L’analista
entra nel mondo del soggetto per leggere la grammatica del suo linguaggio privato, andando al
di là delle parole del paziente. La sua scientificità dipende dalla trasposizione del linguaggio
soggettivo nel linguaggio pubblico della disciplina. Tradurre non significa stare all’interno del
proprio sapere e nemmeno stare dentro all’oggetto. Significa stare nella differenza, mettendo a
confronto il linguaggio del traduttore con quello da tradurre. L’etnografo deve dare un senso a
ciò che è straniero. Deve rendere familiare l’estraneo, preservandone al tempo stesso
l’estraneità.

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La circolarità ermeneutica esige un controllo che ponga il soggetto in una prospettiva che vada
al di là della soggettività e dell’oggettività. Passando dall’osservazione partecipante
all’osservazione della partecipazione, l’etnografo pone se stesso come oggetto d’analisi e
l’osservazione di sé si affianca all’osservazione dell’oggetto, in un’esperienza che avvicina
all’autoanalisi dello psicoanalista. Il punto di vista del nativo viene quindi percepito attraverso
un vetro oscurato che è l’autore, tuttavia l’oscuramento può essere ridotto al minimo dallo
stesso controllo autoriale sulla sua stessa inclinazione e sulla sua stessa soggettività.
L’autoreferenzialità racchiusa nella nozione ermeneutica di circolarità e di storicità della
comprensione sottolinea che l’accesso all’Altro è sempre mediato dalla propria ontologia e si
fonda sulla capacità di coniugare la propria attitudine di sensibilità con le proprie competenze
analitiche e con il proprio codice sociale. Geertz insiste sulla specifica competenza
professionale ed etica dell’antropologo, sulla necessità di essere ogni volta e nello stesso tempo
un attore coinvolto e un osservatore distaccato e di articolare un sottile gioco d’interferenza fra
componenti personali e autobiografiche e componenti disciplinari della ricerca. Ciò che gli
stessi informatori raccontano nel dialogo etnografico è detto non dal centro del loro mondo,
ma dallo spazio liminale dell’incontro. I resoconti descrittivi di un particolare spazio sociale
sono costituiti da espressioni che derivano il loro senso specifico da quello stesso spazio. La
nozione di campo, nella sua valenza polisemica designante sia uno spazio geografico, sia il
luogo in cui si sviluppa l’attività dell’antropologo, sia l’oggetto della ricerca, viene a denotare
non una realtà che esista indipendentemente dalle relazioni fra antropologo e nativo, un
contenitore generico, asettico e neutrale. Piuttosto, il campo diviene essenzialmente un luogo
simbolico di costruzione di senso, ciò che determina le caratteristiche specifiche di
un’esperienza condivisa, ciò che è socialmente riconosciuto come verità sia intrinsecamente
contestuale, instabile e contraddittorio.

LA SCRITTURA ETNOGRAFICA

Geertz mette in evidenza come nella contemporaneità l’autorità dell’antropologo sia


profondamente mutata. Soprattutto, viene meno la separazione spaziale e morale fra il
ricercatore e i suoi interlocutori: gli antropologi non lavorano più in contesti in cui erano i
padroni intellettuali di tutto ciò che vedevano attorno a loro. Considerando la pratica etno-
grafica nel senso etimologico del termine, Geertz sottolinea che l’etnografia non definisce solo
una peculiare esperienza sul campo, condotta mediante prolungati periodi di permanenza a
diretto contatto con l’oggetto di studio, oppure il metodo di ricerca che combina elementi
personali e codici disciplinari. Designa, altresì, la restituzione testuale di tali prassi. La scrittura
è posta al centro dell’analisi come elemento indispensabile per organizzare l’esperienza sul
campo, ordinare gli eventi e i testi e restituirne il senso in un resoconto finale. Uno dei principali
contributi di Geertz consiste nell’aver posto il problema della trascrizione dell’azione e della
fissazione del significato al centro della riflessione antropologica. Il ricercatore inscrive il
discorso sociale, lo annota, trasformandolo da avvenimento fugace, che esiste solo nell’attimo
in cui si verifica, in un resoconto consultabile depositato negli scritti. Attraverso la scrittura,
l’antropologo decodifica una cultura codificandola per un’altra. La scrittura costituisce l’esito
conclusivo di tali negoziazioni della differenza. E’ un luogo di tensione fra il testo etnografico
e l’enciclopedia antropologica, un compromesso fra l’obiettivo di conservare la differenza e
quello di renderla comprensibile. Geertz ha inaugurato nuove pratiche di scrittura. Propone una
pratica scritturale complessa, aperta nello stile narrativo e fondata su concezioni dell’io e

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dell’altro, della cultura e dei suoi interpreti, come entità meno sicure s sullo status artificiale e
contingente di ogni descrizione. I dati antropologici sono articolati e complessi: ciò che può
essere annotato e trascritto è legato a ciò che può essere letto e assemblato in un testo. La stessa
costruzione degli appunti si fonda non tanto su ciò che può essere memorizzato, quanto su ciò
che l’autore è in grado di ricostruire in una narrazione coerente. Nella sua complessità, il
modello della circolarità ermeneutica suggerisce di esibire le negoziazioni fra i modelli
concettuali di antropologo e nativo. Considerando il lavoro sul campo come il fondamento e il
segno distintivo della disciplina, Geertz invita a non rimuovere dall’analisi questa attività, così
come la sua relazione con il processo di scrittura.
Il contributo teorico di Geertz ha segnato la svolta interpretativa nelle condizioni della
rappresentazione culturale e ha influenzato in modo rilevante il dibattito contemporaneo delle
scienze sociali. Molti colleghi hanno mostrato come, in realtà, i testi di Geertz non riescano a
realizzare i suoi stessi insegnamenti e a emanciparsi dai limiti efficacemente denunciati nella
sua pratica teorica e critica. Costruendo testi che sono costruzioni delle costruzioni di altre
persone, le sue interpretazioni sono applicate a materiali passivi, finendo per generare ciò che
Dwyer definisce come un modello contemplativo fondato su relazioni univoche fra un
osservatore, detentore del metodo e oggetti indipendenti. Differenti prospettive hanno ribadito
come l’etnografia di Geertz faccia ergere i significati ma non i soggetti: l’antropologo non è un
attore sociale che sia parte della scena, ma mantiene un ruolo attivo solamente nel momento
della scrittura. L’interdipendenza fra antropologo e nativo è sostituita dall’interdipendenza fra
l’antropologo e il suo scritto: il testo è reso autonomo e indipendente, astratto dal processo di
costruzione e dall’intertestualità nella quale si inscrive. Se nell’antropologia tradizionale il
metodo era feticizzato nella tecnica dell’osservazione partecipante, nell’etnografia geertziana
è feticizzato nella scrittura.

POETICHE E POLITICHE DELLA POSTMODERNITA’

Pensare la cultura come costruzione e come modello teorico che permette di dare senso alla
realtà, permette di considerare chi crea e chi definisce o chi manipola nella contingenza e a
quale scopo i significati culturali, attraverso quali dinamiche, investendo quali tratti e in
accordo con quali prospettive egemoniche nelle differenti contingenze. L’approccio
costruttivista geertziano invita a collocare l’analisi all’interno di complesse arene in continua
effervescenza, in cui differenti visioni del mondo, interessi e poteri si collegano, si
contrappongono e colludono. Le culture sono pensate come il prodotto di una lunga storia di
appropriazioni, resistenze, compromessi in continuo mutamento, fondata su negoziazioni,
antagonismi, incoerenze, contraddizioni. Il lavoro dell’antropologo viene così identificato nella
decostruzione delle costruzioni degli attori sociali nelle loro molteplici determinazioni ed
effetti pervasivi e nell’esame degli spazi di scambio negoziali e quindi politici nei quali la
cultura viene definita e utilizzata. Rifiutandosi di considerare la realtà come formata da unità
incorniciate, spazi sociali con bordi definiti, le posizioni postmoderne accolgono la concezione
geertziana delle culture e dei rapporti interculturali come mescolati insieme all’interno di spazi
mal definiti i cui bordi non sono fissi, ma irregolari e difficili da localizzare.
Geertz ha proposto il superamento delle concettualizzazioni del mondo basate su categorie
anacronistiche che riproducono i modelli binari semplici con cui scienza e politica hanno
pensato la differenza culturale. Notando che già la Roma di Cesare non era affatto tanto
omogenea, invita a riflettere sull’articolazione interna a ogni cultura e società.

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L’antropologia contemporanea sottrae il campo e gli interlocutori alle fondazioni nomologiche
e spaziali. Il campo viene delocalizzato e può essere ovunque: hotel, missioni, scuole, città,
navi, università…. Concependo l’oggetto scientifico come mobile, emergente,
molteplicemente situato, circostanziale e in costante flusso l’etnografia postmoderna si
concentra sugli assemblaggi e sulle combinazioni di elementi con traiettorie temporali
eterogenee e diversi contesti di origine. Superando l’identificazione del lavoro etnografico con
il viaggio e la residenza produce etnografie multilocali e multisituate, strategicamente
concepite per rappresentare la molteplicità.
Queste prospettive recuperano la dimensione comparativa dell’antropologia in quanto
connaturale a un’etnografica multisituata. L’approccio multisituato concepisce gli stessi
antropologi come attraversati da diversi mondi culturali e da appartenenze multiple. Mostra la
complessità e la dinamicità della loro esperienza in pratiche innovative, sottratte a un’unica
logica di margine e articolate in scenari complessi in cui differenti visioni del mondo, interessi
e poteri si collegano e si contrappongono. La multisituazionalità acutizza la consapevolezza
riflessiva del posizionamento e le dinamiche dell’esser presenti sul campo, ribadendo
l’illusorietà dell’imparzialità metodologica.

5. ANTROPOLOGIE DAL CORPO

IL CORPO COME STRUMENTO ETNOGRAFICO

Alcune prospettive metodologiche sorte negli ultimi anni del Novecento pongono la corporeità
al centro del metodo etnografico. In generale, recepiscono come il soggetto conoscente non sia
un osservatore onnisciente e imparziale, ma una presenza viva, individuale e idiosincratica,
compromessa e posizionata nella realtà del campo sotto il profilo cognitivo e politico.
L’esigenza di un ritorno al campo si realizza a partire dalla partecipazione corporea
dell’antropologo alla vita quotidiana dei soggetti con cui costruisce l’esperienza di ricerca. I
nuovi paradigmi valorizzano il ruolo dell’inter-agentività come perno del processo di
costruzione della conoscenza l’analisi si concentra sulla pratica e la performance. Il corpo del
ricercatore assume una valenza euristica centrale. E’ il corpo soggettivamente percepito e
vissuto, radicato nella concretezza del quotidiano. Questi approcci individuano
nell’intercorporeità una dimensione significante autonoma, da scandagliare sul piano
metodologico ed epistemologico. L’opera di mediazione da cui emerge la conoscenza viene
pensata non soltanto dal punto di vista ermeneutico, come scambio di significati, ma come
impatto fra comportamenti e vissuti, come incontro fra corpi. A partire dagli anni ’90, il
concetto di incorporazione (embodiment) ha guadagnato una posizione centrale in seno alla
riflessione antropologica. L’incorporazione rappresenta un modello teorico ed epistemologico
da cui far scaturire un nuovo modo di fare antropologia. Sulla nozione di incorporazione si
fonda la possibilità di un’antropologia dal corpo quale complemento e integrazione
dell’antropologia del corpo già presente nella tradizione. Il momento fondativo è considerato
il breve saggio pionieristico di Marcel Mauss sulle “tecniche del corpo” (1936). In questi
approcci la nozione di incorporazione indica i processi di plasmazione sociale e politica della
corporeità. Se ogni cultura piò esser vista come uno specifico progetto di umanità,
l’antropopoiesi si manifesta in primis a livello somatico, come somatopoiesi. La cultura
inscrive cioè sul corpo, modellandone i tratti, i gesti e i comportamenti, la sua definizione
dell’essere umano. Il corpo diventa il simbolo incarnato della società. L’antropologia del corpo

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presuppone e riproduce l’etno-psico-fisiologia dell’occidente moderno, ovvero la visione
cartesiana dell’uomo come mente pensante innestata su un meccanismo corporeo. L’interesse
teoretico è spostato dal dualismo mente/corpo alla correlazione originaria fra corpo e mondo.
Il corpo si riappropria della soggettività e della costruzione attiva del senso, ricomponendo la
frattura tra l’esperienza corporea e la sua rappresentazione: un’antropologia dal corpo. L’uomo
esiste come corpo: ciascuno è il corpo che ha. Come spiega Csordas, l’incorporazione è una
condizione esistenziale in cui il corpo è la fonte soggettiva e il terreno intersoggettivo
dell’esperienza. Non solo i corpi sono plasmati culturalmente, ma a loro volta producono
significati ed esperienze. Il corpo diviene il fondamento della cultura e dell’azione sociale.
Consolida l’apertura della ricerca antropologica verso nuovi scenari, che vedono i corpi come
protagonisti: dagli sviluppi delle biotecnologie alla mercificazione dei fluidi e degli organi
corporei, dalle pratiche di modificazione somatica alle questioni identitarie sollevate dal
trattamento politico dei corpi dei migranti e dei rifugiati. Non a caso un contributo determinante
nel profilare questo nuovo significato dell’incorporazione è derivato dall’antropologia medica.
Esaminata attraverso il costrutto euristico dei tre corpi (corpo individuale, corpo sociale e corpo
politico), la malattia non è più uno scontro sfortunato con la natura, o qualcosa che
semplicemente capita all’individuo. Piuttosto è qualcosa che gli esseri umani fanno in modi
originali e creativi. La malattia è una forma di prassi del corpo di azione corporea. La
tradizionale antropologia del corpo non è in grado di cogliere l’aspetto propriamente agentivo
della corporeità. Ha ereditato dalla filosofia occidentale moderna un’idea di corpo interamente
consegnata alla natura. Il corpo è ridotto a oggetto di plasmazione socioculturale, o inerte
materia organica. Per questo il più autorevole teorico dell’incorporazione, Thomas Csordas,
insiste a rimarcare la differenza tra corpo e incorporazione. La definizione dell’incorporazione
come terreno metodologico indeterminato, definito dall’esperienza percettiva e dalle forme di
presenza e di impegno nel mondo inscrive immediatamente la corporeità nel registro della
soggettivazione. Il corpo diventa strumento metodologico, ossia soggetto e non solo oggetto di
ricerca: in quanto condizione esistenziale dell’uomo, l’incorporazione riguarda anche il
ricercatore.
Conoscere dal corpo vuol dire posizionarsi criticamente di fronte ai paradigmi classici della
teoria della conoscenza. La corporeità del ricercatore colloca inevitabilmente l’osservatore
nell’osservazione, soprattutto al livello basico della sua presenzialità fisica. La circolazione dei
significati quale condizione di conoscenza è attivata da una intenzionalità corporea prima
ancora che conoscitiva.
Nello stesso tempo, la biografia del ricercatore, la storia personale che egli porta incisa sul
proprio corso – l’età il genere, la conformazione, la mimica – rappresentano selettori originari
e invalicabili che condizionano le ricerche e ne orientano le direzioni analitiche. La costruzione
di un’antropologia dal corpo acquisisce, quindi, un senso specificamente etnografico. Passando
dall’incorporazione come oggetto di analisi all’incorporazione come metodo di ricerca, si
studia la cultura non solo a partire dai corpi che la fanno, ma anche dal corpo che si è.
L’incontro con l’altro è anche un confronto di corpi. Il corpo, con le emozioni che incarna,
spinge l’osservazione a farsi metaosservazione, condotta nella consapevolezza di essere
controsservati. Si qualifica come metodologia alternativa non solo alla classica osservazione
partecipante, ma anche all’osservazione ermeneutica e allo sperimentalismo scritturale
postmoderno. Si avvicina, piuttosto, alle suggestioni emerse dall’antropologia esperienziale di
Victor Turner che, nel valorizzare la partecipazione del ricercatore al contesto di ricerca, è più
sensibile alla dimensione performativa della comunicazione. L’etnografia di Geertz non

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prevede la valorizzazione della partecipazione in quanto esperienza. L’antropologia si focalizza
sulle pratiche, le pragmatiche e le performance. Il coinvolgimento diretto del ricercatore si
oppone esplicitamente all’ermeneutica del comportamento geertziana, che descrive le azioni di
qualcun altro come se stesse assistendo a uno spettacolo. Ritiene, invece, che non si possa
capire senza partecipare, senza sapere cosa si prova nel fare una certa esperienza. Nel
partecipare insieme agli interlocutori, nel farsi coinvolgere nelle loro attività sociali,
l’etnografo è costretto ad aprirsi a dimensioni esistenziali diverse da quelle che gli sono più
familiari, sospendendo per quanto è possibile i propri condizionamenti culturali e le proprie
idee su ciò che è reale e razionale. Proprio tale vulnerabilità lo rende permeabile alla
comprensione delle prospettive etiche ed epistemologiche altrui. “Fallo e guarda se funziona”.
L’esperienza diretta è fonte di conoscenza in quanto impegna innanzitutto la dimensione
sensoriale e pratica. La condivisione dell’esperienza non avviene in primo luogo nel
linguaggio, ma nell’azione. Non basta essere là, bisogna agire con. La riflessività come forma
di scrittura è giudicata insufficiente, comunque sbilanciata sull’antropologo, sulle modalità di
interazione e di apprendimento a lui culturalmente più congeniali, ma che non necessariamente
corrispondono a quelle dei suoi interlocutori. La stessa pratica etnografica viene a profilarsi
come una forma di apprendistato corporeo.

INCORPORAZIONE. FENOMENOLOGIA E TEORIA DELLA PRATICA

Varie forme di antropologia dal corpo basate sulla nozione di incorporazione: la


fenomenologia culturale di Thomas Csordas, l’antropologia cognitiva di ispirazione
connessionista, l’antropologia ecologica di Tim Ingold, l’antropologia delle cosiddette
esperienze straordinarie. Alla base di queste proposte vi è l’integrazione programmatica di due
principali teorie del corpo: “Fenomenologia della percezione” (1945) di Merleau-Ponty e il
lavoro di Bordieu (1972) riguardo la teoria della pratica e il concetto di “habitus”. Merleau-
Ponty assegna alla corporeità un ruolo preponderante nel fenomeno percettivo. Il corpo precede
la differenziazione tra il soggetto e l’oggetto e non si lascia categorizzare nei termini di un
dualismo. Il percepire concreto non è un’attività contemplativa, ma operativa. Nella “sindrome
dell’arto fantasma”, Merleau-Ponty ci racconta come l’individuo mutilato trattiene per un certo
tempo nel suo immaginario la sensazione fisica della presenza dell’arto mancante. In quanto
veicolo del nostro essere al mondo, il corpo è altra cosa dal meccanismo senza interiorità cui
l’ha ridotto la rappresentazione obiettivante della scienza. Il corpo non è un oggetto tra oggetti,
bensì la condizione in virtù della quale possiamo avere degli oggetti, ossia possiamo costruire
una struttura oggettuale della realtà. Bordieu, in particolare, utilizza la nozione di habitus,
centrale nel pensiero del socioantropologo francese. Coniugando il significato originario del
termine habitus, risalente alla scolastica medioevale, con la nozione marxiana di prassi,
Bordieu qualifica la centralità del corpo nel fondare la vita sociale attraverso il duplice processo
di interiorizzazione dell’esteriorità e di esteriorizzazione dell’interiorità. Da questo punto di
vista il processo di socializzazione assume un carattere eminentemente pratico.
Le azioni individuali sono legate in modo intrinseco e non opzionale alle più ampie pratiche
culturali che gli attori sociali apprendono all’interno delle loro comunità di riferimento. Il
sapere sociale si sedimenta nel corpo e dal corpo emerge nel guidare le nostre azioni nel mondo.
Si potrebbe dire che il corpo proprio della tradizione fenomenologica viene socialmente
appropriato, nel senso che viene costruito e insieme vissuto attraverso il filtro di una ragione
pratica collettiva. Gli habitus non sono strutture chiuse e statiche, ma costrutti aperti, plastici e

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flessibili. Attraverso l’habitus Bourdieu esprime l’idea che i comportamenti abituali, pur
essendo il frutto di modalità ricevute, sono strumenti attivi di continua rimodulazione delle
pratiche sociali. L’habitus opera a livello irriflessivo, inconscio: è quell’agire senza pensarci
che risuona nell’abitudine.
Con straordinario acume Marcel Mauss, a proposito delle “tecniche del corpo” (1936), coglie
questo aspetto: in quanto costrutto artificiale e poietico, non puramente biologico, il corpo si
appropria così intimamente dei saperi pratici che presiedono alla sua costruzione
socioculturale, da giungere a naturalizzarli. Vive, cioè, i gesti, le mimiche e i comportamenti
attinti dall’esperienza sociale come fossero ovvi e spontanei. L’educazione primaria è di fatto
l’apprendistato, per lo più implicito e tacito, di una hexis corporea, cioè di uno stile, di un modo
particolare di portare il corpo. Si tratta di una pedagogia implicita in cui l’incorporazione è la
manifestazione più visibile e insieme meglio nascosta, perché più naturale, della sottomissione
all’ordine stabilito.
Bourdieu è stato accusato di trattare il corpo come un ricettacolo passivo di iscrizione culturale.
Una prospettiva corrispondente all’antropologia del corpo così come è stata definita da
Cscordas. Secondo tale interpretazione, l’incorporazione sarebbe per Bourdieu la semplice
somatizzazione della cultura, e non la capacità soggettiva di assumere, attraverso il corpo, una
posizione attiva, eventualmente critica, nei confronti della cultura medesima. Bourdieu ha
comunque costituito un riferimento fondamentale per un ripensamento teorico e metodologico
della disciplina a partire dalla centralità della dimensione corporea.

RIFLETTIVITA’ E FORME SOMATICHE DI ATTENZIONE

Per Csordas la dimensione esperienziale del vissuto e il sapere proprio del corpo così come il
livello preriflessivo degli habitus, divengono il centro dell’analisi culturale. L’assunzione di
fondo fa del corpo non un oggetto da studiare in relazione alla cultura, ma il soggetto della
cultura. Il paradigma dell’incorporazione propone di capovolgere la prospettiva, affermando
che la cultura e la storia, oltre a essere il prodotto di idee, simboli e condizioni materiali,
possono essere intese come processi corporei. Il corpo che Csordas colloca a fondamento
esistenziale della cultura non è un corpo isolato, sganciato dal suo contesto vitale. Si tratta,
bensì, del corpo socialmente informato della teoria della pratica, inconsciamente predisposto
alla concertazione collettiva dell’agire. Csordas denomina la sua prospettiva “fenomenologia
culturale”.
L’antropologia dal corpo produce una riconcettualizzazione dell’idea stessa di cultura,
spostando l’attenzione dai prodotti culturalmente reificati ai processi esperienziali della loro
produzione. La cultura è così delineata come il prodotto di ciò che gli esseri umani fanno
intersoggettivamente attraverso l’esperienza intercorporea, ciascuno articolando in modo
personale e indeterminato i repertori incorporati condivisi con cui vengono plasmate la realtà
e la sua esperienza. Secondo Csordas la metafora testuale introdotta da Ricoeur e interpretata
in senso semiotico e logocentrico da Geertz ha ridotto l’esperienza al linguaggio. Ogni aspetto
della cultura, anche il corpo, diventa un sistema di simboli da leggere, interpretare e trascrivere.
Il metodo fenomenologico è lo strumento prescelto, non per sostituire, quanto per integrare
l’approccio semiotico.
Il paradigma dell’incorporazione invita a interrogarsi sul carattere corporeo della cultura, sul
radicamento dei processi culturali nell’esperienza vissuta intercorporea. Il corpo vissuto non è
un oggetto analitico, ma un punto di partenza metodologico. Invita ad affinare la percezione su

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un insieme di attitudini corporee (la postura, il portamento, la corporatura) che restituiscono
l’immediatezza incorporata del vissuto e la dimensione esperienziale intercorporea più
efficacemente delle descrizioni verbali e dei significati già costituiti. L’aspetto
metodologicamente innovativo risiede nell’indicazione programmatica secondo la quale, per
costruire una fenomenologia culturale, non è sufficiente occuparsi del corpo, ma bisogna anche
occuparsene con il corpo. L’intuizione di Mauss per cui il corpo è il primo e più naturale
strumento dell’uomo, viene radicalizzata in senso etnografico. Si tratta di introdurre il corpo
nel metodo. Questi presupposti permettono di considerare il ricercatore non come colui che
descrive un sistema di simboli, ma come uno spettatore incorporato, implicato nella realtà che
indaga e a cui, in questo modo, partecipa. Attraverso un’attitudine metodologica che Csordas
denomina “riflettività”, il ricercatore dirige l’attenzione analitica verso il proprio corpo
impegnato nell’esperienza di ricerca e lo utilizza per accedere all’essere-nel-mondo degli altri.
Per Csordas testualità e incorporazione non sono mutuamente esclusive, bensì complementari.
Per dare consistenza alla sua proposta metodologica e illustrare operativamente come si
costruisca un’antropologia dal corpo, propone la nozione di “forme somatiche di attenzione”.
Valorizza la connotazione intenzionale dell’atto di attenzione, qualificandolo come un
rivolgersi consapevolmente verso un oggetto che va ben oltre il semplice impegno sensoriale
proprio della definizione psicologica di attenzione. L’attenzione, dunque, ha un ruolo
fondamentale nella costituzione della soggettività e dell’intersoggettività in quanto fenomeni
corporei. Riguarda sia l’impegno dei sensi sia l’oggetto, e quindi definisce
contemporaneamente un essere presenti al corpo (la sensazione puntualmente intesa) e un
essere presenti con il corpo nel mondo. Prestare attenzione a una sensazione corporea non è
prestare attenzione al corpo come oggetto isolato, ma alla situazione del corpo immerso
nell’ambiente intersoggettivo che genera quella sensazione. Le forme somatiche di attenzione
non sono né fenomeni arbitrari, né biologicamente determinati, bensì culturalmente costruiti.
Diversamente dalla tradizione occidentale che associa il processo immaginativo alla vista e
comunque a un’attività mentale, Csordas ritiene che possa invece coinvolgere tutte le modalità
sensoriali, o anche più di una contemporaneamente. Denomina come intuitive, affettive,
motorie o oniriche le immagini di alcuni guaritori carismatici. Forme somatiche di attenzione
sono identificate in differenti pratiche di guarigione.
Il processo interpretativo è sempre biunivoco, per cui l’osservatore è sempre anche osservato
e chi è osservato anche osserva.

PARTECIPAZIONE E ACQUISIZIONE CORPOREA DEGLI SCHEMI CULTURALI

Il connessionismo, un modello esplicativo della cognizione umana nato intorno alla metà degli
anni ’80, ha ispirato l’approccio cognitivo-culturale. L’attrattiva esercitata dal connessionismo
sugli antropologi deriva da una spiegazione dei processi mentali alternativa al modello classico
dell’intelligenza artificiale, talvolta denominato modello computazionale della mente. Il
connessionismo pensa che la conoscenza non sia costituita da una serie di proposizioni
depositate in forma di regole in una memoria centrale. Piuttosto ritiene che derivi dalle
connessioni di una rete estesamente distribuita fra tante piccole unità di elaborazione che
lavorano come neuroni. I concetti classificatori con cui impariamo fin da piccoli a ordinare la
realtà e a muoverci nel nostro ambiente si costituiscono nella forma di una rete debole implicita
ed estremamente diffusa di strutture pratiche/teoriche, denominate schemi. Grazie ad essi gli
uomini possono identificare gli eventi del presente e produrre associazioni con esperienze

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passate o in vista di aspettative future: categorizzazione del reale sulla base di prototipi.
Rispetto alla freddezza del modello computazionale classico, le teorie connessioniste
riconoscono un ruolo importante alle emozioni e alle motivazioni nella costruzione dei reticoli.
Gli schemi permettono di rispondere a situazioni nuove o ambigue riempiendo di nuovi dettagli
concreti le aree vuote o poco definite della rete. Allo stesso modo degli habitus di Bourdieu,
funzionano come improvvisazioni regolate. Non essendo gli schemi predeterminati
geneticamente, ma strutture che si formano nell’interazione con l’ambiente, la cultura gioca un
ruolo fondamentale nel costruirli. Anche la cultura è formata da schemi. Anzi, può essere
definita come un insieme complesso di schemi parzialmente condivisi. L’antropologia
cognitiva di ispirazione connessionista elabora una teoria della cognizione e
dell’apprendimento che riconosce un’importanza basilare all’esperienza fatta con il corpo.
Ritiene anzi che il corpo sia dato prima della cultura, esercitano un ruolo fondamentale sulla
genesi dei concetti. I meccanismi fondamentali della cognizione umana sono universali in
quanto corporei. La mente è così radicata basilarmente nel corpo. Lakoff parla a tale proposito
di “mente incarnata” in opposizione al dualismo e all’immaterialismo delle teorie della mente
tradizionali. Nell’ottica connessionista, il “corpo proprio” è un insieme di caratteristiche
bioecologiche condivise da tutti gli esseri umani, cioè un organismo e non il corpo vissuto
quale espressione originaria e compiuta del nostro essere nel mondo. Il corpo qualifica la
matrice sensibile, percettiva e motoria dell’esperienza a partire dalla quale si attua il processo
mentale di elaborazione della conoscenza. Nell’antropologia connessionista, osserva Csordas,
il corpo resta una fonte “oggettiva” di conoscenza. L’elemento propriamente soggettivo viene
ascritto all’esperienza fatta con il corpo. Si vengono a creare veri e propri schemi culturali. E’
sufficiente considerare come gli individui che provengono dallo stesso ambiente sociale
abbiano un’alta probabilità di avere esperienze simili. Essendo esposti con maggior frequenza
a certi insiemi di input, creeranno a livello neurochimico delle strutture associative più forti,
soggette più di altre all’elaborazione cognitiva. La condivisione di una rete, data la sua
intrinseca flessibilità, è peraltro sempre fluida, parziale e variabile. Poiché abbiamo corpi
simili, soggetti a vincoli comuni, che forniscono esperienze simili, le culture non possono
essere così differenti da essere incommensurabili. Nel contempo, il radicamento corporeo-
esperienziale del significato e della conoscenza non costituisce un vincolo oggettivo e
omologante: gli schemi sono costrutti flessibili e aperti che si sviluppano per via analogica.
L’ipotesi di fondo del connessionismo è che la cognizione umana non sia organizzata come un
linguaggio. Gli schemi culturali non si acquisiscono attraverso generalizzazioni esplicite, ma
attraverso esperienze e partecipazioni ripetute. La trasmissione del sapere quotidiano ha in
prevalenza un carattere implicito e informale, attuandosi per osservazione, mimesi, tentativi ed
errori. Per questo la teoria degli schemi viene accostata alla teoria della pratica e lo stesso
Bourdieu viene definito come un protoconnessionista.
Formulato in termini connessionisti, lo scopo dell’etnografia è quello di estendere gli schemi
cognitivi del ricercatore affinchè prenda familiarità con quelli altrui. L’implicazione corporea
dello studioso sul campo diventa così un prerequisito fondamentale per la costruzione della
conoscenza. Le neuroscienze spiegano l’intersoggettività attraverso il ricorso a un processo
neurocognitivo denominato risonanza. E’ il medesimo processo che rende possibile la nostra
conoscenza/esperienza del mondo. Una conoscenza che diciamo nuova è sempre in parte già
nota se non avessimo uno schema interpretativo già attivato, non saremmo in grado di
riconoscerla come tale. Rispetto agli altri scienziati cognitivi, Bloch ritiene che gli antropologi
siano avvantaggiati grazie alla pratica dell’osservazione partecipante. Questo metodo di

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produzione dei dati si distingue dagli altri proprio per la sua naturalezza, sia rispetto alla
situazione in cui si esercita, sia per le risorse cognitive che mette in atto.
“Impregnazione” è un termine utilizzato per definire una determinata modalità di acquisizione
della conoscenza: essa richiede una frequentazione prolungata, un’interazione continuata e, in
generale, quella grande disponibilità di tempo che il connessionismo associa alla gradualità del
processo di costruzione di reti neurali. Per questo motivo sostiene che la ricerca sul campo sia
una procedura poco formalizzabile, una faccenda di apprendimento pratico in cui chi apprende
impara innanzitutto facendo. L’antropologa norvegese Unni Wikan introduce la nozione
balinese di keneh (risonanza), allo scopo esplicito di andare oltre le parole, per creare con i suoi
interlocutori una forma di feeling-pensiero che renda viva la conoscenza dell’altro. La
comprensione non avviene, a suo avviso, nello scambio dialettico tra concetti vicini e lontani
dall’esperienza, come per Geertz, quanto piuttosto nell’occuparsi degli aspetti mutevoli
dell’essere nel mono e dell’agire sul mondo dai quali unicamente i concetti prendono vita.
L’antropologa sottolinea che la risonanza è un concetto terra-terra, radicato nell’azione pratica.
Ribadisce che non si tratta di una conoscenza di tipo intellettuale: condividere un mondo con
gli altri significa imparare a occuparsene nello stesso modo.
Gli antropologi che si riconoscono nella teoria connessionista della cultura convergono sulla
marginalizzazione della scrittura come perno epistemologico della comprensione e restituzione
di un universo culturale distante. Evidenziano come gli antropologi non imparino soltanto da
ciò che è dicibile o trascrivibile. L’impregnazione passa attraverso tutti i sensi, il movimento,
il corpo e l’intero essere del ricercatore, in una pratica totale, che è poi la sola a dare un senso
al materiale annotato.

INCORPORAZIONE ECOLOGICA ED ETNOGRAFIA DELL’ABITARE

La proposta di Tim Ingold realizza un programma di ricerca etno-antropologica fondato


sull’analisi delle dinamiche complesse fra uomo e ambiente. La prospettiva che Ingold
definisce ecologica è declinata in una teoria della conoscenza, dello sviluppo e
dell’apprendimento. Anche in questo caso la corporeità del ricercatore viene posta al centro del
metodo etnografico. Ingold smentisce, in particolare, la segmentazione degli esseri umani in
una parte geneticamente programmata e in una parte forgiata dalle norme e dai valori trasmessi
dalla cultura. La nuova ecologia da lui prospettata rappresenta un modo completamente nuovo
di pensare gli organismi e le loro relazioni con i loro contesti ambientali ed è vista come una
logica, una modalità di pensiero basata sulla relazione anziché sulla separazione. Ingold fonda,
in questo modo, il rinnovamento dell’antropologia sulla sinergia fra tre ambiti disciplinari:
biologia, psicologia e filosofia. Contesta la “tesi della complementarietà” ossia la visione
dell’essere umano come accostamento di parti separate (corpo, mente e cultura).
L’antropologia simbolica di ispirazione cognitiva o interpretativa, concepisce la cultura come
un modello, un insieme di regole, rappresentazioni o tratti che vengono trasmessi di
generazione in generazione indipendentemente dalle situazioni della loro applicazione pratica
e concreta. L’unica differenza risiederebbe nel modo di concepire la costruzione del significato:
mentre per l’antropologia cognitiva il dominio dei simboli culturali è psicologico e privato, per
l’antropologia interpretativa è sociale e pubblico. Secondo Ingold le teorie che intendono la
socializzazione come un processo di trasformazione del bambino da un essere puramente
biologico in uno portatore di cultura trascurano l’evidenza fondamentale che gli esseri umani
crescono all’interno di un contesto, in un ambiente caratterizzato dalla presenza e dalle attività

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degli altri. Un bambino non impara genericamente a camminare. Lo fa nel modo approvato
dalla sua società. Il ruolo del contesto nel processo di sviluppo è considerato da Ingold alla luce
di un costrutto che le teorie sistemiche e costruttiviste denominano “accoppiamento
strutturale”. Organismo e ambiente non sono due domini indipendenti e mutualmente esclusivi,
ma una coppia inseparabile, in cui interno ed esterno, soggetto e oggetto co-evolvono in un
campo totale di relazioni. Ingold assume il senso etimologico del termine ecologia (dal greco
oikos = casa) e la conseguente idea di familiarità, intimità e appartenenza che esso veicola. In
tal senso si oppone al concetto di ambiente, designante un dominio neutro, esterno,
genericamente non umano (la natura), o comunque separato dall’individuo (la società).
Nell’organismo c’è l’intera storia delle sue relazioni ambientali. Definita la persona come il
soggetto conscio delle relazioni sociali, Ingold coglie nella coscienza e nell’agire intenzionale
le differenze specifiche dell’essere umano. Ogni neonato viene al mondo già situato in un
campo di relazioni sociali e diventa persona grazie alla introflessione di quelle relazioni nelle
strutture della coscienza. Da questo processo emerge come un agente autonomo dotato di una
sua propria identità. Ingold impugna la tradizione fenomenologia, che fa del corpo vissuto e
immerso nel mondo la condizione originaria dell’attività riflessiva e cosciente: solo in quanto
abitano già nel mondo, le persone possono pensare i pensieri che pensano. Vedere il corpo
come un semplice veicolo di significazione socioculturale, un contenitore da riempire o una
superficie da inscrivere, non solo rende il corpo passivo e inerte. Soprattutto riduce i movimenti
e i gesti a puri segni che rimandano l’attenzione altrove, a un dominio di attitudini, credenze e
stati mentali. Per Ingold, invece, il corpo è il soggetto della cultura, il suo fondamento
esistenziale, non cognitivo. Per Ingold corpo vuol dire organismo. Questa identificazione, che
Csordas riterrebbe riduttiva, viene invece assunta per inglobare anche il concetto di mente.
Il consolidamento dell’approccio fenomenologico può attuarsi solo riconoscendo che il corpo
fenomenologico – il corpo soggettivamente vissuto e percepito – non è altro che l’organismo
vivente e che il processo di incorporazione è una sola e medesima cosa con lo sviluppo
dell’organismo nel suo ambiente. La sola teoria psicologica veramente alternativa al
comportamentismo, secondo Ingold, è la teoria della percezione diretta. Diventano quindi
importanti per l’organismo le “potenzialità di utilizzo”, ovvero le affordances. Questa nozione
intende significare l’insieme delle relazioni pratico-operative intrattenute dagli organismi
viventi con il loro ambiente. Per esempio, una via fornisce a chi cammina un’affordance di
locomozione; un ostacolo è un oggetto nell’ordine di grandezza del percipiente che dà
affordances di collisione. Da un lato, l’affordance è una proprietà dell’ambiente: non cambia
al mutare dei fini, dei bisogni e delle abilità percettive del percipiente e, in questo senso, è
oggettiva; da un altro, sussiste allo stato potenziale, essendo la sua utilizzabilità a renderla
significativa per il soggetto interessato a percepirla (e in questo senso è soggettiva). Per
esempio, una superficie può offrire un’affordance di sostegno a un uomo, ma non a un elefante.
Il significato è legato all’implicazione pratica degli organismi con il mondo, non il risultato di
un processo interpretativo. Essendo il sapere della percezione diretta di tipo pratico, al corpo
viene assegnato un ruolo di primo piano nella conoscenza. Così come la cognizione non è
prerogativa della mente, il corpo non è una semplice fonte di sensazioni. La conoscenza emerge
dall’intero organismo-persona, indivisibilmente corpo e mente, attivamente coinvolto nei
compiti pratici della vita e alle prese con le componenti rilevanti del suo ambiente. Ingold
ritiene che un individuo impari a percepire nei modi appropriati alla sua cultura attraverso il
coinvolgimento concreto nell’esecuzione di compiti quotidiani, il cui esito positivo richiede la
capacità di rilevare e rispondere in modo fluido agli aspetti salienti dell’ambiente.

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L’apprendimento è diretto e mediato nello stesso tempo. Far vedere qualcosa a qualcuno
significa impegnarlo attivamente in prima persona in un processo di sintonizzazione sensoriale,
percettiva ed emotiva al compito da svolgere. Non ha nulla a che fare con la replica di una
formula fissa o l’esecuzione meccanica di un programma motorio. L’apprendimento va
considerato come una forma di educazione dell’attenzione. Per questo Ingold afferma che, in
verità, nulla viene davvero trasmesso e che il processo di apprendimento potrebbe meglio
definirsi come una riscoperta guidata. Attraverso la pratica e l’esercizio, le abilità incorporate
con-formano, a loro volta, l’intero organismo-persona, annidandosi nella sua costituzione, nella
sua neurologia, muscolatura e anatomia. Nell’antropologia ecologica il concetto di abilità
diventa lo snodo di connessione tra l’organico e il sociale, il motivo per cui tutte quelle abilità
particolari, che classicamente attribuiamo alla cultura (camminare in un certo modo, parlare
una certa lingua, sedere o accovacciarsi) sono per Ingold essenzialmente biologiche. Si
potrebbe dire che le abilità costruiscono tanto il corpo quanto la cultura, incarnandola nel senso
in cui Csordas diceva che il corpo fa cultura. Non si acquisisce un’abilità seguendo un manuale
di istruzioni, ma impegnandosi effettivamente nel procedimento, cioè facendo. Radicare il
sapere nel fare significa qualificare come imprescindibile la dimensione intersoggettiva
dell’apprendimento. L’osservazione e l’imitazione di una pratica non possono per definizione
attuarsi in isolamento. La stessa idea di riscoperta guidata presuppone l’interazione con gli altri.
Mediante un apprendistato culturale si diventa uomini e donne. Non si apprende perché lo si
vuole, o per appropriarsi di certi contenuti, ma per appartenere a una comunità e diventarne un
membro competente. Apprendere un’abilità è costruirsi un’identità. La cosiddetta variabilità
culturale consiste allora, di fatto, in una differenza di abilità. Per comprendere le pratiche altrui,
il ricercatore dovrà abitarle a sua volta. In antropologia la proposta di un’epistemologia
ecologica dà luogo a una pratica ecologica della ricerca etnografica e, si potrebbe dire, a
un’etnografia dell’abitare. I metodi classici per la raccolta delle informazioni appaiono
fortemente sbilanciati sul fronte idealistico-linguistico. All’opposto, laddove le differenze
culturali siano intese come differenze di abilità, il luogo della comprensione non sarà
l’intelletto, ma il corpo abile. Per definire il punto di vista del nativo, Ingold conia il neologismo
taskscape (orizzonte di compiti). Prodotto dalla fusione tra le nozioni di paesaggio (landscape)
e di pratica. Il lavoro etnografico viene a coincidere con l’esplorazione delle specifiche
tipologie di relazione pratico-operativa che un gruppo di esseri umani intrattiene con
l’ambiente. La posizione del ricercatore diventa equiparabile a quella di un bambino, o un
novizio sottoposto a un apprendistato per acquisire una competenza. L’addestramento
sensoriale, percettivo, pratico e sociale è costitutivamente mediato dall’interazione con altri.
Per comprendere il mondo di un pastore di renne è necessario imparare a vedere/agire come
lui, a sintonizzarsi sulle medesime affordances, a estrarre dall’ambiente gli stessi significati.
La comprensione antropologica si realizza dunque nella pratica. Conseguito mediante un
processo di enskilment, il sapere acquisito sul campo è un sapere del corpo, o meglio un sapere
incorporato, appreso e trasmesso prevalentemente in modo implicito e informale.
L’apprendimento di un’abilità è un processo di socializzazione: da un lato presuppone
l’interazione, dall’altro produce a sua volta una sensazione di appartenenza. Il coinvolgimento
pratico e la condivisione dell’esperienza favoriscono la creazione di un legame emotivo che
detiene un preciso valore epistemologico. Si impara per appartenere più che per conoscere, ma
per appartenere si impara. Comprendere una regola non vuol dire avere un’intuizione di tipo
teoretico, ma applicarla senza bisogno di rifletterci sopra.

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LE ESPERIENZE STRAORDINARIE

Fra queste, l’antropologia dell’esperienza straordinaria orienta il campo epistemologico e


metodologico in direzione della comprensione e dell’analisi scientifica di particolari esperienze
etnografiche: i sogni, le visioni, le premonizioni e le percezioni anomale narrati dagli
informatori o vissuti direttamente dagli antropologi durante la ricerca. Consolidatosi all’interno
dell’antropologia nordamericana tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90, l’experiential
approach invita ad analizzare le esperienze straordinarie e a includerle nelle restituzioni
testuali. Il corpo attivo e aperto al mondo attraverso l’interazione con gli altri letteralmente
incorpora pensieri e idee. Il coinvolgimento partecipativo del performer e il conseguente
abbandono della postura distanziante dell’osservatore sono processi corporei. Questo impegno
è trasformativo perché il corpo vissuto, come notava Csordas, è un soggetto di esperienza. Il
cosiddetto straordinario non sarebbe altro che il risultato di un’attiva partecipazione alle
performance rituali e sociali attraverso cui tali realtà sono generate o costruite. L’ipotesi è che
le esperienze straordinarie possano essere comprese non perché imbrigliate dalle griglie
concettuali degli antropologi, ma attraverso l’apertura delle spiegazioni antropologiche a un
altro modo di percepire, esperire e interpretare la realtà. L’etnocentrismo delle categorie
scientifiche rappresenta un ostacolo alla realizzazione di un reale incontro etnografico. In molti
casi diventa impossibile valutare la consistenza antropologica della descrizione di
un’esperienza di trasformazione personale. La disposizione dell’antropologo a provare
un’esperienza straordinaria è spesso attivamente ricercata nel quadro di interessi più
esistenziali che scientifici. L’interesse per queste esperienze si mescola al diffondersi di
orientamenti controculturali che assumono l’incontro etnografico come apertura personale al
sacro e all’alterità radicale. La pura e semplice immedesimazione con il punto di vista dei nativi
è stata abbandonata in favore della consapevolezza che l’antropologo, se vuol essere “uno con
loro e non uno di loro”, deve mantenere una forma di distacco dai loro resoconti. La riflessività,
che pure è considerata centrale, è vissuta sul piano esperienziale prima di essere pensata come
ingrediente costitutivo dell’interpretazione culturale. La soggettività del ricercatore diventa un
dato etnografico fondamentale. Nel corso degli ultimi anni, l’interesse degli antropologi dello
straordinario si è spostato dall’analisi dei contenuti delle esperienze straordinarie come tali,
agli effetti che l’impatto dei contesti di ricerca produce sull’elaborazione della conoscenza
etnografica. Nella maggior parte dei casi la ricerca etnografica esprime il meglio di sé quando
siamo fuori dalla nostra mente, quando ci lasciamo andare e dimentichiamo i nostri impegni di
ricerca. Il momentaneo abbandono della postura razionale e distaccata dell’osservatore
permette il passaggio a un nuovo e più alto livello di consapevolezza. La prospettiva invita a
concentrarsi sulla condivisione della vita quotidiana, sull’interazione prolungata e informale
con gli interlocutori, sulla partecipazione radicale incorporata del ricercatore. Si tratta di
assorbire un altro modo di vita attraverso l’interazione continuata con i suoi membri, sentirsi a
casa in due mondi, il proprio e quello altrui.

IL CORPO E LA SCRITTURA

Per l’incorporazione la parola è uno strumento che, da solo, non basta a delineare la
comprensione di un contesto, sia sotto il profilo relazionale e comunicativo, sia sotto quello
informativo e cognitivo. Un processo di socializzazione in un’altra forma di vita è supportato
nell’antropologia dal corpo attraverso una pratica di educazione all’attenzione, nonché la

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componente intersoggettiva e situazionale dell’apprendimento. Il ricercatore apprende certi
compiti allo stesso modo in cui li hanno appresi i suoi informatori, condivide con essi un vasto
sapere implicito. Questa rivisitazione dell’osservazione partecipante esaurisce
progressivamente il distanziamento del momento osservativo per assorbirlo interamente in
quello partecipativo, dando alla partecipazione una connotazione fortemente realistica.
Dismessi l’habitus distanziante dell’osservatore e il tratto invadente della parola, sembra che
l’integrazione venga da sé. Alla base della pratica ecologica dell’educazione dell’attenzione
c’è l’osservare, che significa imparare a vedere e ad agire come gli altri, sintonizzarsi sulle
medesime invarianti ambientali, dunque per ciò stesso partecipare. Tale condivisione, come
afferma Ingold, stabilisce un “livello basilare di socialità”. La comprensione antropologica
diventa una questione di apprendimento, di competenza e appartenenza a un mondo della vita
vissuta. Il going native diventa un imperativo metodologico: bisogna imparare a vedere e a fare
come gli altri. Tuttavia, la pretesa che l’altro si mostri attraverso l’incorporazione etnografica
è una forma di sublimazione rovesciata e speculare all’idealizzazione del linguaggio propria
dell’antropologia interpretativa e dialogica. Se l’enskilment culturale è un processo corporeo,
pratico e inconscio, il lavoro di interpretazione non può che essere intellettuale: l’antropologia
resta un sapere discorsivo. L’antropologia dal corpo lascia dunque aperto il problema di come
combinare l’impegno fisico del ricercatore con la finalità più generale della partecipazione
etnografica, che è di natura intellettuale e non pratica. In altre parole, le antropologie dal corpo
lasciano irrisolta una questione metodologica importante: come articolare l’impegno fisico del
ricercatore con le finalità teoriche e scritturali della disciplina? Esistono dati etnografici
intrinsecamente opachi al linguaggio che vengono raccolti unicamente dal corpo del
ricercatore. Il punto è come dirli.

AUTORITA’, AUTORIZZAZIONE, AUTORE

L’autorità dell’antropologo non è più autorizzata dall’appartenenza al potere coloniale che,


dopo aver contribuito allo sviluppo della disciplina, ne ha minacciato l’estinzione. Le ricerche
etnografiche si realizzano sempre più sotto lo sguardo critico di interlocutori che mettono in
discussione il diritto stesso di fare etnografia. Questa consapevolezza impegna l’etnografo a
negoziare contingentemente sul campo la propria autorità e ad affrontare le responsabilità
epistemologiche, metodologiche, etiche e politiche determinate dal proprio ruolo. Parte della
difficoltà del lavoro consiste nell’accreditare e controllare la propria autorità, evitando di subire
quella imposta da altri, che, generalmente, autorizza discorsi e pratiche difficilmente coerenti
con gli scopi della ricerca e con le finalità disciplinari. L’etnografia si fonda su un’insuperabile
gerarchia discorsiva, che non può essere risolta da improbabili esperienze empatiche o
dall’illusione di poter rimuovere, in effimere e spesso paternalistiche solidarietà o vuote
uguaglianze, la peculiarità del proprio posizionamento e le sue determinazioni. Non si può
attenuare la radicale asimmetria fra antropologo e interlocutori. Il compito del ricercatore si
definisce attraverso le competenze professionali, i linguaggi disciplinari e l’utilizzo di
appropriati strumenti concettuali per produrre la propria peculiare comprensione e, da questa
prospettiva, configurare eventuali contributi solidali applicativi e politici. L’intrinseca disparità
del rapporto antropologo-informatore implica una certa dose di violenza, che inerisce al lavoro
sul campo. La presenza del ricercatore è comunque un’intrusione, soprattutto perché il progetto
antropologico viola il progetto nativo. L’autorità dell’antropologo sul campo si fonda
sull’appartenenza alla comunità scientifica e si manifesta inesorabilmente nella scrittura. Per

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quanto cerchi di rimpiazzare il monologo con il dialogo, il discorso che produce rimane sotto
il suo controllo ed è sottoposto a convenzioni di stile e organizzazione del testo. Lo scopo
dell’etnografia è parlare di qualcosa per qualcuno: benché il lavoro di campo sia una
interlocuzione fra prime e seconde persone, gli antropologi scrivono per terze persone. Le
pratiche di scrittura sono definite da codici e generi specifici, di carattere scientifico, differenti
dalle storie di avventura o di viaggio, biografie, giornalismo o speculazioni culturali. La ricerca
si configura come in movimento di continua rielaborazione dello scritto, di trascrizione da
documento a documento. Produce un testo composito che mette insieme varie forme di fonti
scritte, dai diari alle note di campo, dalle trascrizioni delle parole degli interlocutori alle altre
etnografie e ad altri tipi di testi. La scrittura costituisce l’esito conclusivo delle negoziazioni
sul campo, il luogo di risoluzione delle tensioni fra l’esperienza etnografica e l’enciclopedia
del sapere antropologico. Il tempo della scrittura, come quello della ricerca, non è unico e
immediato. La scrittura finale del testo si conclude sempre a notevole distanza dalle ultime fasi
del lavoro di campo a cui si riferisce. La scrittura etnografica si configura come un lungo
processo di comprensione he inizia molto prima di andare sul campo e continua dopo che lo si
lascia. L’etnografia può essere pensata come una metanarrazione. Interroga il senso della
rappresentazione culturale ed esibisce la capacità della scrittura di elaborare un sistema testuale
contro il tempo e al di là dell’esperienza. Realizza il sapere antropologico in questa distanza,
trasformando l’esperienza vissuta in conoscenza scientifica.

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